La rivoluzione del 2011 ha segnato uno spartiacque nella storia del Paese, nonché in quella della regione. A dieci anni di distanza, il bilancio non può essere positivo: se dal punto strettamente politico, la Tunisia è approdata a un sistema democratico, da quello socioeconomico – principale volano sia delle proteste del 2011 che di quelle negli anni successivi – molte lacune sono rimaste, precludendo così l’effettiva realizzazione e il compimento della stessa rivoluzione.
1. Genesi della rivoluzione
Era il 17 dicembre 2010 quando il ventiseienne Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di frutta e verdura, vide la propria merce sequestrata dalla polizia durante una normale giornata di lavoro. La motivazione addotta alla base del sequestro era la mancanza del permesso di vendita per svolgere la professione che, però, secondo il capo dell’ufficio statale per l’impiego e il lavoro indipendente di Sidi Bouzid (governatorato dove viveva e lavorava Bouazizi), Hamdi Lazhar, non era necessario. A causa della bassa rendita data da quel lavoro, Bouazizi non era in grado né di pagare in natura né di corrompere la polizia, pratica diffusa nella Tunisia di Ben Ali, che fin dalla sua salita al potere nel 1987 – a seguito del cosiddetto colpo di stato “medico” con cui era stato deposto il leader dell’indipendenza Bourguiba – aveva costruito uno Stato leviatanico e onnipresente, nonché profondamente corrotto e clientelistico, favorendo la burocrazia le classi sostenitrici del regime stesso. È di fronte a una simile situazione che Bouazizi decise dunque di compiere un gesto estremo dato dalla disperazione: l’auto-immolazione. Quell’episodio, tanto tragico quanto apparentemente marginale (Sidi Bouzid è una delle zone più povere e marginalizzate della Tunisia), accese la miccia delle rivolte che avrebbero portato alla deposizione di Ben Ali il 14 gennaio 2011 e, da lì a pochi mesi, sarebbero esplose in tutto il mondo arabo. Quelle rivolte rappresentano una giuntura critica a tre livelli: nazionale, all’interno di ogni singolo Paese, rendendo il 2011 uno spartiacque delle storie nazionali; regionale, poiché in tutta la regione MENA il fenomeno ha avuto un impatto e ne ha modificato gli equilibri; internazionale (o sistemico), dal momento che ciò si è ripercosso sulle relazioni tra il mondo esterno alla regione e la regione stessa, con particolare riferimento al mutamento delle relazioni tra UE e Vicinato meridionale.
In questa sede non è possibile concentrarsi su tutti e tre i livelli, dunque mi limiterò ad analizzare solamente il primo, prendendo in considerazione un solo caso studio: la Tunisia, unico paese in cui effettivamente si sia realizzato il fenomeno rivoluzionario. Tuttavia, una piccola riflessione sulla dimensione regionale è necessaria, così da togliere dal campo ogni dubbio e disinnescare ogni eventuale rischio di ragionamento – tendenzialmente occidentale – in chiave monolitica. Il fenomeno della democratizzazione, come l’obiettivo delle rivoluzioni arabe del 2011, da un lato produce un set universale di eventi, simboli e processi, mentre dall’altro coinvolge un insieme molto più particolaristico di adattamenti realistici alle strutture, contingenze e circostanze dei singoli Paesi in uno specifico momento. Ciò significa che per comprendere le rivoluzioni arabe del 2011, nonché la fase successiva, è necessario considerare il contesto di riferimento. Questa specificazione aiuta a spiegare la ragione alla base della scelta della Tunisia e, in un certo senso, un abbozzo di valutazione circa il fenomeno rivoluzionario in tutta la regione. I paesi monarchici (Giordania, Marocco e monarchie del Golfo) sono riusciti a disinnescare le rivolte e ricondurle all’ordine, anche grazie a una reciproca collaborazione. Altri paesi, come l’Algeria, sono riusciti a cooptare i riottosi e assoggettarli alla struttura statale, grazie a un sistema di sussidi, bonus e aiuti vari; altri ancora, come l’Egitto, nonostante il successo in un primissimo periodo, hanno visto il ritorno dell’onta autoritaria impersonificata dal Generale Al-Sisi che, attraverso un colpo di Stato, ha riportato il Paese alla situazione antecedente il 2011. Infine, alcuni altri hanno vissuto in quel momento l’inizio (Libia e Siria) o la ripresa (Yemen) della guerra civile, tuttora in corso. In questo senso, la Tunisia è davvero l’unico caso che ha sperimentato con successo la rivoluzione portando alla trasformazione radicale del sistema politico, approdando a un sistema democratico. La domanda da porsi a questo punto è se effettivamente la rivoluzione in Tunisia si sia concretizzata e abbia raggiunto l’obiettivo inizialmente preventivato e perseguito dai manifestanti. Apparentemente sì: il regime clientelare e leviatanico di Ben Ali è crollato e al suo posto un nuovo sistema improntato sul multipartitismo e il riconoscimento dei diritti civili è emerso. Tuttavia, se l’analisi si limitasse a constatare ciò peccherebbe di superficialità e non darebbe giusto peso all’identità della rivoluzione stessa. È infatti importante considerare come sia nata nei fatti la rivoluzione del 2011 e quali ne siano state le istanze. Nonostante l’anno di riferimento sia il 2011, le proteste a Gafsa del 2008 ne rappresentano i prodromi. I tumulti erano la conseguenza di una serie di licenziamenti di massa attuati dalla CPG, a seguito del declino delle attività legate alle riforme degli anni Ottanta di stampo neoliberista (all’interno del cosiddetto Washington Consensus), che avevano creato una forte disparità sociale nella regione. In breve tempo quel movimento di protesta si era espanso fino ad attaccare l’intero sistema di potere di Ben Ali. Questo episodio mostra già come il problema in Tunisia, oltre che strettamente politico, fosse socioeconomico. Non è un caso che nei sondaggi del tempo della rivoluzione quale principale ragione alla radice della stessa vi fosse il miglioramento delle condizioni economiche (oltre il 60% della popolazione), così come non è un caso che la dimensione socioeconomica abbia continuato a essere il volano delle proteste anche negli anni post-Ben Ali, proprio a testimoniare come la condizione di privazione economica e di disuguaglianza – intraregionale e interregionale – fosse un problema percepito come primario nel Paese. Ciò non deve portare a conclusioni affrettate: il regime liberticida di Ben Ali è stato abbattuto ed è stato instaurato un nuovo regime democratico basato sul confronto elettorale libero e competitivo; una serie di nuove libertà, a partire da quella di espressione, sono state riconosciute e, confrontando, con gli altri paesi della regione, importanti passi avanti sono stati fatti. In sintesi, la dimensione socioeconomica non è la sola questione sul banco, tuttavia si è dimostrata essere la fondamentale sul lungo periodo.
2. Come le disuguaglianze restino una costante
I principali problemi sono da ricondurre al grande tema della disuguaglianza – tema sempre più presente nella maggior parte dei paesi al mondo, aggravato dalla pandemia in corso – che si declina sia in termini interpersonali che interregionali. In tal senso, il tasso di disoccupazione nel secondo trimestre del 2020 (18%) non è molto diverso da quello del 2011 (18,9%) e aumenta vertiginosamente se riguarda la coorte di età 15-24 (35,7%). Analogamente la disparità regionale è particolarmente vistosa, con un tasso di povertà minore nelle regioni costiere come Grand Tunis (5%) mentre maggiore in quelle dell’entroterra come la regione del Centro-Ovest (sopra al 30%). Questi problemi non rappresentano una criticità soltanto in quanto tali, ma anche in ragione degli eventuali riflessi sulle altre sfere della vita politica e sociale del Paese. Non a caso, le proteste di stampo socioeconomico sono aumentate all’indomani della rivoluzione del 2011 (399 nel 2016) rispetto a tutte le altre forme di protesta sommate del medesimo periodo (172 nel 2016) e i numeri sono maggiormente intensi nelle regioni che subiscono di più la disparità regionale. Tali ripercussioni non sono da prendere alla leggera: la Tunisia è una democrazia giovane e per certi versi ancora fragile, come ha dimostrato lo scontro sociale dopo la rivoluzione culminato nel duplice assassinio di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi nel febbraio e luglio 2013 e negli attentati terroristici del 2015, entrambi perpetrati da militanti islamisti, nonché nelle successive misure restrittive legate allo stato d’emergenza, che sono state in piedi per un periodo considerevole. Inoltre, nonostante il Paese sia approdato al multipartitismo e alla libera competizione elettorale, l’affluenza si è attestata su livelli modesti o su voti antisistema, quasi a testimoniare un’insofferenza da parte della popolazione, che si ripercuote anche sul giudizio della rivoluzione stessa: alla domanda se la rivoluzione avesse rappresentato più una vittoria o una sconfitta personale, quasi la metà della popolazione nel 2013 non era in grado di dare una risposta (39,5%) e più di un quarto della popolazione vedeva in essa una sconfitta personale (26,7%). Dati che coincidono con la valutazione della propria condizione sociale e dell’evoluzione della disuguaglianza. Il duplice volto della disuguaglianza crea una correlazione tra le frange della società più povere e socialmente svantaggiate e le regioni maggiormente marginalizzate: i primi risiedono per la stragrande maggioranza nelle seconde. Un’esclusione sociale di questi attori, con relativo disincanto di questi ultimi, non è salutare per la Tunisia post-rivoluzionaria, che si precluderebbe il raggiungimento di una democrazia completa anche dal punto di vista sociale.
Questa seppur breve analisi permette di delineare quantomeno una cornice interpretativa generale che dipinge la Tunisia come una sorta di visconte dimezzato: da un lato, appare come l’unico Paese che ha avuto successo nella rivoluzione del 2011, con l’instaurazione di un vero regime democratico e che è riuscito anche a consolidarsi nonostante alcune difficoltà di percorso – soprattutto rispetto allo scontro tra forze laiche e confessionali – e che nei momenti di crisi ha incanalato nello strumento elettorale l’insofferenza della popolazione; dall’altro un paese che è attraversato ancora da profonde disuguaglianze, sia interpersonali che interregionali, le quali hanno rappresentato un nodo importante nei tumulti del 2011 e che continuano a essere uno degli argomenti più caldi in seno all’opinione pubblica. Inoltre, il tema socioeconomico sembra avere ripercussioni importanti anche dal punto di vista politico, come testimoniano i dati legati al comportamento elettorale e alla valutazione della rivoluzione stessa, creando maggiore tensione e difficoltà che non sembrano essere risolvibili soltanto con il riconoscimento della libertà di espressione e associazione, ma che richiedono un ripensamento, anche alla luce delle conseguenze del Covid-19, del modello di sviluppo e delle priorità del Paese.
Luca Bennati
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