Al termine del vertice del G7 svoltosi a Taormina Il 26-27 maggio, i giudizi critici sui suoi risultati si sono sprecati; dai più massimalistici che ne hanno decretato l’inutilità e ne hanno deprecato i costi, a quelli più articolati che ne hanno stigmatizzato l’assoluta pochezza rispetto alle attese ovvero hanno esasperato la divaricazione tra Trump e gli altri 6 partner.
Sono decisamente in disaccordo con i primi perché ritengo superficiale non tenere nel debito contro il fatto che la maggioranza dei partecipanti non si conoscevano e che pertanto avevano bisogno di prendersi reciprocamente le misure; perché questo G7 ha messo attorno al tavolo una maggioranza di partner che – salvo la Cancelliera Merkel e il Presidente nipponico Abe – possiamo definire neofiti;
perché espressione di posizioni politiche diverse quando non contrapposte a quelle dei rispettivi predecessori e anche per questo bisognosi di profilare la propria immagine nei rispettivi paesi: pensiamo anche solo ai due casi più eclatanti: il Presidente francese Emmanuel Macron e, soprattutto, Donald Trump, l’anomalo, a dir poco, Presidente degli Stati Uniti. Ma pensiamo anche alla britannica Theresa May al suo debutto quale leader della Brexit. Perché infine la portata di questi aspetti era destinata ad ingigantirsi a causa del peculiare, nevralgico momento della dinamica internazionale, marcata da sfide particolarmente delicate e difficili, sotto il profilo politico, economico, sociale, della sicurezza, etc.; sfide destinate ad accentuare la divaricazione tra gli interessi dei singoli partner e i cosiddetti interessi comuni.
Tutto questo semplicemente per sottolineare la necessità di tener conto dei fattori di criticità che si sapeva avrebbero gravato su questo G7. Per non parlare dell’incognita Trump atteso a Taormina con funesti presagi.
Su questo sfondo dobbiamo almeno riconoscere che questo G7 non si è caratterizzato per quella stantia e sterile ritualità politico-istituzionale che non di rado avvolge le riunioni multilaterali, ma anzi, al contrario, per quello che si dice il “franco” dibattito che lo ha innervato e che certo la ruvidità di Donald Trump non ha addolcito.
Direi che anche la stessa brevità delle conclusioni – “solo sei pagine”, si è lamentato – non ne ha rappresentato necessariamente un difetto: il problema è stato semmai nei contenuti, nella loro concretezza operativa e nella chiarezza degli impegni reali, non nel numero delle frasi. Del resto la storia delle relazioni multilaterali è appesantita da documenti tanto lunghi quanto vischiosamente opachi e rimasti in gran parte incompiuti. Ebbene, penso che questa brevità abbia facilitato la “lettura” delle mediazioni intercorse e della loro ampiezza, come ad esempio in materia di protezionismo.
Dobbiamo allora essere pienamente soddisfatti di questo G7?
Certamente no, ma neppure gridare al fallimento.
- Prendiamo in esame, ad esempio, il tema del clima, il più divisivo dei dossier in agenda. Trump aveva più volte affermato che la sua Amministrazione aveva bisogno di riflettervi e che pertanto non ci sarebbe stata nessuna presa di posizione americana in seno a questo G7. E così è stato.
Ci si può rammaricare di questa sua coerenza? Certo, ma non la si può identificare come uno dei mancati risultati del vertice. Voglio invece sperare che le argomentazioni dei suoi partner a sostegno dell’applicazione della Convenzione di Parigi siano state di una tale forza da indurre il Presidente americano a rivedere almeno in parte la posizione negativa proclamata in proposito durante la campagna elettorale.
- Consideriamo il tema del protezionismo. Premesso che è in atto da molto tempo un’onda lunga di protezionismo a livello globale, Unione europea compresa, ho più che l’impressione che la formula riportata nelle conclusioni non sia affatto dispiaciuta alla maggioranza del G7, al di là delle lamentazioni ufficiali. Penso in ogni caso che il mondo degli interessi americani sia ben consapevole dei rischi di una sterzata protezionistica come Trump l’ha lasciata immaginare.
- Sul dossier migratorio penso che l’Unione europea – che soffre di un plateale debito d’ossigeno in materia e di cui l’Italia sta pagando forse il prezzo più alto – non fosse in condizione di potersi aspettare di più da parte americana viste le crepe disseminate sulla sua stessa tenuta dall’incrocio più o meno strumentale, più o meno populistico tra migrazione, accoglienza e sicurezza.
- Il terrorismo è stato per contro l’asse portante della convergenza del G7. Complice la strage di Manchester, e di quella in terra egiziana, sicuramente, ma complice soprattutto la priorità assegnata a questo cancro planetario da Trump e l’esito della sua missione in Medio Oriente e poi presso la NATO a Bruxelles.Su questo dossier si è raggiunta un’intesa che deve essere valorizzata perché di grande importanza, ma che nello stesso tempo deve essere confortata dai fatti, in termini di coordinamento e scambio delle informazioni, di controllo dei flussi finanziari, di contrasto militare e di politiche sociali e culturali sul territorio, etc. etc. Si tratta di fatti che ci riguardano molto da vicino perché se quest’intesa non si materializza in prima istanza tra gli europei rischia di essere un mero flatus vocis su cui Washington avrà un grande spazio libero. E le risultanze di scollamento tra servizi di intelligence che stanno emergendo da Manchester non depongono a favore. E si tratta di fatti che implicano un inedito spessore di collaborazione con le comunità e i paesi di prevalente fede islamica, ivi compresi anche gli Stati accusati di aver in qualche modo finanziato, di fatto, il terrorismo, magari alla luce della massima per la quale il nemico del mio nemico è mio amico.
In questo ampio contesto di qualche luce e diverse ombre, che dire di Trump? Ci si aspettava di peggio. Ma ha comunque posto anche per la distanza mantenuta nei confronti degli altri. Ha imposto il suo America first, talvolta con un senso di palese insofferenza e ha spinto in un angolo quella visione multilateralistica di cui si era ammantato Obama. Diciamo pure che la debolezza degli altri, in particolare dell’Unione europea, gli ha spianato la strada. Tanto più nell’assenza di Mosca. Ha comunque ascoltato e ha discusso: di Siria e di Iraq ad esempio.
Si è dimostrato “inaffidabile”?
Penso che usando quest’aggettivo la Cancelliera Merkel abbia fatto prevalere l’impeto della campagna elettorale a scapito di un’espressione politicamente più avvertita anche perché mi chiedo quanti dei paesi membri dell’Unione non abbiano condiviso le critiche che le sono state mosse da Trump. E penso che anche sulla scorta di quest’esperienza di Taormina l’Unione dovrà darsi un colpo di reni davvero federalista se non vorrà cedere rango e ruolo agli USA e alle altre potenze che si stanno affacciando sullo scenario internazionale.
Il G 20 di luglio ad Amburgo ci darà utili indicazioni.
L’Italia? All’altezza del ruolo e rango di cui si è stata investita. Il fascino di Taormina ha fatto il resto.