Nelle scorse settimane abbiamo avuto modo di osservare ed analizzare le trasformazioni del quadro politico francese e il percorso che ha portato Macron, leader del giovane partito/movimento En Marche, a conquistare l’Eliseo. Il risultato, per quanto ampiamente annunciato, non era di certo scontato.
In Francia, come in gran parte dei paesi europei, il sistema ” classico” dei partiti vive ormai da qualche anno, probabilmente a causa della crisi economica cominciata negli anni 2011/12, in uno stato di profonda crisi. Ciò ha, naturalmente, dato modo a “nuove” forze anti ideologiche – che hanno come obiettivo quello di “superare il sistema dei partiti” – di irrompere sulla scena politica di molti paesi: ed in Francia, Macron, ritiene di ascrivere il suo movimento in questo filone anti ideologico e anti partitico.
Provando però a tornare indietro e a ricostruire il percorso che ha portato a questa elezione, non possiamo far a meno di descrivere lo stato dell’arte della politica francese, almeno di tutte quelle forze che si sono proposte alla guida del paese. Fin dal periodo della campagna elettorale per il primo turno delle consultazioni presidenziali del 23 aprile scorso, leggendo i risultati dei sondaggi si è potuto bene intendere che a concorrere per il secondo turno non sarebbero stati i classici partiti espressione del centro destra e del centro sinistra, ma formazioni politiche più radicali e innovatrici.
I risultati definitivi, poi, hanno dato forza a questa aspettativa, consegnandoci ai primi due posti Emmanuel Macron e il suo neo nato movimento con il 24% e Marine Le Pen, leader del Front National con il 21,3% dei voti. Al terzo e quarto posto troviamo invece Fillon, leader del partito repubblicano (destra) con il 20% e il leader di France Insoumise (sinistra radicale) Mélenchon con il 19,6% dei voti. Quasi scomparso è invece il partito del presidente uscente Hollande, il partito socialista, il cui candidato all’Eliseo Hamon ha saputo accumulare soltanto il 6,4% dei voti.
Colpisce, dunque, che fra i primi piazzati ( quelli che in linea teorica peseranno nella costruzione del futuro parlamento francese), come partiti tradizionali troviamo soltanto il partito repubblicano, mentre le altre formazioni rappresentano in ordine: con Macron un superamento neoliberista del classico sistema economico e partitico rottamando la “vecchia politica”; con la Le Pen un nazionalismo antieuropeista “populista”; con Mélenchon il superamento del liberalismo in chiave socialista, la difesa dei diritti dei lavoratori e un forte investimento sul welfare.
Intensa ed incerta è stata la campagna elettorale per il ballottaggio. Il distacco iniziale fra le due formazioni era sottile e riuscire centrare il risultato delle consultazioni non era facile. Da un lato, per quanto innovatore a parole, avevamo un giovane trentanovenne della classe dirigente francese che ha già ricoperto importanti ruoli di potere economico e politico ( ha lavorato dal 2008 per la Rothschild & Cie Banque del quale è diventato associato nel 2010; nel 2012 viene nominato da Hollande come vice segretario dell’Eliseo e nel 2014 assume il ruolo di ministro dell’economia), dall’altro lato avevamo invece il nuovo Front National di Marine Le Pen, con un programma conservatore, intriso di xenofobia e razzismo e mirato alla lotta al terrorismo in chiave anti islamica, nazionalismo e che utilizza un linguaggio semplice rivolto direttamente alle periferie e a tutte le fasce più deboli della popolazione.
Il risultato, al ballottaggio, è stato un classico: molti elettori, trovandosi davanti una situazione molto incerta, hanno preferito votare quello che appariva il meno peggio o forse il meno pericoloso, consegnando una netta vittoria a Macron con il 66,1% dei voti contro il 33,9% della Le Pen. Pertanto, si può dire che l’elezione di Macron è stata una convergenza di spinte politiche eterogenee unite tutte dalla difesa dell’Unione Europea e dal desiderio di contrastare il fenomeno del populismo di destra, che ha assunto sempre più rilevanza dentro il quadro politico europeo e internazionale. Alla lista di dati fino ad ora elencati ne manca però uno che mettiamo all’ultimo, ma non per importanza. Al ballottaggio del 7 maggio il risultato “storico” davvero più interessante è stato il tasso di astensione che ha raggiunto il 25,44% degli aventi diritto.
La Francia non faceva i conti con un astensionismo così forte dal 1969. Record assoluto invece è rappresentato dal numero di voti nulli, infatti il 12% dei cittadini francesi che si sono recati al seggio ha lasciato la scheda bianca. In occasione della prima apparizione pubblica dopo la notizia della vittoria al ballottaggio, il nuovo presidente, attraverso la scelta di posizionare sul palco la bandiera europea al fianco del tricolore francese, ha espresso da subito con questo messaggio estetico il proprio europeismo spinto. Senza dubbio, possiamo affermare quindi che Macron non intende mettere in dubbio le istituzioni europee; non intende mettere in discussione la libera circolazione all’interno dell’area di Schengen e sembra lontano da posizioni interventiste militari in aree come la Siria.
Sul piano economico, sembra emergere un dato, ossia che il neo presidente intende assecondare il sistema di investimento e accumulazione del capitale, che automaticamente si traduce in un abbassamento del costo della manodopera con conseguente peggioramento delle condizioni dei lavoratori con licenziamenti, tagli al welfare così da garantire le migliori condizioni per le manovre finanziarie dei grandi investitori.
Dal programma con cui ha affrontato le elezioni, emerge una linea precisa, che prevede un taglio di 60 miliardi alla spesa pubblica, il taglio di 120.000 dipendenti pubblici, sospensione dell’indennità di disoccupazione per chi rifiuta 2 proposte di lavoro, attribuire libertà di scelta alle singole aziende sul monte orario lavorativo giornaliero e settimanale ed il versamento di un fondo da 10 miliardi per l’innovazione dell’industria ( cfr. Dati Il Sole 24 Ore).
È chiaro che, in un quadro come quello delineato finora, di instabilità politica evidente, di avvicinamento alle elezioni legislative e di debolezza dell’Unione Europea, tutto ciò non è semplice da attuare. Il governo di Macron dovrà prima di tutto riuscire a costruire le condizioni politiche adatte, fatte di accordi, alleanze e compromessi. Da questo punto di vista, inserendosi perfettamente in quella che sembra essere la linea di vari paesi europei, Macron propone la formazione di grandi coalizioni per combattere il populismo: lo ha dimostrato, tra l’altro, nominando primo ministro il sindaco di Le Havre, Edouard Philippe del partito neo-gollista Les Republicains, con lo scopo appunto di avvicinare l’area della destra moderata all’interno del progetto macroniano verso le elezioni legislative di giugno.
I ministri nominati per formare l’esecutivo sotto la guida di Philippe, sono stati scelti sempre con la logica del superamento dello scontro destra-sinistra, essendo stati infatti pescati fra i centristi e i socialisti, oltre che fra i neo-gollisti. La guida del ministero dell’economia è stata affidata al conservatore Bruno Le Marie e tutti gli altri ministeri sono stati distribuiti fra i partiti di cui dicevamo prima. Nonostante tutti questi tentativi di creare grandi coalizioni in grado di abbattere il nemico populista, la confusione è tanta sotto il cielo della Francia.
Marine Le Pen continua il suo percorso di trasformazione in senso sovranista del Front National, insistendo sul tema immigrazione e chiusura delle frontiere oltre che di uscire dall’ Unione Europea e riuscendo ad accumulare ulteriori consensi; La France Insoumise di Mélenchon continua a lavorare su tutto il pezzo dei lavoratori salariati e nelle periferie. Al di fuori delle istituzioni, i movimenti continuano a nascere dalla sfiducia nei confronti del sistema politico/economico che ha governato il paese in passato e che Macron non sembra per niente voler trasformare realmente.
Dall’analisi del quadro politico europeo, possiamo dunque affermare che è sì probabilmente superato il classico scontro fra destra e sinistra, ma lo scontro in ogni caso resta. È in corso una trasformazione dell’impostazione figurativa della contrapposizione e lo scontro sembra ormai rivolto dall’alto (UE e grandi coalizioni alla Macron) verso il basso (populismi e movimenti sociali). È difficile affermare se vincerà l’una o l’altra posizione, di certo le elezioni francesi di giugno rappresentano una prova importante per tutta Europa perché mettono in difficoltà quegli equilibri che già vacillano. Avranno sicuramente un peso per tutte le elezioni politiche degli altri paesi europei, che nei prossimi mesi si svolgeranno.
A sorpresa, poi, il 18 aprile il leader del partito conservatore e attuale primo ministro della Gran Bretagna Theresa May, ha invitato i cittadini britannici alle urne per l’8 giugno con l’obiettivo di conquistare il mandato necessario a poter terminare le trattative per la Brexit. Le elezioni anticipate hanno anche un altro valore: per la prima volta negli ultimi 10 anni il distacco fra Tories (partito del primo ministro) e il Labour è di circa 20 punti percentuali a favore dei Tories, cosa che può ingrandire notevolmente la maggioranza alla camera dei comuni, più di quanto non lo fosse con il governo di Cameron. Anche se non bisogna dare per scontata la vittoria dei conservatori, la situazione è ancora delicata e queste elezioni avranno anche il ruolo di “verifica” della scelta espressa con il referendum del giugno 2016.
La Germania, motore dell’UE, si prepara alle elezioni federali che si svolgeranno il 24 settembre, che vedranno contrapposti la coalizione CDU/CSU con a capo Angela Merkel e l’SPD con a capo Schulz. La vittoria sembra però già essere nelle mani dell’attuale cancelliera, che continua a constatare grazie alle elezioni amministrative di questi mesi un vantaggio assoluto della sua coalizione sull’SPD, che proprio pochi giorni fa ha perso il Nord Reno-Westfalia che rappresentava una storica roccaforte del partito di Schulz.
Per concludere, arriviamo alla periferia d’Europa. Per l’Italia, le elezioni francesi possono avere un grande valore di “indicazione”, perché le condizioni dei due paesi hanno delle similarità, sebbene i sistemi politico-istituzionali siano profondamente differenti.
Nel nostro paese, infatti, manca l’elezione diretta del capo dello Stato e il sistema parlamentare vigente, unito ad un incerto sistema elettorale, non danno certezze sul futuro, anche perché, francamente, non abbiamo un Macron italiano. Resta allora un interrogativo: come e cosa faranno i partiti tradizionali, sia di sinistra che di destra, per sconfiggere il populismo anti casta del M5S e il populismo sovranista e lepenista di Salvini. Le tentazioni di una “grande coalizione” sono molte, e i segnali di questi ultimi giorni, che vedono rinnovare il famoso patto del Nazareno sulla nuova legge elettorale, sembrano indirizzare in questa direzione.