Stefano De Angelis
Chieti, classe 1986, Stefano De Angelis è un sociologo e ricercatore esperto in fenomeni terroristici.
Laureato con lode in Sociologia all’università d’Annunzio di Chieti, corso post-laurea in Strategie di lotta al terrorismo nel ventunesimo secolo alla Duke University, De Angelis è docente di Sociologia dei Fenomeni Terroristici, Tecniche di Prevenzione e Contrasto presso la Questura di Chieti.
Il 24 febbraio 2016 ha firmato l’editoriale di America Oggi, dal titolo L’avanzata dell’Isis in Libia.
Ha riscosso grande successo anche oltreoceano: negli Stati Uniti ha infatti tenuto e tiene tuttora numerose conferenze. Tra le tante associazioni che gli hanno dato spazio il circolo Santa Margherita di Belice del Queens, il più antico in Nord America che ha ospitato, tra gli altri, Mazzini e Papa Woityla. Alla Columbia University ha parlato dinanzi a circa mille studenti.
É autore di: «Il terrorismo nell’era postmoderna», pubblicato nel 2014; «Pillole Liquide», edito nel 2015; «Isis Vs Occidente», bestseller del Novembre 2015 e «Le Parole della Jihad», appena pubblicato.
A cura di Alessia Girgenti
Stefano De Angelis è oggi una delle voci più giovani e brillanti nel campo degli studi sul terrorismo internazionale. Dopo il grande successo del bestseller “Isis vs Occidente” il sociologo ha da poco dato alle stampe il suo ultimo libro, dal titolo “Le parole della jihad”. Qui egli offre al lettore un vero e proprio vocabolario dei termini legati al terrorismo, frutto di un lungo lavoro di ricerca e annotazione. Il libro mette fin dalle prime pagine in luce la complessità del fenomeno terroristico, spesso frainteso o sottovalutato a causa di interpretazioni fallaci o poco accurate dei termini ad esso connessi. “Ecco che diventa un imperativo morale- afferma lo stesso De Angelis nell’introduzione- perfino per la società civile capire cosa si cela dietro una parola all’apparenza innocente, ma che detta da una determinata persona, in un determinato contesto e con una determinata tempistica, può divenire potenzialmente fautrice di una tragedia”. Da qui la necessità di comporre un “Glossario del terrore”, come lo definisce lo stesso De Angelis, che comprende termini ormai di uso comune e spesso improprio quali Attentato, Islam, Comunicazione, Califfato, Comunicazione, Daesh, Foreign Fighters, Islam, Sharia e così via.
- Nel suo ultimo libro, “Le Parole della jihad”, fornisce al lettore un approccio diretto alla “lingua del terrorismo”. Quanto ha inciso e incide tuttora, a suo parere, il ruolo giocato dalle conoscenze linguistiche e, più in generale, dall’interpretazione dei termini nell’idea che il cittadino medio ha del terrorismo jihadista? E quanto approfondita dovrebbe essere tale analisi per giungere ad una visione generale ma chiara dei fatti?
Direi che, allo stato dei fatti, l’uso quotidiano di certi termini molto in voga tra i fondamentalisti, abbia portato ad una sorta di sdoganamento del terrore, come se il terrore fosse diventato esso stesso parte del nostro quotidiano. Mi riferisco a termini come Allah Akbar, che vedo sempre più spesso inserito in post ironici sui social media volti a far sorridere l’utente finale, ma che dovrebbero generare solo un senso di morte e terrore, perché tale termine è il preludio di ogni attacco terroristico. Mi riferisco a jihad ad esempio. Pensi che giorni addietro leggevo su un quotidiano italiano, in merito ad una vicenda di politica locale, che un gruppo consigliare era pronto a fare la “jihad” nel caso in cui fosse passata una mozione avversaria.
Dico, ma stiamo scherzando? Parliamo la lingua del terrore con leggerezza, ci ridiamo su, nel mentre migliaia di persone muoiono ogni giorno sotto il fuoco dei fondamentalisti? Lo trovo sinceramente indegno di una società civile.
Ecco perché ho ritenuto opportuno scrivere una sorta di “vocabolario del terrore”, per fornire un’idea chiara al lettore finale di cosa si celi dietro parole troppo spesso considerate innocue.
- Si può effettivamente parlare di una “lingua del terrorismo”?
Si può parlare di un gergo terroristico, di una lingua propriamente detta direi di no. Ovviamente i terroristi usano doppi sensi e mistificazioni a proprio piacimento, rendendosi sempre più sfuggenti alle maglie della giustizia e dei nostri inquirenti. L’uso di termini sostanzialmente insignificanti, comporta una fluidità del terrore nel compiere le proprie azione e, al contempo, pone gli operatori dell’antiterrorismo in una posizione critica, in quanto troppo spesso mancano le cosiddette knowledges per interpretare adeguatamente tali idiomi.
- Nella prima parte del suo libro delinea il profilo di alcune figure nuove nel panorama della lotta al terrorismo, la cui nascita è indubbiamente collegata a un’evoluzione del modus operandi delle varie cellule terroristiche e, in primis, dello Stato Islamico. Ritiene che gli Stati, quelli europei in particolare, stiano adeguatamente adattando i propri sistemi di difesa e sicurezza a questa evoluzione?
Assolutamente no. La prova di questa impreparazione cronica dell’Europa alle sfide che il terrorismo 2.0 ci ha lanciato, è la facilità con cui il terrorismo attacca ovunque e costantemente in tutto il Vecchio Continente.
Incapacità di legiferare seriamente in materia di terrorismo, mancanza di comunicazione tra le diverse agenzie di intelligence, un’Europol incapace di agire come un reale e unico corpo di polizia europea, i confini sempre più porosi e facilmente valicabili dai foreign fighters di ritorno da Siria e Iraq, la burocrazia che spesso attanaglia gli inquirenti e li pone in una posizione da cui è difficile poter operare. E potrei andare avanti per ore.
Questi indizi lasciano figurare un Continente che attualmente sta brancolando nel buio in materia di lotta al terrore. Siamo ancora nella fase embrionale della nostra ipotetica azione, ad ogni attacco cerchiamo di immaginare un ventaglio di possibili politiche da implementare nel contrasto al terrorismo, ma tutto poi naufraga tra rivalità fra Stati e immobilità politica in quel di Bruxelles.
- Le sue scelte professionali l’hanno portata in giro per il mondo, anche negli Stati Uniti, dove i suoi studi hanno riscosso grande successo. Qual è, se c’è, secondo il suo parere, la differenza tra l’approccio statunitense al problema del terrorismo internazionale rispetto a quello adottato nei paesi europei e in particolare nel nostro paese?
La grande differenza tra Usa e Europa, soprattutto nell’epoca Trump, probabilmente risiede nel pragmatismo, nella forza e capacità di reazione che hanno queste due entità. Gli Stati Uniti nel giro di quarantotto ore hanno messo a segno tre colpi di alta classe geopolitica (l’attacco alla base siriana, lo sganciamento del MOAB sui tunnel Isis in Afghanistan e l’ultimatum alla Corea del Nord), che hanno riportato negli USA lo scettro di prima potenza militare al mondo. Sarebbe impensabile una cosa simile con questa Europa così divisa, così immobile e così affetta dalla sindrome del politically correct. Ovviamente influiscono anche alcuni fattori economici e culturali, che sembravano scomparsi sotto la Presidenza del democratico Obama, ma indubbiamente gli USA odierni sono un Paese più risoluto e deciso a combattere il terrore rispetto ad un Continente che rischia addirittura di dissolversi alla prossima defezione.
- Già nel bestseller “Isis vs Occidente”, e ora anche ne “Le parole della jihad” ha messo in luce le peculiari caratteristiche dei processi di comunicazione innescati dallo Stato Islamico, che contribuiscono a crearne il successo. Quali sono a suo parere i punti di forza di questa vera e propria campagna di comunicazione? E come neutralizzarli?
Il Daesh ha compreso, a differenza di Al Qaeda prima e dei vari gruppi terroristici poi, le potenzialità del mezzo informatico. Ha intravisto in internet un formidabile mezzo per veicolare milioni di giovani nelle fila terroristiche, lo ha concepito come un mezzo di promozione del terrore, arrivando perfino a organizzare un “ministero della propaganda” per le varie campagne marketing che l’Isis ha svolto negli ultimi anni su internet.
In tale senso, si può dire che il Daesh ha rivoluzionato il modo di fare terrore. Soltanto quindici anni fa il terrorismo viveva arroccato tra le montagne dell’Afghanistan, chiuso in caverne e dedito all’uso di primitivi VHS per comunicare le sue intenzioni al mondo. Oggi, grazie alla diffusione capillare del terrore mediante social media e blog vari, il terrorismo vive tra noi, radicalizza giovani prima inavvicinabili, ha creato milioni di potenziali bombe pronte ad esplodere nelle nostre città.
Combattere un fenomeno simile, specialmente in una società sempre più globalizzata come la nostra, non è affatto semplice. In tale direzione svolgono un ruolo chiave i dipartimenti di Polizia Postale, campagne di sensibilizzazione ad un uso corretto del mezzo informatico tra i più giovani, il monitoraggio dei siti considerati “a rischio”, la conoscenza di dove possiamo trovare quel che a noi interessa, ovvero i terroristi.
Se c’è una sfida per cui dobbiamo essere realmente pronti, è quella di combattere il terrore in maniera globale, con l’intelligence, con gli eserciti, con una seria attività di prevenzione sul territorio, ma anche con un’economia impermeabile ai capitali del terrore, con una scuola attenta alle devianze delle nuove generazioni e una società più consapevole di quel che sta accadendo nella nostra civiltà.