Speciale ISIS


LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Speciale ISIS
a cura di
Fabio MarcelliGiurista internazionale e ricercatore dell’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR


ISIS e Occidente, il nemico/alleato perfetto
Fenomeno
inatteso e scarsamente conosciuto, per nulla previsto, la rapida e
apparentemente irresistibile ascesa dell’ISIS costituisce una nuova conferma
della sostanziale inettitudine dei servizi d’informazione delle principali
Potenze. In pochi giorni i suoi combattenti, apparentemente ben addestrati e
meglio armati, hanno conquistato estesi territori in Iraq e Siria, facendosi
poi conoscere con una dirompente strategia mediatica basata sulle decapitazioni
in diretta degli ostaggi inermi ed innocenti ed instaurando nei territori
occupati un regime basato sull’applicazione delle leggi islamiche nella
versione più estrema, la schiavizzazione delle donne, la confisca dei beni di
coloro che non accettano convertirsi.
I proclami
lanciati dall’ISIS terrorizzano l’Occidente. Eppure lo stesso ISIS è in buona
misura il prodotto di politiche e scelte occidentali che hanno gettato le basi
del fenomeno e fertilizzato il terreno da cui è scaturito.
Venirne a capo
implica pertanto il rovesciamento di queste politiche. Cosa che non risulterà
per nulla facile dato che esse sono strettamente implicate con gli interessi di
fondo delle classi dominanti occidentali. La cosa principale da intendere è
tuttavia come tali politiche e la crescita del fondamentalismo, anche nelle
forme assunte dall’ISIS siano strettamente connesse. Simul stabunt et simul cadunt.
Si tratta di
un’esigenza alquanto urgente. Le orde fondamentaliste infatti si riversano su
tutta l’area medio-orientale. La loro capacità di attrazione è direttamente
proporzionale al vuoto di prospettive di futuro che la società occidentale
presenta di fronte ai giovani, specie alle seconde generazioni provenienti da
Paesi islamici. Sintomatico peraltro il fatto che perfino in Giappone la
polizia ha intercettato un tredicenne che avrebbe voluto unirsi all’ISIS. E non
si trattava neanche, a quanto pare, di una persona di fede islamica.
Come in
tutti  i momenti di grave crisi, non solo
economica, ma sociale, politica, culturale, ideale, quello attuale si rivela
particolarmente propizio all’emergere di forze estremiste, che sotto la
copertura di un’ideologia pseudoreligiosa di stampo fondamentalista praticano
il terrorismo e la violazione su larga scala dei diritti umani. Non è pensabile
un loro contrasto sul terreno prettamente militare e dell’intelligence se non accompagnato dalla promozione di modelli
alternativi. Occorrono quindi un’approfondita conoscenza del nemico e dei
fattori che ne hanno consentito la nascita e la crescita e una controffensiva
sul terreno politico e del modello di società.
La minaccia è
concreta e vicina. Infatti, i recenti successi delle forze fondamentaliste in
Siria ed Iraq rappresentano sempre più una minaccia diretta nei confronti
dell’area mediterranea. Esse si proiettano verso il Libano e in prospettiva
verso l’Europa, dove si attende il ritorno delle centinaia di combattenti che
stanno svolgendo il loro tirocinio militare in Iraq e Siria approfittando delle
contraddizioni delle politiche occidentali.
Anche se, come
dimostrato dai ripetuti successi delle forze kurde di autodifesa, specie a
Kobané,  non si tratta per nulla di
guerrieri invincibili, non va per nulla sottovalutata la potenzialità esplosiva
della miscela tra fanatismo religioso ed interessi geopolitici ed economici di
varia natura rappresentata dal gruppo, frutto del resto a sua volta della
metamorfosi, scissione e riunificazione di forze preesistenti. Come ogni gruppo
fascista che si rispetti, anche l’ISIS del resto trae il suo potere e la sua legittimazione
in primo luogo, se non esclusivamente, dall’uso sfrenato della violenza armata,
preferibilmente ai danni di popolazioni inermi. Sarebbe interessante in questo
senso approfondire il significato del rientro in forze del gruppo sulla scena
dopo che, alcuni fa, i suoi eccessi e le reazioni destate in vari settori del
mondo sunnita irakeno lo avevano fortemente indebolito.
Scenari e fattori: il tragico minuetto tra Occidente
e fondamentalismo
Va quindi detto per
cominciare che la nascita di questo movimento ha trovato un terreno
particolarmente fertile nella situazione di caos programmato che le principali
Potenze, Stati Uniti in testa, hanno voluto imporre alla regione, a partire
dall’invasione dell’Iraq nel 2003. A tale invasione, che ha costituito una
gravissima violazione del diritto internazionale rimasta priva di ogni sanzione
e condanna significativa, si sono accompagnate massicce violazioni dei diritti
umani, come le uccisioni extragiudiziali, le torture e le sparizioni. Di tali
episodi si sono resi protagonisti in un primo tempo direttamente i militari
statunitensi che hanno poi delegato le relative attività al governo fantoccio
presieduto da Maliki. Si è trattato evidentemente di un gravissimo errore, dato
che la politica settaria, corrotta e repressiva attuata da quest’ultimo ha
aggravato la divisione esistente fra sunniti e sciiti.  I primi, emarginati da ogni livello di
governo e sottoposti a brutale repressione, hanno infine trovato nell’ISIS un
proprio paladino.
Parallelamente,
negli ultimi anni, e a partire dalle rivoluzioni arabe del 2011, le Potenze
occidentali hanno fomentato la guerra civile in Siria, approfittando della
delegittimazione del regime di Assad, che scatenava una feroce repressione
contro le proteste democratiche. L’azione di destabilizzazione si è appoggiata
anche qui sulla divisione fra sunniti e sciiti. E’ infatti alawita, e quindi
facente parte dell’islamismo sciita, la minoranza di cui fa parte la famiglia
Assad, che è al potere da tempo. L’azione di destabilizzazione esterna ha teso
a fomentare il ricorso alla lotta armata contro il regime, che ha visto il
prevalere, di fronte alle fragili milizie del cosiddetto Esercito siriano
libero, le componenti fondamentaliste organizzate in un primo tempo in Al Nusra, una frazione locale di Al Qaeda, e poi nell’ISIS.
Un ruolo di
fondamentale importanza nel sostegno a queste forze fondamentaliste è stato
svolto dai regimi reazionari dell’area, soprattutto Arabia Saudita e Qatar, ma
in misura minore anche la Turchia. Oltre a riprendere un ruolo di
fiancheggiamento dell’imperialismo occidentale svolto a partire dall’intervento
sovietico in Afghanistan, tali Stati mirano in tal modo a conseguire propri
obiettivi di interesse strategico, quali l’attuazione di una controrivoluzione
preventiva volta ad impedire che l’afflato liberatorio delle Rivoluzioni arabe
li coinvolga e il contenimento della potenza iraniana, molto attiva nel
sostegno sia ad Assad che a Maliki. Nel caso della Turchia, vi è anche
l’interesse a combattere la rivoluzione kurda, che si è consolidata nella Siria
nordorientale con l’instaurazione della regione autonoma della Rojava e si sta
consolidando in tutta la Turchia, in stretto rapporto con le forze democratiche
che si oppongono al regime di Erdogan.
Non si deve
d’altronde sottovalutare l’importanza acquisita, sullo scenario internazionale,
da regimi come quello saudita e quello qatariota, i quali grazie
all’accumulazione finanziaria conseguente al boom petrolifero degli anni
Settanta, si sono convertite non sono in alleate (lo erano già prima) ma anche
in finanziatrici degli Stati Uniti. Con i settori più reazionari
dell’amministrazione statunitense, che sono coloro che, Obama o non Obama,
controllano, dirigono e decidono la politica estera di Washington, tali regimi
intrattengono d’altronde strettissimi rapporti, sottolineati proprio nel
contesto successivo all’attentato dell’11 settembre, che presenta d’altronde
come noto aspetti per nulla chiari, al punto che taluno si è spinto ad
ipotizzare una certa accondiscendenza nei confronti degli attentatori da parte
dell’apparato di sicurezza statunitense. Una sorta di incendio del Reichstag in chiave islamico-bushista.
Non va peraltro
nascosto che in alcuni casi sono stati gli Stati Uniti in prima persona a
decidere di finanziare ed armare l’ISIS, nella stolida convinzione che la sua
espansione potesse in qualche modo servire i loro interessi, dopo che era
fallito il piano di attacco ad Assad e si sentiva la necessità di bilanciare in
qualche modo l’evidente influenza dell’Iran sul governo irakeno. Thierry
Meissan ha reso noto in questo senso che una sessione segreta del Congresso
avrebbe deliberato il sostegno all’ISIS nel gennaio 2014. Notizia interessante
e indubbiamente da verificare.
Come evidenziato
da Meissan, ciascuna delle potenze facenti parte dell’evanescente coalizione
anti-ISIS (che fino a poco tempo fa appariva molto di più come coalizione
pro-ISIS) appare ispirata da suoi obiettivi: il controllo delle enormi fonti
petrolifere della zona per gli Stati Uniti, la salvaguardia delle proprie
frontiere e lo svolgimento indisturbato del proprio progetto di colonizzazione
e tendenziale annientamento dei Palestinesi per Israele, la penetrazione nel
proprio ex impero coloniale per la Francia, il ripristino di una sorta di
Impero ottomano del Terzo Millennio per la Turchia.
In tutti questi
casi l’ISIS e in genere il fondamentalismo islamico costituisce un asset strategico di tutto rispetto,
anche per la forza di attrazione ideale che esercita sulla diaspora dei
jihadisti. Esso infatti presenta un potenziale di destabilizzazione strategica
enorme nei confronti delle principali Potenze antagoniste dell’Occidente, Russia
e Cina, che contano ciascuna delle regioni popolate da islamici. Come pure
dell’India, dove l’avvento al potere dell’integralista indù Modi appare
destinata ad aggravare le tensioni interreligiose e quelle con il Pakistan.
L’ISIS tuttavia
persegue un proprio obiettivo che può entrare in contraddizione diretta con i
suoi mentori diretti e indiretti. La sua rapida avanzata, e il deliberato
ricorso alle spettacolari e disumane esecuzione di cittadini britannici e
statunitensi, ha spinto il governo degli Stati Uniti a ricercare un’alleanza
regionale volta a contrastarla, ma che si rivela di non facile attuazione, come
dimostrato dal rapido sgretolamento del potere del governo irakeno nella zona
del cosiddetto triangolo sunnita e dalle “esitazioni” della Turchia che ha
impedito ai Kurdi di portare soccorso alla città di Kobane, assediata oramai da
varie settimane. Salvo concedere alla fine il passaggio di qualche centinaio di
peshmerga provenienti dal governo
regionale di Erbil, a condizione che fossero comunque salvaguardate le proprie
esigenze di lotta ad Assad e al PKK kurdo che intrattiene fraterni rapporti con
le milizie kurdo siriane del YPG e dell’YPJ.
Lo studioso
Mohammed Hassan ha peraltro messo in luce le convergenze esistenti fra
Occidente e forze fondamentaliste in varie situazioni. L’Occidente, e il
governo statunitense in primo luogo, attua, nei confronti di tali forze, una
politica che è poco definire schizofrenica, utilizzandole in taluni contesti,
come da ultimo in Libia e Siria, salvo poi tentare di sganciarle quando si
avvede che possono diventare un pericolo anche per i propri interessi. Quasi
mai tuttavia lo “sganciamento” è possibile in termini rapidi e indolori.  La vicenda libica appare esemplare in questo
senso, laddove si pensi che il console statunitense a Bengasi fu ucciso assieme
ad altri funzionari dell’Intelligence
statunitense, proprio dai fondamentalisti che aveva fino a poco tempo prima
finanziato, armato e sostenuto in ogni modo.
Un elemento
strategico di convergenza tra ISIS ed analoghe milizie fondamentaliste da una
parte, e potenze occidentali dall’altra, risiede, pertanto, nella volontà di
promuovere la guerra.  Per gli uni
quest’ultima rappresenta l’estrema garanzia che i propri interessi non saranno
scalfiti dall’avvento di situazioni nuove o dal mantenimento di vecchi
equilibri che più non li soddisfano, per gli altri la guerra costituisce lo
strumento principale per affermarsi.  Non
è pertanto casuale che le potenze occidentali si siano adoperate, rispetto al
conflitto libico, per scongiurare in ogni modo la possibilità di un negoziato e
di una soluzione pacifica caldeggiata dall’Unione africana, che aveva raggiunto
dei risultati con una missione in loco
sostenuta soprattutto dal Sudafrica, abusando del mandato ottenuto dal
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, intervenendo apertamente a fianco
degli insorti e arrivando fino all’estrema conseguenza del linciaggio di
Gheddafi. Risultato: la Libia è tuttora in preda a un caos indescrivibile dal
quale difficilmente potrà uscire. Mentre il governo italiano, interessato a una
soluzione pacifica e, mediante ENI, allo sfruttamento delle risorse petrolifere
libiche, assiste impotente e privo di idee.
Il caso della
Libia peraltro è esemplare anche per la proiezione su scala internazionale del
jihadismo cui esso ha dato luogo, dopo che parte degli islamisti insorti contro
Gheddafi con l’aiuto della NATO si sono diretti in Mali dando luogo a nuovi
focolai di insurrezione repressi dall’intervento francese. E’ lecito porsi la
domanda se questa alimentazione reciproca fra intervento occidentale e
jihadismo non sia voluta per creare instabilità politica e soddisfare le
aspirazioni dei mercanti di armi e di mafie varie. Il fondamentalismo islamico
armato, quindi, risulta pienamente funzionale all’instaurazione dello stato
d’eccezione che consente di tenere sotto controllo ampie (sempre più ampie)
aree del pianeta che rischierebbero altrimenti di sfuggire all’emprise di multinazionali e
neocolonialisti.
L’ISIS
costituisce anche da questo punto di vista un case in point, dato che la conquista degli stabilimenti petroliferi
da parte dell’organizzazione in una delle aree più ricche di combustibile del
pianeta, ha allontanato la minaccia della penetrazione di imprese appartenenti
ai BRICS, cinesi e russe in particolare, che si stavano avvalendo della
mediazione iraniana per accedere a queste risorse.
Non bisogna del
resto scartare l’ipotesi che la carta dell’ISIS sia stata giocata
consapevolmente dopo il fallimento, data la ferma opposizione di Russia e Cina,
di attuare anche in Siria il giochino libico.
La
complementarietà tra ISIS e classi dominanti occidentali è stata affermata di
recente da Nazaran Arminian, che ha enunciato ben 23 “verità scomode” a
proposito dell’ISIS. In primo luogo il costante utilizzo di forze
fondamentaliste armate e terroristiche per destabilizzare varie situazioni:
dall’Afghanistan ai tempi dell’intervento sovietico, al Kosovo (va sottolineato
che Abdelmajid Bouchar, coinvolto nell’attentato dell’11 marzo a Madrid, fu
arrestato a Belgrado nel 2005), ad Ansar
al-Sharia
in Libia, ai gruppi fondamentalisti operanti contro Assad in
Siria.
Il ruolo del
governo qatariota come “bancomat” dell’ISIS è stato affermato dal ministro
dello sviluppo tedesco, Gerd
Mueller,  mentre è stata in qualche
occasione Hillary Clinton, a sottolineare quello dell’Arabia Saudita come
finanziatore globale del terrorismo jihadista. Lo stesso regime saudita con il
quale gli Stati Uniti hanno firmato un’accordo di vendita di armi per un
importo pari a 640 milioni di dollari, armi utilizzate  per reprimere le proteste democratiche in
Bahrein e Yemen, ma sicuramente finite in mano agli ottimamente equipaggiati
fondamentalisti, in particolare ISIS. D’altra parte gli Stati Uniti chiudono
entrambi gli occhi sul contrabbando di petrolio effettuato da quest’ultimo e
che ne costituisce a oggi la principale fonte di finanziamento. Né hanno avuto
alcuna reazione dopo che ISIS si era impadronito di un magazzino militare
iracheno contenente 2.500 missili caricati a gas Sarin e 40 kg di uranio
sottratti nel momento dell’attacco all’Università di Mosul.
Perché gli Stati Uniti impiegano
oggi solo una piccola parte del proprio enorme potenziale militare nei
confronti di ISIS, dopo aver annientato in poco tempo le ben più temibili
armate di Saddam Hussein? Perché tollerano il persistente appoggio di Arabia
Saudita, Qatar e Turchia ad ISIS? Anche nel caso di Kobané i pur essenziali
bombardamenti degli assedianti sono venuti solo dopo la mobilitazione
dell’opinione pubblica statunitense e mondiale e tuttora con una certa
reticenza. E’ evidente la volontà degli strateghi statunitensi di continuare a
contare su questa organizzazione o su organizzazioni analoghe per portare
avanti i propri interessi. Determinante risulta come accennato il ruolo di
controrivoluzione preventiva affidato a gruppi di questo tipo che agitano la
bandiera dell’anti-imperialismo in modo puramente strumentale e che portano
avanti una battaglia anticolonialista solo per restaurare un regime, in gran
parte frutto di puro vaneggiamento 
ideologico-religioso, ancora peggiore quanto a rispetto dei diritti dei
singoli e della collettività. Non sarà quindi da Washington e dai suoi alleati
che verrà la sconfitta di ISIS, strumento che viceversa essi continuano ad
utilizzare con notevole spregiudicatezza al fine di accentuare la
destabilizzazione dell’area e contenere la penetrazione di soggetti considerati
ostili nel contesto di una generale contrapposizione fra Occidente e potenze
emergenti, ma anche della necessità che le forze reazionarie avvertono sempre
più fortemente di impedire lo sviluppo nell’area di esperienze autenticamente
democratiche e rivoluzionarie.
Identità: interpretazione reazionaria della
religione come alternativa al modernismo in tutte le sue salse
L’identità
dell’ISIS è fortemente legata all’interpretazione più estrema della Sunna. Tale ideologia prevede nel modo
più estremo l’impossibilità di separare la religione dalla politica. La
politica quindi va subordinata alla regione e a un modello gerarchico e
teocratico, che vede l’interpretazione del messaggio e della volontà di Allah
come prerogativa assoluta di una ristretta élite
di guerrieri che si autolegittimano con l’esercizio della violenza. Una via di
mezzo fra la Chiesa preconciliare e la mafia degli ultimi decenni. Da questo
nasce l’obiettivo del Califfato, inteso come progetto religioso e politico al
tempo stesso, che intende dare una risposta alle frustrazioni più o meno
recenti vissute dai musulmani sunniti, incontrando appunto il favore degli
Stati reazionari dove sono al potere delle élites
sunnite.
Fra tali
frustrazioni vale la pena di ricordare quella, vissuta in un passato
relativamente recente, con il tradimento da parte delle Potenze occidentali
della promessa di restaurazione del Califfato fatta agli arabi per fomentarne
la rivolta contro l’Impero ottomano, che culminò nella spartizione coloniale
dei territori arabi con la cosiddetta linea Sykes-Picot e con la Dichiarazione
Balfour, relativa alla formazione di un “focolaio ebraico” in Palestina. Va
anche ricordato ai regimi coloniali, in Paesi come l’Iraq e la Siria, ma anche
per molti versi in Egitto, Libia ed altrove, successero regimi militari dediti
a reprimere la propria popolazione e a soffocare ogni tentativo
democratico.  Questi stessi regimi si
scontrarono, e continuano a scontrarsi, con le forze islamiche, come la
Fratellanza musulmana in Egitto le quali vennero quindi a interpretare per
certi aspetti le istanze popolari.
Ciò spiega oggi
la loro popolarità in alcune situazioni. Ciò non toglie che, come spiega
Mohamed Hassan, forze come “Ennahada” in Tunisia o i Fratelli musulmani in
Egitto sono da un lato a favore del capitalismo come sistema economico e
dall’altro presentano un’ideologia fortemente anticomunista e reazionaria.
Hassan spiega come, a partire dalla guerra contro i sovietici in Afghanistan,
si sia formata e alimentata una massa d’urto formata da giovani islamici provenienti
da vari Paesi, che hanno fatto della guerra la propria professione e nutrono
l’ideale di uno Stato islamico governato in tutto e per tutto dalla shari’a. La relativa ideologia si nutre
delle frustrazioni personali e sociali di uno strato di maschi in genere
appartenenti alle classi medie che di fronte alla crisi e alla persistente
politica di dominazione imperialista dei loro territori, e in assenza di
alternative popolari, si rivolgono al fondamentalismo.
Tale ideologia
presenta parecchi punti in comune con il nazismo e in genere l’estrema destra
occidentale. Se il primo è nato e si è sviluppato individuando gli ebrei come
capro espiatorio, se la seconda tenta oggi di prosperare additando i migranti
come causa del disagio delle popolazioni indigene europee, i fondamentalisti
islamici aspirano al ripristino dell’epoca d’oro del Califfato e vaneggiano
l’instaurazione di una società dove agli eletti siano riservati i privilegi
mentre il resto della popolazione è condannata alla schiavitù e all’assoluta
mancanza di diritti.
Un ruolo chiave
in tale contesto è rappresentato dalla subordinazione della donna, relegata nei
ruoli tradizionali di moglie/madre/oggetto sessuale. A tale fine, come ad
altri, si attinge alle parti più discutibili del testo sacro, il Corano che
d’altronde costituisce, come del resto altri testi del genere, quali la Bibbia,
un magazzino di citazioni e di norme con le quali si può praticamente affermare
tutto e il suo contrario.
E’ stato
peraltro ravvisata una sostanziale convergenza tra le correnti più
“solidariste” dell’islamismo politico, quali soprattutto i Fratelli musulmani,
da un lato, e quelle più radicali e belligeranti, come l’ISIS, ravvisando una
comune radice ideologica in Sayid Qutb, che operò negli anni Trenta e Quaranta
dello scorso secolo. Quest’ultimo presenta, nell’analisi svolta da Hassan,
significative analogie con il pensiero della destra cattolica che assunse “la
difesa del capitalismo, del colonialismo e anche del nazismo” di fronte alla
minaccia rappresentata dai bolscevichi. Cardine di tale ideologia è la difesa
di un ordine di tipo feudale, che si accredita come “naturale” a fronte di
qualsiasi velleità di cambiamento e di aspirazione a un ordine sociale più
giusto. Anche se occorre ravvisare una certa ambiguità per quanto attiene al
rapporto con l’imperialismo e con il colonialismo, che per certi versi vengono
rigettati dalle tendenze islamiste in quanto negano la loro autonomia e il loro
sogno di reviviscenza del Califfato.
Sayyid Qutb
radicalizzò molto il suo approccio nel corso del suo viaggio negli Stati Uniti
dal 1948 al 1950, durante il quale rimase scioccato dalla “degenerazione
spirituale e morale” ed ebbe a constatare che “nessuno è lontano dalla
spiritualità e dalla pietà quanto gli Americani”.   Il rifiuto della civiltà occidentale in
quanto materialista e corrotta, si estendeva anche ad aspetti quali democrazia
e nazionalismo.
La negazione
della democrazia, sia nella sua versione capitalista che, a maggior ragione, in
quella socialista, costituisce quindi un aspetto di tale ideologia, aspetto che
peraltro essa condivide con i regimi reazionari della regione, specie Arabia
Saudita e Qatar, che escludono da ogni diritto buona parte delle rispettive
popolazioni, in particolare donne e immigrati. La democrazia, di qualsiasi
genere, non costituisce del resto affatto un ingrediente immancabile del
sistema capitalistico, che da esse prescinde volentieri ogniqualvolta siano
messi in pericolo i propri fondamentali interessi.
E’ bene tuttavia
sottolineare con forza, come, contrariamente a quanto affermano analisti
frettolosi e in qualche caso tendenziosi, lo scontro fra fondamentalismo
islamico e Occidente non costituisce affatto la traduzione in pratica dello
scontro fra civiltà vaticinato da Huntington come alternativa praticabile
all’eclissi del nemico che si era determinata a seguito del venire meno dei
blocchi contrapposti.
Proprio
l’analisi della situazione appena descritta mostra infatti come esistano, in
seno all’Islam, molteplici visioni e approcci differenziati che vanno ben al
di  là della spaccatura fondamentale tra
sunniti e sciiti. Anche in seno ai sunniti, infatti, esistono scuole di
pensiero fra loro molto differenti, anche se va registrata per effetto
parallelo della diffusione dei jihadisti e del denaro saudita, una forte
crescita di quella wahabita, ispirata dalla lettura più rigorista e reazionaria
possibile degli insegnamenti del Corano.
A conferma dell’assunto generale secondo il quale
la religione, come ogni ideologia, serve più che altro a coprire e giustificare
interessi concreti, giova rilevare come questo fondamentalismo esasperato
costituisca la scelta compiuta da giovani, provenienti anche dall’Europa, che
scelgono la jihad come una sorta di
avventura esistenziale basata su di una carriera militare alternativa alle
frustrazioni della crisi, della disoccupazione e dell’emarginazione giovanile,
tanto più grave nelle periferie di Parigi, Londra e altre città europee, come
pure in quelle delle metropoli senza speranza del Maghreb. Un’interessante analisi dell’ideologia e della base
sociale dell’ISIS è quella compiuta dalla giornalista Claire Talon,
in un articolo riportato su Internazionale: “Il fenomeno dello Stato
islamico può essere visto come la copertura di un’avventura coloniale che trova
nelle periferie di Londra, Strasburgo e Stoccolma le reclute più adatte. Le
motivazioni di questi combattenti spesso non hanno molto a che vedere con
l’Islam”.
Del resto il carattere estremo dei metodi di
combattimento adottati e la natura estremista dell’ideologia nutrita da ISIS
hanno condotto alla sua scomunica da parte di quasi tutte le autorità religiose
sunnite. Ad ulteriore smentita dello schemino interpretativo semplicista e
strumentale adottato, sulla scia di Huntington, da parte di taluni commentatori
occidentali superficiali, disinformati o in aperta malafede.
Prospettive della lotta al fondamentalismo
Per certi versi
l’ISIS, con il suo sogno di restaurazione del Califfato, sia pure, almeno per
il momento, su di un’area territorialmente delimitata (a differenza di Al Qaeda, che da tempo si sta peraltro
articolando in una serie di organizzazioni a base territoriale più definita),
costituisce una risposta in chiave reazionaria alla globalizzazione e alla
crisi dello Stato-nazione. Come scriveva vent’anni fa Jean-Marie Guéhenno (La fine della democrazia)  “non vi è dunque incompatibilità tra la
globalizzazione astratta dell’età imperiale e l’arcaicità della frammentazione
religiosa”. Tale arcaica frammentazione viene oggi riproposta da ISIS in chiave
innovativa e fortemente moderna.
Il successo
della lotta contro l’ISIS e forze fondamentaliste analoghe è quindi legato alla
possibilità di rilanciare risposte differenti agli stessi fenomeni, che siano
basate  sulla democrazia di base
nell’area, come soluzione alternativa alla dominazione imperialista e alla
divisione settaria che quest’ultima ha sempre promosso come proprio instrumentum regni in questa ed altre
regioni.
Ciò spiega il
particolare accanimento con il quale l’ISIS tenta di liquidare ad ogni costo
esperimenti di autogoverno democratico e multietnico come quello attuato nella
Rojavà. Per tale motivo la difesa di Kobané assume portata strategica e
simbolica fondamentale.
E’ illusorio
d’altronde pensare che l’ISIS potrà essere soffocato solo con il ricorso alle
armi, tanto più che, per una serie di motivi, le potenze occidentale appaiono
comprensibilmente restie ad intervenire sul terreno impiegando truppe di terra.
L’unica arma
finale contro l’ISIS è la promozione della democrazia, che implica il
superamento delle divisioni settarie. Beninteso deve trattarsi di una
democrazia in grado di autodifendersi anche sul terreno militare. Un progetto
di lungo periodo ma che già vive nella resistenza armata di Kobané ed altre
situazioni.
Situazioni nelle
quali il ruolo della donna, anche nella lotta armata, appare fondamentale per
smontare dalle fondamenta l’ideologia maschilista e patriarcale su cui l’ISIS
si fonda, promettendo anche facili soddisfazioni sessuali ai maschi mediamente
frustrati che ne costituiscono la truppa d’assalto.
Come ha
affermato la ricercatrice curda Dilar Dirik al
Convegno svoltosi presso la Casa internazionale delle donne nello

scorso ottobre: “Is è solo la forma
attualmente più estrema non solo di oppressione fisica delle donne; ma
cerca anche di distruggere ideologicamente tutto ciò che la liberazione delle
donne rappresenta. La lotta delle donne curde non è solo una lotta militare
contro Is per l’esistenza, ma una posizione politica contro l’ordine sociale e
la mentalità patriarcale alla base dell’ordine sociale e della mentalità
patriarcale. Sfidare le strutture sociali attraverso la mobilitazione politica
e l’emancipazione sociale,
insieme all’autodifesa armata, è un contro potere sostenibile a lungo termine
per sconfiggere la mentalità di Is. Le donne del Kurdistan
si percepiscono come le garanti di una società libera. È facile usare adesso le
combattenti curde per dare un’immagine simpatetica di un nemico di Is, senza
riconoscere i principi che stanno dietro alla loro lotta. L’apprezzamento per
queste donne non dovrebbe essere correlato soltanto alla loro lotta militare
contro Is, ma anche al riconoscimento della loro politica, delle loro ragioni e
visioni. Se ci sarà una vittoria contro Is, avverrà per mano delle donne
curde”. E, si potrebbe aggiungere, delle donne arabe, turche, assire e
appartenenti alle altre etnie del Medio Oriente.
La resistenza di
Kobané assume un valore di esempio anche nei confronti di tutte quelle forze
tendenzialmente maggioritarie, ad impronta non fondamentalista e in alcuni casi
decisamente laica, che pur avendo appoggiato in talune occasioni l’ascesa del
Califfato, ne soffrono oggi il dominio disumano e le assurde imposizioni. Ciò
vale per i settori che facevano riferimento al partito Baath in Iraq, come per numerose realtà tribali sunnite sia in Iraq
che in Siria. Tali realtà subiscono infatti oggi la feroce repressione di ISIS,
che procede alla decapitazione sia fisica che politica delle loro leadership.
La possibilità
di mobilitare queste forze contro il fondamentalismo richiede peraltro la
progettazione di un ordine di tipo nuovo ed effettivamente democratico per
l’intera area. Di forte interesse appare a tale riguardo l’elaborazione
compiuta, nella solitaria prigionia di Imrali, 
dal leader kurdo Abdullah Ocalan. Il popolo kurdo, data la marginalità
del fondamentalismo islamico al suo interno, la sua esistenza transnazionale in
alcuni dei principali Paesi dell’area (Turchia, Iran, Iraq, Siria) e l’esperienza
di oppressione subita da molto tempo dai vari regimi, appare nelle condizioni
migliori ad assumere un ruolo di leadership
verso tale nuovo ordine. A condizione beninteso di non chiudersi in uno sterile
ed escludente nazionalismo, ma di far proprie le istanze democratiche a lungo
soffocate da tali regimi in stretta cooperazione con l’imperialismo occidentale
ed oggi violentemente aggredite dall’ISIS ed altre forze fondamentaliste.
Le rivoluzioni
arabe del 2011 hanno rappresentato una reazione a regimi corrotti e repressivi
che avevano acquisito (o credevano di aver acquisito), lo status di mandatari delle potenze dominanti a livello politico ed
economico, pur mantenendo in taluni casi (Gheddafi, Assad) dei margini di
autonomia che li rendevano ben più invisi a tali potenze.
E’ interessante
segnalare come, secondo le interpretazioni più convincenti, il primo atto o
addirittura il preludio di tali rivoluzioni sia stato costituito dalla rivolta
della popolazione saharoui di Al
Ayoun, nel territorio occupato dal Marocco da oramai più di quaranta anni, che
si verificava nel settembre 2010. Dopo l’esplosione della Tunisia e dell’Egitto
contro due regimi direttamente dipendenti dalle potenze occidentali, i primi
fermenti di ribellione in Libia e Siria venivano prontamente dirottati in
direzione della guerra civile dall’intervento di queste stesse potenze, ansiose
di trovare nuovi capisaldi nella zona, dopo il rovesciamento dei fedelissimi
Ben Ali e Mubarak. Nel frattempo, nella zona più direttamente prossima all’Arabia
Saudita, avveniva la spietata repressione del movimento popolare del Bahrein e
la guerra civile investiva anche lo Yemen.
A quasi ormai
quattro anni di distanza da quei fatti, l’impatto liberatorio delle rivoluzioni
arabe si è in buona parte dissolto per effetto anche del pesante intervento
politico delle forze fondamentaliste, variamente articolate. E’ tuttavia
possibile che un nuovo impulso al fenomeno sia dato dalla resistenza kurda che
al tempo stesso affronta l’ISIS, il regime turco e quello siriano.
Da un estremo
all’alto del Mediterraneo continuano quindi a prodursi fenomeni di protagonismo
popolare, ispirato a ideologie politiche non religiose, cui occorre guardare
con attenzione. E’ importante quindi che la resistenza al fondamentalismo si
nutra, come nei casi evidenziati del Sahara occidentale e del Kurdistan, di
istanze nazionali e sociali, ma assunte in una prospettiva di convivenza
interetnica e interreligiosa che sia autenticamente democratica.
Parlando di
Mediterraneo, pare evidente come tutta questa vicenda ci riguardi molto da
vicino. Non solo perché moltissimi membri dell’ISIS che provengono dalle sue
sponde (più da quella Sud ovviamente), oltre che dall’Europa e da altre parti
del mondo.
Ma anche e
soprattutto perché la realizzazione, su entrambe le sponde del Mediterraneo, di
una società effettivamente multiculturale basata sul rispetto reciproco fra le
etnie, le culture e le religioni, come pure su di una democrazia effettiva (che
comporta anche il superamento della condizione di inferiorità degli immigrati
cui si continua a negare la cittadinanza), costituisce il migliore antidoto
all’affermazione dei fondamentalismi come pure alla perpetuazione dei poteri,
di varia natura, dispotici e incontrollati che ne hanno favorito in vario modo
lo scatenamento.
In ultima
analisi quindi la sconfitta del fondamentalismo richiede quella del modello
dominante capitalistico-patriarcale basato sull’assoggettamento imperialistico
delle risorse e delle popolazioni dei territori già soggetti allo sfruttamento
coloniale, nonché la piena attuazione del principio di autodeterminazione,
basato sulla democrazia territoriale multietnica, la partecipazione popolare,
l’uguaglianza sociale e la parità di genere. Su di un piano più generale ciò
dimostra l’importanza di dar vita a una cultura universale dei diritti umani
che sia effettivamente plurale e non basata sull’assiomatizzazione del punto di
vista di un Occidente che, in questa come altre materie, ha ben poco da
insegnare e anzi molte colpe da espiare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *