“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Così recita l’art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, di cui oggi ricorre l’approvazione. Era il 1948 e, all’indomani del secondo conflitto mondiale, fin troppo forte era il bisogno di un Atto che mettesse nero su bianco l’inalienabilità e l’inviolabilità dei diritti fondamentali dell’uomo, che nel corso del conflitto erano stati irrimediabilmente e volontariamente calpestati. “Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità”, si decise di riunire presso il Palais de Chaillot, a Parigi, un gruppo di autorevoli giuristi provenienti da tutto il globo, pronti ad approvare il documento. Tra tutti un ruolo di primo piano fu giocato dalla americana Eleanor Roosevelt, grande sostenitrice dei diritti civili, con particolare attenzione alla rivendicazione di pari opportunità e uguaglianza tra le varie compagini della società a lei contemporanea, nonché figura di spicco della politica statunitense durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Come lo stesso articolo 1 sopra riportato recita, i diritti dell’uomo all’interno della Dichiarazione vengono definiti in una visione prettamente dignitaria, che parametra cioè i diritti al concetto di dignità umana, fondamentalmente intrinseco in quello più generale di persona umana. Ben diverso questo concetto da quello della “dignitas” romana, traducibile come valore, merito, rispetto dettato dalla propria posizione, che pure risultava in qualche modo connaturata al possesso di diritti. Al crescere della dignitas, nonché della auctoritas, i diritti posseduti aumentavano secondo diretta proporzionalità.
Se pertanto la dignità, come intesa in tempi moderni, è un valore intrinseco, altrettanto lo saranno i diritti che da essa scaturiscono: i diritti ivi dichiarati, in sostanza, sono diritti naturali, che cioè l’uomo possiede già alla sua nascita. Non è un caso infatti che si parli di “Dichiarazione”: i diritti ivi enunciati esistono già, esistono anche prima di essere trascritti in un documento ufficiale ed esisterebbero anche se non fossero mai stati messi per iscritto; la messa per iscritto non è che l’ufficiale dichiarazione che ne attesta e ricorda l’esistenza a chi tenta di calpestarli. Questi stessi diritti poi esistono anche per quanti li ignorano, più o meno volutamente: parliamo a tal proposito di irrinunciabilità dei diritti umani. Il riferimento alla volontarietà non è casuale: già al momento dell’approvazione della Dichiarazione alcuni Stati membri dell’Assemblea Generale delle neonate Nazioni Unite si espressero negativamente sul contenuto della Dichiarazione. La Dichiarazione fu approvata da 48 Stati dei 58 dell’Assemblea Generale. Al voto non presero parte lo Yemen e l’Honduras, mentre otto paesi, tra cui Sudafrica, Arabia Saudita e alcuni paesi del blocco sovietico, si astennero. I paesi promotori della Dichiarazione invitarono però ogni singolo stato membro a divulgare la Dichiarazione, ”affinchè venga disseminata, esposta, letta e spiegata principalmente nelle scuole ed in altre istituzioni educative, senza distinzione basata sulla posizione politica dei paesi o dei territori”, in quanto documento universale e lungimirante, di grande importanza per il presente e, soprattutto, per le generazioni future.
Il documento è in sostanza un messaggio scritto, e pertanto indelebile, che invita gli uomini a ricordarsi uguali in quanto parimenti degni possessori di alcuni diritti, i diritti umani, che vengono solennemente dichiarati inalienabili, irrinunciabili, imprescindibili e universali.
Sembra tuttavia, e la storia tristemente lo dimostra, che lo sforzo operato in quel lontano 1948 abbia dato i suoi frutti solo in parte. Proprio ieri infatti abbiamo ricordato la Giornata Internazionale per la Commemorazione e la dignità delle vittime di genocidio e della prevenzione dello stesso. Il 9 Dicembre ricorre infatti l’adozione della Convenzione sulla Prevenzione e Condanna del Crimine di Genocidio, anch’essa del 1948. Il genocidio è forse uno dei più crudi esempi di violazione dei diritti umani, nonché una particolare tipologia di crimine contro l’umanità, in quanto estremamente e deliberatamente lesivo della dignità umana. Esso consiste infatti in una serie di “atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.
La Convenzione, se da un lato costituì un momento di svolta importante, presentò anche non pochi punti deboli: è vero, infatti, che essa criminalizzò anche tutta una serie di condotte collaterali, condannò il genocidio sia in tempi di guerra che di pace, stabilì responsabilità individuali e statali, escludendo peraltro l’immunità per gli organi statali; d’altro canto, però, non estese la nozione allo sterminio dei gruppi politici di opposizione, né tenne in considerazione la pratica, altrettanto aberrante, del genocidio culturale o della purificazione etnica.
Tutti i limiti della Dichiarazione e allo stesso tempo degli organi giurisdizionali preposti sono emersi chiaramente negli anni successivi, soprattutto nei gravissimi episodi relativi all’ex Jugoslavia e al Ruanda, i cui risvolti giuridici continuano periodicamente a far discutere, e in cui le misure prese si sono rivelate insufficienti in rapporto alla gravità di queste sanguinose vicende.
Benchè poi il vertice mondiale del 2005 abbia ancora una volta portato in luce la “responsability to protect”, che costituisce un serio impegno da parte degli Stati a proteggere la propria popolazione dalle più svariate tipologie di crimini contro l’umanità e ad intervenire nel caso in cui un altro Stato fallisca nel suddetto intento, rimane tutt’ora in dubbio l’effettiva validità di questo impegno, dato che lo Stato che dovrebbe proteggere è stato lo stesso che in passato ha ordinato lo sterminio dei civili.
Ancor più utopico risulta il rispetto dei diritti umani su larga scala se si pensa alle innumerevoli violazioni cui ogni giorno ancora oggi si assiste. Le giornate commemorative sono necessarie, poiché ricordano gli errori del passato, errori da non ripetere e da cui imparare; eppure non sono sufficienti. Non sono sufficienti se pensiamo a Mònica, sottoposta in un carcere messicano a indicibili violenze fisiche e psicologiche da parte delle autorità, o a Shawkan, giornalista egiziano che rischia l’ergastolo per delle foto, o a Giulio che, sempre in Egitto, ha trovato la morte dopo essere stato crudelmente torturato. Si potrebbero fare migliaia di questi nomi, perché migliaia sono le storie di coloro ai quali vengono ogni giorno negati quei diritti che per natura tutti possediamo. È in loro nome pertanto che è necessario auspicare un cambiamento, che non sia solo strutturale, ma anche morale e che assicuri a documenti del calibro della Dichiarazione Universale dei diritti umani l’inviolabilità che meritano.
Alessia Girgenti
Fonti bibliografiche
- “Dichiarazione universale dei diritti umani”, 1948
- S. Zappalà, “La giustizia penale internazionale”, Edizioni Il Mulino, 2005
“Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio”, 1948