Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni
Una terra di nessuno. Una striscia in bilico tra due
aree regionali, il Nordafrica e il Medio-Oriente, terra di passaggio di
contrabbandieri, criminali e jihadisti. L’assenza dello Stato nella società,
eccetto per le forze di sicurezza impegnate a mantenere l’ordine fra la
popolazione ormai stremata dalla miseria, dall’esclusione e dalla violenza
arbitraria. Stiamo parlando della penisola del Sinai nell’Egitto di Al-Sisi,
sfuggita al controllo del governo centrale, ed esposta ai proclami dello Stato
islamico. La violenza e il terrore regnano sovrani. Proprio qualche giorno fa
un’ondata di attentati ha colpito i checkpoint dell’esercito egiziano nella
città di Sheikh Zuweid (a ovest di Rafah) roccaforte del principale gruppo
jihadista operante nel Nord Sinai conosciuto come “Ansar Bayt Al-Maqdis” (ABM), il quale ha giurato fedeltà allo Stato
Islamico il 10 novembre 2014, cambiando il suo nome originario in Wilayat Sina, la Provincia del Sinai. I
jihadisti hanno sparato colpi di mortaio contro i cinque checkpoint nella città
di Sheikh Zuweid (a ovest di Rafah) e lanciato un autobomba. Ne sono scaturiti
numerosi scontri a fuoco tra i jihadisti e le forze di sicurezza egiziane, le
quali hanno in seguito bombardato con caccia F-16 le postazioni dei miliziani.
Il bilancio finale secondo le fonti governative egiziane è di “almeno 100
terroristi uccisi e 17 morti tra i militari, di cui quattro ufficiali. Questi episodi non sono che la punta dell’iceberg di
una guerra a bassa intensità che investe l’area del Sinai settentrionale da più
di un anno e mezzo. Il vuoto istituzionale determinato dalla caduta di Mubarak
ha fatto sì che i numerosi gruppi jihadisti si unissero sotto un’unica
formazione, l’Abm (Ansar Bayt al Maqdis) fondata
nel 2011 sotto l’impulso del Consiglio della sura dei mujahidin (Msc),
una coalizione di gruppi e sottogruppi jihadisti nel Sud di Gaza,
caratterizzati da un’ideologia salafita radicale e di orientamento qaedista. Gli
obiettivi principali dell’organizzazione erano quelli di minare le relazioni
tra Israele ed Egitto, colpendo i gasdotti che collegano i due stati, e le
pattuglie di frontiera israeliane. Il Sinai è una regione militarizzata, organizzata in
zone d’influenza. Secondo gli accordi di Camp David, il Sinai era diviso in
zone in cui l’esercito egiziano poteva dispiegare in modo limitato la sua forza
a seconda della vicinanza al confine con Israele. La zona C, quella sul confine
israeliano, poteva permettere una limitata presenza di polizia egiziana
accompagnata da Multinational Force and Observers, organismo creato ad hoc da
Usa, Egitto e Israele. L’intera Zona C è sempre stata caratterizzata da
numerosi episodi di violenza commessi dalla polizia egiziana nei confronti
della popolazione civile, nel tentativo di scovare potenziali terroristi e
trafficanti. Interi villaggi sono stati distrutti e civili massacrati. L’ABM ha
potuto così contare sul sostegno della popolazione locale della Zona C, sempre
più ostile alle forze governative e ad uno Stato assente, riconoscendo nell’ABM
l’unica alternativa alla repressione statale e l’unica difesa di fronte alla
punizione collettiva imposta dall’esercito egiziano. L’Abm conta tra le sue fila membri egiziani,
provenienti dalle aree beduine del Sinai e dalle aree continentali egiziane del
Delta, oltre ad alcuni membri palestinesi aggregatisi dal Msc. In seguito alla
deposizione del presidente Morsi, avvenuta il 3 Luglio 2013, le operazioni di
repressione nel Sinai da parte dell’esercito egiziano guidato dal nuovo capo di
stato, il generale Al Sisi, sono state potenziate[1],
portando a numerosi scontri a fuoco con i jihadisti, e ad esecuzioni sommarie
di civili sospettati di terrorismo[2].
Proprio in quel periodo Abm è stato molto abile a reclutare direttamente
all’interno del tessuto tribale beduino. Ad oggi, nelle zone tra Rafah e Sayh
Zwayyd, l’Abm ha ottenuto l’appoggio quasi totale dei beduini. I principali
avamposti militari di Abm si trovano attualmente nel Sinai settentrionale,
nelle aree beduine della zona C e più in particolare nei villaggi fantasma tra
la Rafah egiziana e Sayh Zwayyd. L’organizzazione, tra vertici e
fiancheggiatori, conterebbe le tremila unità. Le risorse economiche
dell’organizzazione, provengono dai profitti ricavati dai traffici illeciti che
avvengono attraverso i tunnel che collegano l’Egitto alla striscia di Gaza, un
circuito milionario di traffico di armi, droga, esseri umani e controllo
economico del territorio. Dal novembre 2014, l’Abm ha giurato fedeltà (bay’a) ad Abu Bakr al-Baghdadi e, affiliandosi
allo Stato Islamico ha preso il nome di Wilayat Sina (Ws), la provincia del
Sinai. Il giuramento è stato un successo per lo Stato islamico, che così può
allargare il fronte dei combattimenti a più teatri simultanei, e contrastare i
raid della coalizione anti-Isis con l’intento di minare dall’interno la
stabilità degli stessi Stati mediorientali attraverso l’affiliazione delle
cellule jihadiste presenti sul loro territorio. Parallelamente, per il Wilayat
Sina la collaborazione con lo Stato Islamico garantisce un supporto logistico e
militare esterno rilevante nella sua campagna di contro-insorgenza e di
guerriglia nei confronti di Egitto e Israele.[3] L’Abm con la sua propaganda, ha fatto leva sul
fallimento dell’islam politico. Con la destituzione dell’ex presidente Muhammad
Mursi del luglio 2013 e la repressione nel sangue dei rappresentanti dei
Fratelli Musulmani, l’Abm ha avuto più spazio di manovra per attrarre le frange
più frustrate della Fratellanza.
importati evoluzioni nel campo politico sociale, agendo da vero e proprio
Welfare State per la popolazione del Sinai settentrionale. Fin dagli anni
Ottanta, il Nord Sinai è stato sfruttato dall’Egitto per i suoi giacimenti di
gas, ma non è mai rientrato nei piani statali di sviluppo economico. Le
comunità beduine sono state emarginate per decenni, senza accesso all’acqua
potabile e agli ospedali, impossibilitate a possedere legalmente la terra su
cui vivono e coltivano, oltre a subire la violenza sproporzionata dello Stato
egiziano. La realizzazione di una zona cuscinetto tra Egitto e Gaza, ha portato
alla distruzione di 2000 case nella zona di Rafah, lasciando senza tetto e
senza indennizzo numerose famiglie. L’Abm, in questo contesto si è sostituito
allo stato, risarcendo i cittadini le cui case sono state distrutte
dell’esercito. Il Presidente Al-Sisi, a seguito degli attacchi ai
check-point, ha annunciato nuove misure anti-terrorismo, attraverso
l’imposizione dello stato d’emergenza e di un coprifuoco notturno nel Sinai Settentrionale.
Ma nonostante i proclami, le operazioni militari messe in atto fino ad oggi non
solo non hanno stabilizzato la penisola, ma hanno addirittura peggiorato la
situazione. Una soluzione politica non è stata ancora considerata. La guerra a
bassa intensità in zone desertiche e montagnose viene portata avanti con i
cadetti di fanteria della leva obbligatoria, terrorizzati e inesperti e con
forze militari non specializzate. Una chiara e chirurgica strategia al momento
assente nei piani di Al Sisi, metterebbe in dubbio una reale intenzione di
risolvere il problema Sinai, dato anche il fatto che esso rappresenta il banco
di prova attraverso il quale il Generale si sta mettendo in mostra come
“paladino anti-terrorismo” agli occhi dell’Occidente. Nel 2014 infatti il
Pentagono ha firmato un accordo per la fornitura di nuovi armamenti
all’esercito egiziano, tra cui elicotteri Apache. Gli Stati Uniti insieme ai
suoi diretti alleati nella regione (Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi
Uniti) supportano l’Egitto nei suoi rapporti di pace con Israele e nel suo
ruolo di paese pacificatore e moderatore dell’intera regione. Allo stesso
tempo, gli Stati Uniti considerano il corso della politica interna del paese,
portatrice di instabilità e di fallimento delle istituzioni, nel lungo periodo.[4]
L’approccio repressivo portato avanti dal governo egiziano, non aiuta di certo
a fermare le continue adesioni a gruppi estremisti e violenti. Nonostante la pesante situazione interna, il Sinai
rimane la carta vincente del Generale, il quale sfrutta al massimo la
potenzialità di una “minaccia terroristica” per attrarre alleanze esterne e
attuare una repressione interna più dura, facendo del Sinai uno strumento
politico contro la Fratellanza, e per perseguitare ogni tipo di opposizione. Nel frattempo però il conflitto in Sinai si starebbe
via via spostando verso la Striscia di Gaza, dove i salafiti filo-Is stanno
creando molti problemi ad Hamas. Questo potrebbe spingere il presidente Al Sisi
ad “invitare” Israele ad agire nella striscia. I due eserciti potrebbero già
essere in fase di coordinamento in preparazione di una simile eventualità. Il quadro complessivo che viene fuori da questa
narrazione, caratterizzato dell’ascesa dello Stato Islamico in Sinai e dal
deterioramento delle condizioni di sicurezza nell’immediato vicinato,
suggerirebbe alle autorità egiziane di ripensare le proprie strategie politiche
e securitarie. L’Egitto avrebbe la grande opportunità di riacquistate
l’influenza perduta nell’area attraverso un cambio di rotta nella strategia di
lotta al terrorismo a tutti i livelli (politico, militare e sociale) isolando i
veri gruppi di guerriglia dai gruppi di protesta pacifici, ad esempio. Ciò
potrebbe assicurargli, da una parte, una diminuzione delle tensioni e una
minore presa dei jihadisti nelle fasce marginalizzate della società,
dall’altra, una maggiore stabilità data da una percezione diversa della
legittimità e del ruolo dello Stato nella regione.