La ruspa nel tempio: riflessioni giuridico – processuali sull’abusivismo nella Valle dei templi di Agrigento


LA PAROLA ALL’ESPERTO

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La ruspa nel tempio: riflessioni giuridico – processuali sull’abusivismo nella Valle dei templi di Agrigento

 a cura dell’avvocato Rosario Fiore   

Un tema divenuto di rilievo nazionale è quello relativo all’abbattimento di opere abusive all’interno della Valle dei Templi di Agrigento. L’ordine di demolizione dell’opera abusiva viene adottato con provvedimento del Pubblico Ministero, che per
legge deve dare esecuzione alle sentenze divenute irrevocabili. Partiamo dal qualificare giuridicamente l’ordine di demolizione contenuto in una sentenza penale
irrevocabile. Al riguardo, la Suprema Corte di Cassazione, in una recente sua pronuncia, (CORTE DI CASSAZIONE
PENALE Sez. 3^, 10/01/2012, Sentenza n. 190 ) ci insegna che “ secondo la consolidata giurisprudenza di
questa Corte l’ordine di demolizione adottato dal giudice ai sensi dell’art. 7 legge 28 febbraio 1985, n. 47, al
pari delle altre statuizioni contenute nella sentenza definitiva, è soggetto all’esecuzione nelle forme previste
da codice di procedura penale, avendo natura di provvedimento giurisdizionale, ancorché applicativo di
sanzione amministrativa”.

L’ordine di demolizione, dunque, benchè contenuto in un provvedimento giurisdizionale, ha natura
amministrativa: in virtù di questa sua consolidata qualificazione, l’ordine di demolizione di un manufatto
abusivo viene eseguito anche a distanza di molto tempo da quando la sentenza penale è divenuta
irrevocabile, anche quando ad esempio, col decorso del tempo di cui agli articoli 172-173 c.p., il reato si è
estinto.

In buona sostanza, è prassi giudiziaria eseguire un ordine di demolizione anche in presenza di un reato ormai
estinto per decorso del tempo, atteso che l’ordine di demolizione non ha natura di sanzione penale ma, come
sopra evidenziato, ha natura amministrativa.
Questa impostazione, tuttavia, non è condivisibile. In una sua recentissima pronuncia, la Corte Europea dei diritti dell’uomo è ritornata sul tema del divieto del
ne bis in idem, offrendo anche interessanti spunti di riflessione sulla natura sostanzialmente “penale” delle
sanzioni amministrative: mi riferisco, in particolare, alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,
Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri e. Italia). In particolare, alla luce della prassi già consolidata, la Corte ha chiarito che è necessario considerare, per la
qualificazione, tre criteri che hanno carattere alternativo e non cumulativo: la qualificazione giuridica della
misura sul piano interno, la natura della misura ed il grado di severità della sanzione. Nella fattispecie che ci occupa, l’ordine di demolizione, incidendo pesantemente ed irrimediabilmente sulla
proprietà di un soggetto, non può essere considerata mera “sanzione amministrativa”, in quanto è indubbio il
suo carattere altamente punitivo, alla stregua di una vera e propria sanzione penale.
Se così è, ossia se si riconosce il carattare di sanzione penale all’ordine di demolizione, appare chiaro che lo
stesso, ove si riferisca ad una sentenza di condanna la cui pena si è estinta per decorso del tempo, debba
essere dichiarato estinto in guisa dell’articolo 172 c.p., poiché diversamente si avrebbe una violazione
dell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, sottoscritto il 22.XI. 1984, e rubricato “Diritto di non essere giudicato o punito due volte”. Come ben sappiamo, la Convenzione EDU è un complesso normativo pattizio, le cui norme si collocano
nell’ordinamento interno in una posizione intermedia tra la Costituzione e la legge ordinaria: in tal senso, si
ricorderanno le famose “sentenze gemelle” della Corte Costituzionale, nn. 348 e 349 del 2007, in cui la
Corte, ben conscia delle incertezze che sin dalle sue prime pronunce hanno caratterizzato
l’individuazione del rango della Cedu, afferma che la Cedu è una norma di rango “sub-
costituzionale”, di rango cioè subordinato alla Costituzione, ma sopraordinato alla legge: in buona
sostanza, la Cedu è una fonte interposta che rende concretamente operativo il parametro costituito
dall’art. 117, I comma, la cui violazione costituisce presupposto per una declaratoria di illegittimità
costituzionale di ogni norma interna ad essa contraria. Nel caso di specie, sarebbe viziata da illegittimità costituzionale la norma che prevede la possibilità
per il giudice di ordinare la demolizione dell’abuso, senza specificare la natura “penalistico-
sanzionatrice” dell’ordine medesimo. Ne deriva, ad avviso dello scrivente, che nell’eventuale incidente di esecuzione promosso innanzi al
competente Tribunale ed in presenza di un reato estinto per decorso del tempo, il ricorrente potrà eccepire la
illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 9, del D.P.R. 380/2001, che ha sostituito l’articolo 7 della
richiamata Legge 47/85, nella parte in cui non prevede, violando l’articolo 117 Costituzione, che l’ordine di
demolizione contenuto nella sentenza di condanna è soggetto ai termini di estinzione ordinari di cui agli
articoli 172 e 173 c.p.. Il Giudice dell’esecuzione, ravvisata la manifesta fondatezza della questione, previa sospensione dell’ordine
di demolizione, investirà sul punto la Corte Costituzionale.

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