Il report condotto dalla ONG B’Tselem “”Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati”, dimostra come il governo israeliano stia applicando una politica di apartheid nei confronti del popolo palestinese; politica che si è acuita nel 2018, anno in cui il parlamento israeliano ha adottato la legge Jewish Nation-State Basic Law. Questa legge garantisce il carattere etnico-religioso di Israele come esclusivamente ebraico e consolida i privilegi di cui godono i cittadini ebrei, mentre simultaneamente ancorano la discriminazione contro i cittadini palestinesi e legittimano l’esclusione, il razzismo e l’ineguaglianza sistematica.
Nelle pagine del report riecheggia il termine “apartheid”, la cui origine rimanda alla segregazione razziale subita dal popolo sud-africano, ma al contempo può abbracciare un significato più ampio comprendendo qualsiasi tipo di emarginazione attuata nei confronti di persone o gruppi considerati diversi o inferiori; in questo caso posta in essere nei confronti dei palestinesi da parte degli israeliani.
Questa legge nega infatti i diritti collettivi dei cittadini palestinesi di Israele, che comprendono 1,5 milioni di persone, cioè il 20% della popolazione israeliana, e costituiscono un gruppo minoritario di patria secondo il diritto internazionale dei diritti umani. In particolare, il campo di applicazione della legge copre diversi ambiti con la conseguente negazione di diritti che al contempo risultano essere assicurati al popolo israeliano.
Dal punto di vista territoriale, storicamente sono state avanzate diverse proposte volte ad una ridistribuzione dei territori condivisi tra le due comunità interessate, ma dal 1967, Israele ha attuato una politica di espansione, espropriando di conseguenza i palestinesi di più di 2.000 km2 con vari pretesti. Già da questo si possono evincere le due distinte linee di intervento: da una parte l’Israele ha facilitato l’accesso ai diritti essenziali per gli israeliani agevolando la formazione di nuove comunità, mentre d’altro canto ha ideato un sistema di pianificazione separato per i palestinesi, progettato principalmente per impedire il loro sviluppo.
Cittadinanza e dell’immigrazione
Le limitazioni emergono in modo lampante anche quando si affronta il tema della cittadinanza e dell’immigrazione. Se gli ebrei immigrati in Israele hanno direttamente diritto alla cittadinanza, i palestinesi invece possono ottenerla solo mediante matrimonio nelle sole aree non occupate.
Libera circolazione
Nonostante il governo israeliano permetta, indistintamente a tutti i cittadini, la libera circolazione tra unità territoriali (ad eccezione della Striscia di Gaza), i palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza necessitano di un permesso per spostarsi e talvolta il permesso in questione è rilasciato in casi eccezionali come ad esempio per necessità umanitarie. Inoltre, il popolo palestinese non è autorizzato ad utilizzare gli aeroporti internazionali israeliani e necessita di un permesso per raggiungere l’aeroporto in Giordania.
Partecipazione alla vita politica e le libertà fondamentali
L’ambito dove si riscontra la negazione più preoccupante di diversi diritti è quello che riguarda la partecipazione alla vita politica e le libertà fondamentali. Infatti, se da un lato il popolo israeliano, indistintamente, ha pieno accesso sia al voto che alla candidatura, nei territori occupati è vietato qualsiasi coinvolgimento dei palestinesi, che in questo caso non godono né dell’elettorato attivo né dell’elettorato passivo.
Sul versante delle libertà fondamentali, i palestinesi subiscono una forte limitazione della libertà di parola e di associazione, escludendo loro qualsiasi possibilità di azione collettiva, poiché vietate, nonché la cooperazione per un cambiamento sociale e politico.
Come emerge da questa breve analisi del report condotto da B’Tselem, il dominio di Israele è stato via via conquistato tramite un controllo sempre più forte sia dal punto di vista legislativo che dal punto di vista pratico, al fine di mantenere la supremazia ebraica su quella palestinese.
La ONG, attraverso questo lavoro di analisi della realtà che i palestinesi vivono quotidianamente, ha preso una posizione netta e priva di equivoci, sostenendo che l’unico modo per combattere le ingiustizie è chiamarle con il proprio nome: apartheid. Lo fa utilizzando un parametro fondamentale: “L’accumulo di misure, che ricevono sostegno pubblico e giudiziario e sono sancite sia dalla pratica che dalla legge, porta alla conclusione che la barra per definire Israele come un regime di apartheid è stata soddisfatta.”.
Nonostante la realtà presentata possa sembrare cruda, soprattutto agli occhi degli occidentali, l’agenzia di informazione auspica in fine un cambiamento perchè “Le persone hanno questo creato il regime e le persone possono rimpiazzarlo.”.
Fonti: B’Tselem.org, Treccani.it, adalah.org.
A cura di
Gaia Ingargiola
Giulia Di Rosa