Diciamolo pure, Renzi ci ha provato. Ad essere simpatico intendo. Le barzellette e il cedimento continuo all’humor toscano con cui ha conteso il primato a un ineguagliabile maestro in quel campo ci raccontano del sincero tentativo. E dopo il giubbotto di pelle nel salotto della De Filippi di più onestamente non gli si poteva chiedere.
Oggi anche lui, sondaggi alla mano, lo sa e ci ha rinunciato, giocando adesso la carta dello statista che guarda al futuro e non del politico attento alle elezioni. D’Alema, che nutre per lui un’antica benevolenza, ha icasticamente inquadrato i termini dell’attuale crisi esattamente su questo registro: come può l’uomo più impopolare d’Italia cacciare quello più popolare? Altre volte è stato sardonico, ma questa era un’analisi.
Il problema nella sinistra è più antico e vasto, ma Renzi ha dato, se così si può dire, un contributo notevole. Il suo rivale storico, che fatalmente è ritornato a conquistare alcuni editoriali, al riguardo aveva un’egemonia incontrastata e ben oltre i suoi meriti. Luca Ricolfi, inascoltato, ci aveva scritto un libro tempo fa, Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori prima e dopo le elezioni del 2008, che naturalmente non era riferito (soltanto) al deputato di Gallipoli, il modo magniloquente con cui si schermiva il lider maximo. “Non sono un genio, sono soltanto il migliore”: l’aforisma degno di Flaiano gli è stato attribuito, e ne spiega insieme all’amabile ironia anche una accennata autostima.
Ma lo standing di alcune personalità della sinistra alla fine si sono rivelate incompatibili con la formazione di un ceto politico armonioso e responsabile e la lotta intestina tra di loro ha segnato un livello patologico. La sinistra è storia di scissioni, ma possiamo ammettere anche di individualismi?
Quanto inconfessabile gioco di specchi ci sia tra le due figure rivali e opposte non è faticoso rilevare. Se ne dispiacerebbero, ma alcune similitudini resistono. Quando Renzi decide il salto sulla scena nazionale l’epopea breve narra una scansione irresistibile: le primarie perdute con Bersani nel 2012 (obiettivamente il vero grande successo dell’allora sindaco di Firenze con il miglior discorso di sempre di un perdente), la scalata nel PD nel 2013 e nel 2014 a Palazzo Chigi, che consegna ai fotografi il delicato passaggio di campanella con Letta. Lo stesso anno l’ubriacante trionfo alle europee. Il referendum costituzionale del 4 dicembre del 2016 segna la fine della parabola.
Gli fosse riuscito, il sistema politico avrebbe subito una torsione notevole: sarebbe nata una nuova repubblica (la terza, probabilmente) e ed è legittimo fantasticare, dato che il senatore di Rignano si compiace di emulare Macron, come gli apologeti si sarebbero rincorsi a infiorare paragoni con De Gaulle. Un piccolo romanzo ucronico potrebbe aiutarci a comprendere quello scenario con l’Italia sotto le bandiere del renzismo vittorioso: un solo senato, un premier forte, destra e sinistra storica, e soprattutto la mancanza del Cnel (che qualunque cosa sia, sembrava questa la madre di tutti i mali). Ma la storia è andata diversamente ed è da lì che non ne usciamo.
C’è però un passaggio su cui gli storici dovranno tornare prima o poi. E sicuramente è ingeneroso attribuirne tutta la responsabilità a un padre della patria come Calderoli, la cui firma campeggia sulla legge elettorale del 2005 e che la Corte Costituzionale, con la dovuta tempestività, ha dichiarato parzialmente incostituzionale nel 2014, cioè dopo tre tornate elettorali (2006, 2008, 2013), ed esattamente nel punto più decisivo, quello del premio di maggioranza attribuito alla lista o colazione di liste più votata. Senza che questa – ed è qui il vulnus alla democrazia – superasse una soglia minima. Vale a dire: non importava quanti, ma bastava che A prendesse più voti di B per avere un tesoretto supplementare di seggi da garantire la maggioranza assoluta in entrambi i rami del parlamento.
A completare il capolavoro di questo impianto c’era un altro paio di corollari: le liste bloccate (anche questo sarebbe stato poi sanzionato dalla Consulta), che espropriava l’elettore della scelta di preferenza tra candidati; e l’indicazione del capo della coalizione, che indirizzava la designazione del premier, espropriando in questo caso, o tentando di farlo, il ruolo del capo dello stato nelle rituali consultazioni successive per la nomina del presidente del consiglio. Un dettaglio che forzava il dettato costituzionale. La legge elettorale del 1953 voluta da De Gasperi e Scelba, che prevedeva per la sola Camera il 65% dei seggi a chi avesse superato il 50% dei voti e passata alla storia come legge truffa aveva tratti di signorilità istituzionale ignoti al porcellum. Con l’ulteriore differenza che alle uniche elezioni in cui venne applicata, il ’53 appunto, non produsse per fortuna alcun effetto perché nessuno riuscì a raggiungere quella ragionevole soglia per ottenere quello spropositato premio. E l’anno dopo fu abrogata.
Ed è l’antefatto, il porcellum, non Scelba, più prodigioso di questa storia. Se si vuole di questa crisi. Riepilogando, la legge Calderoli produce tre legislature, le prime due si sciolgono anticipatamente, mentre l’ultima delle tre, e quella non meno controversa, ha curiosamente un termine naturale. Procediamo con ordine. Nel 2006 fu la colazione di centro sinistra a vincere le elezioni di stretta misura e Prodi, premier designato, poté contare su una maggioranza di nove partiti soltanto, formando l’esecutivo più largo della storia repubblicana (25 ministri, 10 viceministri e 66 sottosegretari), per realizzare il mitico programma elettorale di 274 pagine.
Se qualcuno si chiedesse perché Prodi sia caduto al senato due anni dopo tutti sarebbero pronti a dire Mastella, suo ministro della giustizia. Un’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere pone (tra gli altri) agli arresti domiciliari in via cautelare la presidente del Consiglio regionale della Campania, Sandra Leonardo, moglie, appunto, di Mastella. Ciò determinò (ma è una presa d’atto dello storico, non era una conseguenza fatale) l’uscita dal governo del suo partito, l’Udeur, vale a dire 1,4 % di voti e tre seggi al senato.
Nei manuali di storia più paludati si osserva tuttavia non senza malizia che nel 2007 era intanto nato il PD, guidato da Veltroni con la famosa vocazione maggioritaria, che scardinava piuttosto che consolidare la base parlamentare ulivista. L’ironia della storia è che per un governo che allora cadde, oggi uno potrebbe essere salvato proprio dalla medesima Sandra Leonardo Mastella, oggi senatrice e sembrerebbe costruttrice. Comunque sia, andammo alle elezioni anticipate nel 2008. Vinte dal PDL, Berlusconi salì al Quirinale per accettare senza la rituale riserva l’incarico, e uscì dal colloquio con Napolitano con la lista dei ministri per varare il Berlusconi IV.
Per un inizio così promettente era imprevedibile una traversata accidentata, segnata dalla successiva e plateale cacciata di Fini (l’evento fu in diretta ed avvenne davvero in una platea) e dalle ataviche sfide giudiziarie di Berlusconi, e l’idea che la Camera dei deputati desse credito con un voto che una minorenne fosse la nipote di Mubarak merita l’onore di una citazione. Ma anche il finale di partita non ha precedenti, sebbene il campionario italiano sia abbastanza assortito. Nell’autunno del 2011 l’Italia imparò una nuova parola, spread, e fu questa la causa delle dimissioni di Berlusconi a la nascita del governo Monti.
Nella narrativa forzista si sarebbe parlato sobriamente di colpo di stato, e Renato Brunetta, se si dovesse scegliere per autorevolezza una voce da quel coro, avrebbe scritto un paio di anni dopo un libro dal titolo sereno, com’è nel suo stile: Un Golpe chiamato rating: così fu depredata l’Italia nel 2011. Il professore della Bocconi fu accusato di essere l’emissario dell’Europa o la mano visibile dei poteri forti, salvo poi essere sostenuto da tutti, tranne la Lega Nord, per quelle misure draconiane che evitarono il collasso economico. Quando poi Angelino Alfano a nome del PDL ritirò la fiducia del proprio partito al governo tecnico, a Napolitano non rimase che sciogliere il Parlamento.
E arriviamo finalmente alle elezioni del febbraio 2013. Da dove siamo partiti.
A scoraggiare trionfalismi a sinistra avrebbe dovuto fare da monito la gioiosa macchina da guerra con cui il centro sinistra nel 1994 si schiantò contro un imprenditore milanese che aveva appena fondato un partito. Questa volta toccò a un incauto Bersani, indicato capo della coalizione. Mentre già preparava la lista dei ministri, alla fine dovette festeggiare con la “non vittoria” perché al Senato il centro-sinistra non ebbe la maggioranza. Come se non bastasse, l’exploit dei Cinque Stelle l’obbligò alle forche caudine dello streaming nel generoso tentativo di formare quel governo, una pratica che adesso i grillini sembrano avere rimosso, in tutti i sensi.
Ed è da lì che ci riconnettiamo agli albori del renzismo. Perché la nuova legislatura oltre a un nuovo esecutivo doveva dare al Paese anche un nuovo Capo dello Stato, dato che scadeva il settennato di Napolitano. La sinistra aveva i numeri per fare il primo passo, e come è noto una assemblea dei parlamentari PD acclamò Prodi candidato al Quirinale. La vicenda dei 101 vivrà poi anche di piccole suggestioni mitologiche, la storia più modestamente registra che il fondatore dell’Ulivo non ottenne i voti necessari. Alla fine un ampio schieramento chiese al Presidente in carica di succedere a se stesso. L’interessato non voleva, ed è possibile che sia vero. Occorre aggiungere altro? Sì. D’Alema e Renzi. Il primo, dicono le cronache, aspirava al colle più alto di Roma.
Il secondo, da Firenze, stava per lanciarsi alla volta della capitale e già contava su una propria corrente. Napolitano, a cui non ha mai fatto difetto il puntiglio, accettò la proposta pressoché unanime. Nel commovente discorso di investitura disse che “era emerso un drammatico allarme per il rischio oramai incombente di un avvitamento del Parlamento in seduta comune nell’inconcludenza, nell’impotenza ad adempiere il supremo compito costituzionale dell’elezione del Capo dello Stato”. Ovazione, ma a loro che applaudivano, non ad altri, stava dicendo che erano irresponsabili e incapaci. Alcuni giorni dopo diede l’incarico a Letta per il primo governo di larghe intese nella storia repubblicana e Lega e 5 Stelle si trovarono insieme all’opposizione. Da allora cosa è successo è già detto.
Il PD toglie la fiducia, se così si può dire, a Letta e chiede al suo segretario di prenderne il posto a Palazzo Chigi. Nel 2015 Napolitano, novantenne, si dimette, e Sergio Mattarella viene eletto nuovo Presidente della Repubblica. La disfatta della consultazione referendaria costringerà il premier alle dimissioni, affidando il governo al suo ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Il 2016 si chiude così. Poi a febbraio del 2017 si dimette anche dalla segreteria del PD, mentre ad aprile si ricandida alla segreteria del PD. Ed è rieletto. Ad ottobre 2017 Ettore Rosato firma la nuova legge elettorale. Cosa sia esattamente il rosatellum è materia per gli specialisti, di certo avrebbe dovuto segnare la riscossa del 4 dicembre. Le elezioni del 4 marzo 2018 sono invece per Renzi una waterloo.
Che si dimette per la seconda ed ultima volta dalla segreteria. I Cinquestelle vincono le elezioni perché risultano di gran lunga il primo partito, seguito a lunghissima distanza dal PD. Subito dopo la Lega, che guida l’alleanza di centrodestra, e in quanto tale anche loro hanno, o avrebbero (ma andrebbe chiesto a Rosato) vinto le elezioni. Il resto è storia più recente e anche se sembra passato un secolo la rappresentanza parlamentare rimane quella, al netto di un nuovo piccolo partito che nel frattempo si è scisso dal PD. Una successione di immagini ci consegnano una foto-storia straordinaria. Dal patto tra Cinque Stelle e Lega esce fuori l’indicazione di Giuseppe Conte, che al momento è un accademico sconosciuto.
Al di là del giudizio che contengono, le citate e attuali parole di D’Alema descrivono un dato di fatto: da quel giorno e per svariati motivi, dal debutto come avvocato del popolo ad un insospettabile galateo istituzionale, il primo ministro si è conquistato una rilevante popolarità. Le conferenze stampa, cartelli alla mano, tra Salvini e Di Maio con cui si era consegnato al Paese sono state archiviate dalla dissennata estate del 2019 che ha lacerato la ormai famigerata alleanza gialloverde. Alla Camera, uno accanto all’altro, Conte ha consumato il momento più drammatico di quella lacerazione riversandola in un discorso d’addio.
Ad ogni “caro Matteo” e pacca sulla spalla, un affondo sulla mancata cultura istituzionale del suo oramai ex ministro degli Interni. E ad ascoltare il Presidente, c’è da rabbrividire pensando a chi aveva consegnato il ministero più delicato. Il resto è noto, per quello che è dato sapere. In queste ore Mattarella sta ricevendo al Quirinale i gruppi parlamentari perché la seconda maggioranza che ha sostenuto Conte si è compromessa. O così parrebbe. Proprio nel momento in cui l’UE ha allestito un imponente piano Marshall per il nostro Paese. O magari proprio per quello.
Secondo la manualistica si chiama crisi di governo. Ma è più profonda e più seria. Una crisi di sistema che il sistema Italia, per usare una brutta espressione, non può più tollerare nel mezzo di una devastante pandemia e un disastro economico e sociale che ha ormai superato i livelli di guardia. Speriamo che nella Versailles dei palazzi romani non pensino alle brioches.
A cura del Prof. Giorgio Scichilone
Ordinario di Storia delle istituzioni politiche
Università degli Studi di Palermo