Alla fine, dopo mesi di sfilacciamento di una maggioranza parlamentare ormai immobile e in costante tensione tra MES, Recovery Fund e gestione (giuridica ed economica) della pandemia, la crisi di governo è venuta a galla.
Nel quadro di una forma di governo parlamentare occorre, in primo luogo, ribadire che la possibilità che nel corso della legislatura mutino i rapporti di forza tra i partiti producendo un cambio di maggioranza fa parte della fisiologia di questa forma di governo, che la Costituzione italiana ha accolto nella sua formula classica: la forma di governo italiana, essendo a basso tasso di razionalizzazione, lascia al libero dispiegarsi delle prassi parlamentari la qualificazione e la soluzione delle crisi di governo, che la dottrina costituzionalistica ha variamente qualificato, distinguendo sotto il profilo tecnico le crisi parlamentari (che si aprono in Parlamento con il voto di sfiducia, il rimpasto e la richiesta di sfiducia) dalle crisi extraparlamentari (che nascono da eventi esterni al parlamento, come il ritiro della delegazione dei ministri di una delle forze politiche di maggioranza o le dimissioni del Presidente del Consiglio dei ministri).
Sotto il profilo più strettamente politico, le crisi di governo extraparlamentari sono sovente conseguenza di un cambiamento politico della maggioranza, dando luogo a governi cangianti, e si distinguono in crisi “al buio” quando non si intravede una coalizione politica alternativa al momento dello scoppio della crisi, e in crisi pilotata, quando il capo del governo dà le dimissioni quando si è trovato l’accordo sulla maggioranza alternativa. La crisi scoppiata il 14 gennaio 2021 è una classica crisi al buio.
I rapporti tra governo e Parlamento sono disciplinati in modo, volutamente, laconico dalla Costituzione che ha affidato lo svolgersi della dinamica politica a prassi e consuetudini parlamentari,
Va altresì ribadito che la svolta degli anni ‘93-‘94 con l’approvazione delle leggi elettorali maggioritarie, aveva convinto i più che il quadro politico si avviasse verso un netto bipolarismo, superando definitivamente gli scogli frapposti all’azione di governo da parte di una composizione politica eccessivamente frammentata del parlamento, ma la reintroduzione di elementi proporzionali nella legge elettorale con la riforma del 2017 ha nuovamente alimentato in Parlamento quel pluralismo politico che ha nelle coalizioni di governo il suo DNA costitutivo.
E’ questo lo spettro politico reale nel quale dovrà vedere la luce il nuovo esecutivo. Il Rosatellum bis, infatti, per come strutturato con una quota maggioritaria e una quota proporzionale, non consente pieni esiti maggioritari – sebbene contenga alcuni meccanismi che “orientano” l’esito elettorale, come le pluricandidature e le soglie – e dunque difficilmente avrebbe potuto consentire l’individuazione di “chi andrà al governo”, parafrasando la dichiarazione dell’On. Rosato: se questo era l’obiettivo politico della legge elettorale, si può affermare che essa abbia fallito.
Ma la legge elettorale non ha il compito di selezionare il governo, ma di disciplinare il voto degli elettori.
Se spostiamo, infatti, l’angolo di osservazione dal piano politico a quello costituzionale, non possiamo non rilevare che l’esito prodotto da questa legge elettorale, ossia una composizione del Parlamento plurale, è pienamente compatibile con quanto previsto dalla Costituzione repubblicana in tema di forma di governo: i giochi si spostano nella sede politica naturale, il Parlamento, che negli ultimi venti anni è stato spesso ridotto a mero organo di ratifica delle decisioni governative. Le dinamiche parlamentari riprendono vigore: va ricordato, infatti, che le coalizioni elettorali, per come previste dal Rosatellum bis, non comportano un vincolo sul programma e dunque sono fluide, potendosi anche successivamente sciogliersi, possibilità confermata dalle due crisi di governo del 19 agosto 2019 e del 14 gennaio 2021, con buona pace di chi invoca improbabili Terze o Quarte Repubbliche. Il Rosatellum bis, a conti fatti, ha riportato al centro del sistema costituzionale il Parlamento e le coalizioni governative.
Ed è proprio nel quadro di un governo di coalizione – che vede al suo interno il mutamento della maggioranza, per il venir meno di uno dei partiti di maggioranza (nel caso in esame, Italia Viva) e di una crisi parlamentare (essendo questa la via imboccata dal Presidente Conte che ha deciso di non rassegnare le dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica, ma di presentarsi al Parlamento per ottenere un voto di fiducia su una nuova maggioranza) – che va inquadrata la crisi del Governo Conte bis, per valutare se il processo avviato segua o meno i dettami della Costituzione.
A questo punto, soccorre, come sempre quando si tratta di interpretare il significato e la finalità delle disposizioni costituzionali, il tenore degli atti dell’Assemblea costituente: leggendo la discussione che portò all’approvazione dell’art. 94, ossia la disposizione costituzionale che disciplina il voto sulla questione di fiducia, appare subito chiara la percezione dell’impatto che la fissazione di un quorum rafforzato avrebbe determinato sulla formazione di una maggioranza parlamentare e dunque del governo, inteso come promanazione di quella. Nella seduta del 24 ottobre 1947 fu Mortati con la lucidità del suo pensiero a fare chiarezza sulla scelta di non introdurre un quorum rafforzato per il voto di fiducia: “la soppressione del requisito della maggioranza assoluta pel voto di fiducia si basa sulla considerazione della attuale situazione politica italiana, caratterizzata dalla mancanza di grandi partiti e dalla necessità di dar vita a Ministeri di coalizione. In presenza di una siffatta situazione può sembrare opportuno, proprio ai fini della stabilità del Governo, non richiedere una maggioranza assoluta. Chi propose il testo del progetto, e fra questi anch’io, si indusse a porre la condizione della maggioranza assoluta nella convinzione che essa potesse contribuire a dare maggiore saldezza alla compagine del Governo. Ma una più matura considerazione ha portato a ritenere che il mantenimento di una disposizione di questo genere potesse in certi casi riuscire controproducente, ed anzitutto rendere più difficile la risoluzione delle crisi, prolungando il periodo di carenza del Governo, ed in secondo luogo rendere più debole la compagine del Ministero, che, dovendo contare su un maggior numero di consensi, sarebbe costretto ad includere nel suo seno elementi di maggiore eterogeneità e, quindi, perdere di compattezza. È chiaro che più sono i gruppi e gruppetti che entrano nella coalizione di Governo più si accrescono le possibilità di crisi, per l’uscita dalla coalizione stessa di qualcuno di essi”.
Pertanto, stando alla matrice costituente, in un sistema parlamentare a trazione multipartitica il luogo in cui si formano le maggioranze è il Parlamento. E in linea con il pensiero mortatiano si muovono quelle disposizioni dei Regolamenti parlamentari – dal 2017 uniformate – che qualificano l’astensione come un voto neutro, ossia utile alla formazione del numero legale ai fini della validità della deliberazione, ossia la metà più uno dei componenti di ciascuna camera (art. 64, III co., Cost.), senza computarlo come voto contrario.
Ciò si traduce, sul piano del diritto costituzionale, che per formare il Governo o votare la fiducia o approvare una mozione di sfiducia non occorre la maggioranza assoluta dei parlamentari, ma è sufficiente la maggioranza relativa: l’esigenza manifestata dal Capo dello Stato attiene alla stabilità politica del costituendo nuovo governo piuttosto che alla legittimità costituzionale del procedimento di formazione del governo, che risulta rispettata anche in presenza di un governo “a maggioranza relativa” o “minoritario”, che sarebbe composto da rappresentanti di partiti che, in totale, controllano meno della metà dei seggi parlamentari: una soluzione, questa, che impedirebbe il ritorno alle urne, ma che non produrrebbe governi funzionanti ed efficaci, essendo la loro sopravvivenza politica consegnata nelle mani di un’opposizione che, paradossalmente, è maggioritaria. Si tratta di soluzioni anomale, che si sono verificate una decina di volte nella nostra storia repubblicana, ma anche in molte esperienze costituzionali (Canada, Norvegia, Spagna, Svezia, Francia, Austria, Danimarca). Senza trascurare il fatto che le preoccupazioni del Presidente della Repubblica Mattarella sono giustificate dal fatto che un governo debole e a maggioranza risicata o “estemporanea” finirebbe con l’urtare contro lo scoglio del semestre bianco, che non consente al capo dello Stato di risolvere un’eventuale crisi di governo, essendogli precluso lo scioglimento delle Camere negli ultimi sei mesi del mandato, condannando il Paese nell’ipotesi di un’ulteriore crisi politica (sotterranea o conclamata) ad un immobilismo che nell’attuale nuova recessione economica equivarrebbe al rischio di default.
Sotto il profilo politico, il 4 marzo 2018 il corpo elettorale ha espresso una conformazione tripolare del sistema politico, probabile rendita delle precedenti tornate elettorali, ed è in questo alveo che si dovrà attingere per formare una maggioranza di governo.
Tutto ciò nel panorama delle democrazie europee stabilizzate non è una novità. In Germania si sono attesi sei mesi (dal 24 gennaio 2017 al 14 marzo 2018) per avere un nuovo governo, perché il quadro politico emerso dalle elezioni non consegnava la maggioranza a nessuna forza politica. E dopo vari tentativi (si ricorda il tentativo di coalizione denominata “Giamaica” dai colori della bandiera giamaicana che raggruppava i Cristiano democratici, i Verdi e il Partito Democratico Libero), si è approdati alla consolidata grande coalizione tra Cristiano-democratici e Socialdemocratici ricorrente dal 1966. Le cc.dd. “grandi coalizioni”, o – per usare una terminologia più vicina a noi – i governi di larghe intese (ossia formati dai due maggiori partiti con opposti orientamenti politici) sono espressione di un sistema parlamentare multipartitico e in Europa si sono verificate con una certa cadenza temporale oltre che in Germania, anche in Austria, Grecia, Portogallo e in Svizzera, dove la coalizione tra i quattro maggiori partiti è durata dal 1959 al 2003 secondo un modello tipico di democrazia consociativa. Anche il Regno Unito, la culla della democrazia maggioritaria europea, ha sperimentato nel 2010 il governo di coalizione Cameron-Clegg tra conservatori e liberal democratici. Insomma, i governi di coalizione, sia essa “grande” o ordinaria (ossia tra partiti di aree politiche contigue), sono un fatto ricorrente nelle democrazie europee di ispirazione pluralista.
Tornando al sistema politico italiano, non credo che ci siano i margini per una “grande” coalizione tra le prospettive di soluzione dell’attuale crisi di governo italiana: da un lato, le esternazioni di autorevoli componenti dei partiti Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia non lasciano intravedere possibilità alcuna di formare un governo di larghe intese, e dall’altro la posizione di IV sembra essersi trasformata da oppositiva in meramente astensionistica, non escludendo un possibile sostegno (esterno, o con abile giravolta, interno?) al costituendo governo. Tutto ciò denota l’estrema fluidità del sistema politico italiano, che consente repentini quanto inconsueti passaggi dalla maggioranza all’opposizione: esempio eclatante il M5S, la deideologizzazione risulta evidente nel disinvolto passaggio dal Governo Conte 1 al Governo Conte bis, con una rotazione a 180° dell’alleanza di governo.
L’oscillazione tra varie formule maggioritarie espresse nelle mutevoli coalizioni governative, non fondate su progetti politici organici ma su singole questioni sulle quali di volta in volta si cerca di coagulare il consenso di singoli parlamentari, rappresenta un elemento patologico non della democrazia parlamentare, ma del sistema dei partiti, avendo rivelato la recente tendenza di questi ultimi a ricercare formule elettorali che non tanto si inquadrassero nella cornice costituzionale quanto fossero orientate a “costruire” la governabilità del sistema. Questo processo ha determinato un progressivo scollamento dei partiti tradizionali dalla società civile, tradendone l’originaria vocazione costituzionale: a differenza di altre democrazie costituzionali che hanno optato per l’istituzionalizzazione dei partiti politici (per l’art. 21 della Costituzione tedesca i partiti sono istituzioni a fondazione libera “che concorrono alla formazione della volontà politica del popolo”)), la scelta costituente italiana ha collocato il partito politico nella società civile rendendolo uno strumento del cittadino per la realizzazione della politica nazionale. Emblematica, in tal senso, la limpida formulazione dell’art. 49 della Costituzione italiana, per il quale “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti politici per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. E’ nella crisi dei partiti, che hanno smesso farsi interpreti delle istanze sociali, che vanno ricercate le cause della crisi della democrazia italiana, che tuttavia è specchio impietoso di un fenomeno che ha origini nella perdita dell’identità ideologica dei partiti tradizionali (dal crollo del muro di Berlino, che ha segnato la fine della guerra fredda e dei regimi comunisti, al fallimento della costruzione europea, che ha alimentato, da un lato, spinte neo-liberiste abbracciate anche da partiti di sinistra e, dall’altro, il radicarsi di istanze sovraniste, fenomeno questo accelerato dalla crisi economica globale esplosa nel 2008): non è un caso che alla tradizionale contrapposizione desta/sinistra si è andata sovrapponendo l’altra contrapposizione tra sovranisti e non sovranisti (o detto in altri termini tra antieuropeisti ed europeisti), dovendo i partiti politici mettere al centro della propria azione politica il cittadino e i suoi bisogni.
Questo dato ci porta alla conclusione che non esiste una legge elettorale ideale in grado di bilanciare perfettamente rappresentatività e governabilità. Ci sono, però, una serie di strumenti e prassi costituzionali che possono impedire l’insorgere di cortocircuiti istituzionali: si pensi alla limitazione delle questioni di fiducia, alla sfiducia costruttiva, al ricollocamento del decreto-legge nel suo naturale alveo naturale di strumento normativo straordinario, e così via.
Le Costituzioni, anche le più perfette, hanno bisogno di uomini per poter funzionare al meglio: ancora una volta è alla classe politica che va chiesto impegno, coerenza e responsabilità.