1. Il Panopticon: un paradigma senza tempo.
Quando, a Michel Foucault, venne chiesto da Jean Pierre-Barrou come avesse scoperto il Panopticon, in una conversazione riportata nel testo “Panopticon, ovvero la casa d’ispezione” (1983) di Bentham, egli spiegò che tutto era iniziato con uno studio sulle origini della medicina clinica e sull’istituzionalizzazione dello sguardo medico. Tutto un inizio che poi portò l’autore da un’attenzione basata unicamente sul controllo del corpo all’interno della clinica, ad un controllo sui corpi da parte delle strutture penali e quindi delle carceri. Continuando, nel testo della conversazione, Foucault spiega come si accorse che nel suo studio basato sulla comprensione dei grandi progetti di ristrutturazione delle prigioni vi fosse sempre presente la reiterazione dello stesso tema, ovvero, del Panopticon di Jeremy Bentham. Quest’ultimo rileva, nel 1791, la cosiddetta formula per un “potere per trasparenze”, ovvero, un potere che agisca non dal sottosuolo, ma in maniera per cui pur agendo da dietro la porta è ugualmente manifesta, un potere che nella sua pervasività diventa senza pietà e scellerato, pur non essendo scorto dalla vittima.
Foucault riprende da Bentham il merito di aver evidenziato il processo dell’invisibilità di un potere che rende ogni cosa visibile davanti ad esso e lo teorizza a suo modo utilizzandolo come paradigma del controllo sul corpo sociale. La struttura panottica si dipana all’interno di una dialettica tra il vedere e l’essere visti. Uno spazio, come direbbe Michel de Certeau, che “[…]…è un incrocio di entità mobili. È in qualche modo animato dall’insieme dei movimenti che si verificano al suo interno… […]” (1980). Costituito da una torre centrale che guarda un anello alla sua periferia, il Panopticon diventa l’emblema di un controllo localizzato non su una persona fisica e specifica, ma sulla paura di essere continuamente osservati. Così, Foucault, in “Sorvegliare e punire” (1975), spiega come all’interno di questa logica del controllo non controllato, che a sua volta controlla e destabilizza il soggetto osservato, si istituisce una relazione di potere che oltre ad istituzionalizzare la funzione dello specifico spazio della prigione crea dall’interno, in maniera probabilmente meno diretta ma molto più efficace, l’assoggettamento dell’individuo. Nella paura di essere visti e guardati continuamente da quella torre centrale, il detenuto diventa vittima di meccanismi pervasivi di osservazione, diventando l’oggetto principale dell’intenzione disciplinare e della correzione comportamentale. L’individuo, che vive lo spazio dell’anello attorno alla torre, non può vedere il polo del controllo, ma può soltanto rammentare e vivere tra quelle mura con l’idea che continuamente, in ogni sua mossa, sarà controllato. Su questo controllo onnipresente si innesta la paura della punizione, dunque, in questo modo si dipana una fenomenologia del potere inarrestabile che plasma dall’interno, passando anche dalla dimensione inconscia: il soggetto.
Il Panopticon rappresenta e incarna l’avanzamento tecnologico del potere e delle sue logiche comportamentali. Nella sua struttura si identifica l’importanza dell’adoperare un potere che abbia costi minori ed efficienza maggiore, propriamente per quel gioco di movimenti interni che cita il de Certeau, movimenti causati da uno sguardo che controlla e che guarda come si dimena la sua preda nell’assoluta inconsapevolezza della prospettiva da cui viene osservato. Lo sguardo continuo nei confronti dell’individuo prende il posto della punizione pubblica e teatrale, il monito della punizione corporale e violenta viene scambiato con una intenzione più pervasiva, che parte dalla mente dell’individuo rendendolo vittima della paura e debole di fronte alla tensione dell’errore. Lo sguardo genera tutto questo, senza muoversi esso agisce. Il Panopticon, dunque, diventa una struttura che “[…] … denota un significato…[…]”, per dirla con l’Umberto Eco de “La struttura assente”(1968). I “denotata”, come continuerebbe a dire Eco, sono i dati che all’interno della struttura rimandano al suo senso e alla sua funzione, essi identificano il rapporto tra significato e significante. I denotata del Panopticon, oltre che identificarsi nella sua specifica forma duale torre-anello, sono identificati anche dal fatto che tale forma specifica assume su di essa una funzione peculiare e dunque i detenuti stessi, mantenuti in quella specifica posizione tra le mura, diventano denotata di una struttura carceraria unica nel suo genere. Però il Panopticon, nella sua perfezione come struttura di detenzione, serve anche come universale paradigma da utilizzare per fare luce sul rapporto di forza che intercorre tra l’individuo sociale e il potere che pone le radici dal sottosuolo della società.
Il sociologo David Lyon, nel suo “La società sorvegliata” (2001), spiega come, per l’appunto, sia nelle aree urbane il luogo perfetto per cui la sorveglianza si faccia ancora più intensa. Dunque, leggere il Panopticon secondo una visione più “macro” potrebbe estendere largamente la concezione critica nei confronti di un sistema che ormai si è assolutamente normalizzato sul controllo che fisicamente è assente, ma che riveste quella presenza invisibile totalizzante e pervasiva, pronta a porti di fronte alle tue negligenze e ai tuoi errori.
2. La via del bio-potere.
Michel Foucault rileva la nascita del bio-potere all’inizio dell’età classica e nella sua nascita riscontra due nuclei fondanti che rimasero permanenti fino alla normalizzazione delle strategie di controllo sull’individuo: la specie umana e il corpo[1]. Partendo dal secondo punto, il corpo, si può risalire al primo, poiché nel corpo si ascrivono tutte le strategie di controllo utilizzate per qualsiasi misura di “mantenimento dell’ordine”, in esso si istituisce la concezione degli individui-corpi come oggetti da manipolare. Per tale ragione, in seguito, si risale al primo punto del bio-potere, ovvero la specie umana, poiché è tutta la specie-popolazione ad essere sotto l’occhio del controllo, tramite il suo corpo. In virtù di questa messa in evidenza del corpo come polo su cui si istituisce la strategia di controllo, si può arrivare ad un celebre punto della ricerca foucaultiana, ovvero il concetto di “potere disciplinare” che poi genera il cosiddetto “corpo docile”, sviluppati – i due concetti – in “Sorvegliare e punire” (1975). Foucault parla di una concezione del potere ancora più profonda e subdola che come una macchinazione attua il suo ruolo dall’interno dell’individuo, generando – senza argine data la normalizzazione quasi inconsapevole – individui già assoggettati e costituenti del potere stesso. La docilità a cui si riferisce il nostro autore, attraverso il potere disciplinare, risiede nel fatto che non soltanto – in quanto “docile” – era facilmente assoggettato, ma deve allo stesso tempo essere anche un corpo produttivo, ovvero che risponda alle leggi e alle regole ascritte allo spazio del controllo in cui agisce e si muove: che siano caserme, ospedali, prigioni, spazio urbano e quant’altro. Tutto ciò per comprendere come il bio-potere stia alla base della tecnologia della disciplina.
Uno degli aspetti su cui bisogna soffermarsi e che più mette in risalto l’importanza del pensiero di Michel Foucault, viene rappresentato dal fatto che vi sia uno stretto legame tra docilità del corpo e produzione dello stesso, poiché è sulla stessa produttività data all’interno di uno spazio di controllo che prevede uno specifico ruolo che si ascrive la pervasività del bio-potere. Ciò che drammaticamente è successo ieri , 27 Maggio 2020, a Minneapolis, nei confronti di George Floyd, afroamericano fermato da due poliziotti e barbaramente ucciso da uno dei due, rappresenta un esempio di questa dialettica tra docilità e produttività del corpo all’interno di un sistema di potere, il quale viene in questo caso rappresentato dalla divisa e dall’eseguire, unicamente, gli ordini impartiti, ma che in questo specifico caso crea un altro concetto importante all’interno del pensiero di Foucault che è la cosiddetta “microfisica del potere”, che è per l’appunto ciò che rende soggettiva l’azione in sé e la slega, per eccesso dell’attuazione della pratica, dal contesto che dà significato al ruolo del poliziotto[2], ovvero la caserma. Il poliziotto riceve un ordine, ma come in questo caso, mosso dal suo sentimento definito “sovranista” e “razziale”, agisce come meglio crede nei confronti dell’individuo bloccato, agendo su di esso mosso da un sentimento che dovrebbe essere scisso dal ruolo sociale che svolge, basato più che altro su un mantenimento dell’ordine e non sull’esecuzione auto-legittimata di chi viene definito come “deviante” di fronte alla propria rappresentazione di società.
Queste tematiche, che sono soltanto alcune di quelle che costituiscono il pensiero di Michel Foucault, rappresentano un modo molto efficacie per leggere il mondo in cui viviamo, un mondo in cui “Il controllo disciplinare e la creazione dei corpi docili è indiscutibilmente collegata alla nascita del capitalismo”[3], un mondo in cui si è ritornati a quella “banalità del male” di cui parlava Hannah Arendt, un mondo in cui il progresso sembra più uno sviluppo dei mali, come già profetizzava Pier Paolo Pasolini, un mondo in cui il controllo è un valore primario e il soggetto un valore secondario su cui manifestare le logiche del controllo stesso.
Se ai tempi in cui Foucault ragionava sulle tecnologie del potere si pensava, lui pensava nell’effettivo, che tali logiche e tecnologie rimanevano nascoste ad agire dall’angolo buio e delocalizzato, allora, oggi più che mai, il controllo disciplinare è diventato prassi monolitica che muove le acque, tanto da agire “alla luce del giorno”. Un’evoluzione che era stata profetizzata e che oggi sembra difficile da sconfiggere e sradicare dall’immenso range di valori che identificano il nostro mondo.
Maurilio Ginex
Bibliografia:
– Bentham, Panopticon, Marsilio Editori, Venezia, 1983, a cura di Michel
Foucault e Michelle Perrot.
– David Lyon, La società sorvegliata, Feltrinelli, Milano, 2003.
– Hubert L. Dreyfus e Paul Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte
della grazie, Firenze, 1989.
– Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976.
– Michel Foucault, La nascita della follia, Rizzoli BUR, 1976.
– Foucault: il potere e la parola, a cura di Paolo Veronesi, Zanichelli,
Bologna, 1978.
– Umberto Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968.
[1] La ricerca in Michel Foucault, Hubert L. Dreyfus e Paul Rabinow, Ponte delle grazie, Firenze, 1989. p. 160-167.
[2] Microfisica del potere, Michel Foucault, Torino, Einaudi, 1977. Vedi per approfondimento del tema della “microfisica” dell’attuazione del potere da parte di terzi che eseguono un ordine.
[3] Ivi, Hubert L. Dreyfus e Paul Rabinow, Ponte delle grazie, Firenze, 1989, p. 160.