INTRODUZIONE
Nel corso della prima metà del Novecento si iniziavano a tracciare i primi progetti coerenti ad un riordino politico, economico e sociale dell’Europa, promossi da molteplici esponenti politici e intellettuali dei vari Stati del vecchio continente. La Prima guerra mondiale aveva inciso profondamente sugli equilibri internazionali, andando di fatto a formare un nuovo, fragile equilibrio geopolitico. Si rendeva necessario, pertanto, ripensare ad una Europa stabile, che fosse capace di difendere la pace e il rispetto della sovranità di tutti gli Stati nazionali.
In questo articolo, dapprima s’introdurrà una descrizione della situazione politico-economico in cui versava l’Europa nel primo dopoguerra, con l’obiettivo di illustrare alcune tra le ragioni che portarono alla fine della Repubblica democratica di Weimar.
Verranno brevemente analizzate anche le modalità con cui Hitler prese il comando del Terzo Reich, riscoprendo alcuni strumenti utilizzati che hanno tutt’oggi una forte attualità politica.
Successivamente, verrà fatto un excursus sui concetti d’Europa fondati sulle ideologie liberaldemocratiche – fortemente osteggiate da nazisti e fascisti – che si andavano progressivamente affermando negli anni Venti e ritenute di notevole interesse poiché convogliarono, mutatis mutandi, in alcune tra le più importanti istituzioni politiche internazionali, tra cui l’Unione europea.
Si focalizzerà l’attenzione soprattutto sulle caratteristiche principali del Nuovo Ordine Europeo, sui diversi modelli e sui piani che vennero contestualmente posti in essere dalla Germania nazista.
Infine, si metterà in luce la differenza tra i termini “collaborazione” e “cooperazione”, svelando il ruolo ricoperto da alcuni attori politico-istituzionali, in quegli anni bui che vanno dal 1933 al 1945.
L’ascesa al potere di Hitler nel 1933 e lo scoppio della Seconda guerra mondiale possono essere ricondotti, tra le altre ragioni, alle conseguenze della Prima guerra mondiale. Il Trattato di pace di Parigi, firmato a Versailles nel 1919, aveva imposto all’ex impero di Guglielmo II l’accettazione della responsabilità dello scoppio della Grande guerra, da cui derivarono il risarcimento danni, il disarmo, la ridefinizione dei confini statali e l’affermazione del principio di autodeterminazione dei popoli. Da una parte, Hitler recepì queste imposizioni come un diktat e, durante i suoi discorsi pubblici, dichiarava di “volere la pace ma non l’oppressione”, evidentemente in modo del tutto contraddittorio al suo agire. Dall’altra, il Führer utilizzò in maniera distorta il suddetto principio di autodeterminazione dei popoli, annettendo i tedeschi che abitavano nella regione dei Sudeti, in Cecoslovacchia, attraverso la stipula dell’Accordo di Monaco, ribattezzato in seguito come il “diktat di Monaco”. Il Trattato di pace di Locarno del 1925 – che fece valere il premio Nobel per la pace ai tre firmatari (Stresemann, Chamberlain e Briand) – aveva contribuito alla realizzazione di un particolare clima di distensione tra le principali potenze europee. Non a caso, l’anno successivo la Germania entrò persino a far parte della Società delle Nazioni. È proprio in questo periodo che si svilupparono i primi progetti organici per la formazione di un’Europa unita: nel 1923 il conte Kalergi preconizzò la creazione degli Stati Uniti d’Europa, ovvero una comunità basata sull’unione doganale e monetaria, con un arbitrato internazionale, una costituzione europea, due camere dei rappresentanti (una dei deputati e una dei 26 Stati europei), una bandiera e una lingua comune, con l’obiettivo di combattere quelli che secondo lui erano i nemici della pace: i comunisti, gli sciovinisti ed i militaristi[1]. Come presidente di questo progetto Kalergi scelse il ministro francese Briand, il quale nel 1930 propugnò la nascita dell’Unione federale dell’Europa, il primo progetto europeo presentato all’Assemblea della Società delle Nazioni. Gli ideali liberaldemocratici difesi da Briand erano molto simili a quelli di Kalergi. A differenza di quest’ultimo, però, Briand contemplava l’ingresso anche del Regno Unito nell’Unione e, per di più, non vedeva le colonie soltanto come territori da sfruttare[2]. Nella rivista tedesca “Abendland” lo scrittore cattolico Schreyvogl al principio auspicò la nascita di una comunità europea basata sulla parità delle nazioni sebbene, dopo l’ascesa del nazismo, cambiò prospettiva, dando comunque alla Germania un ruolo di primus inter pares[3].
Da parte del regime fascista l’avvio del dibattito sulle sorti politiche dell’Europa avvenne a partire dagli anni ’30. Al Convegno Volta organizzato da Mussolini a Roma nel 1932 parteciparono diversi intellettuali che affrontarono il tema del ruolo dell’Europa e di chi dovesse guidare il Nuovo Ordine Europeo. Gli esponenti fascisti non furono in grado di proporre progetti realmente attuabili che andassero oltre alla mera ideologia. L’indeterminatezza delle proposte fu chiara all’ideologo nazista Rosenberg che non riconosceva il ruolo guida cui l’Italia fascista si candidava[4]: secondo Mussolini, l’Italia era il modello da seguire per raggiungere la mitica pax dell’Impero Romano; per Coppola, era necessaria una gerarchia fondata sull’obbedienza dei paesi extra-europei[5]. In quegli stessi anni la situazione economica in Germania era abbastanza drammatica. Le pesanti condizioni di guerra e la Grande Depressione del 1929 contribuirono alla disfatta della neonata Repubblica di Weimar. La democrazia, infatti, apparì vacillante fin dalla propria fondazione e il partito Nsdap riuscì a raccogliere le rimostranze nazional-patriottiche dei partiti di destra[6], ottenendo una discreta maggioranza di voti. Il 30 gennaio 1933 Hitler venne nominato cancelliere dal presidente della Repubblica Hindenburg. Il 27 febbraio dello stesso anno scoppiò il famoso incendio del Reichstag, vennero condannati i comunisti e il 23 marzo fu votato e approvato il “Decreto dei pieni poteri”, l’atto prodromico della dittatura. Hitler fu legittimato così a “prendere tutte le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica” secondo l’art. 48 della Costituzione. Infine, dopo la morte del Presidente, assunse il pieno controllo della nazione.
Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, i nazionalsocialisti iniziarono ad utilizzare l’espressione Nuovo Ordine Europeo (in tedesco Neuordnung Europas) per indicare una trasformazione complessiva dell’assetto politico, economico e sociale dell’Europa, resasi necessaria per riunificare il popolo tedesco sotto la guida egemonica della Germania. Per realizzare questo progetto, i nazisti cercarono di amministrare o di occupare militarmente vaste porzioni di territorio che andavano dai Paesi balcanici, a quelli baltici, fino a gran parte dell’Europa centrorientale. Durante il secondo dopoguerra, l’espressione Nuovo Ordine Europeo veniva usata in vari contesti e con significati diversi. Il filo rosso che contrassegnava la maggior parte delle descrizioni era l’obiettivo di Hitler di ridisegnare la cartina dell’Europa secondo un ordine da lui imposto, senza però un progetto politico ben definito, se non quello di annientare tutti i nemici che si fossero interposti alla realizzazione di tale progetto, tra cui i bolscevichi, gli slavi e gli ebrei. Tutto ciò andava contro qualsiasi principio di Diritto internazionale, in quanto non veniva riconosciuta la sovranità degli altri Stati. Tra le diverse correnti storiografiche che si sono via via sviluppate nel corso degli anni ’60 e ‘70, neppure la corrente più estrema, quella cd. intenzionalistica, intendeva attribuire ad Hitler la volontà di creare uno spazio vitale (Lebensraum) che andasse oltre il territorio dell’Europa dell’Est. Il Lebensraum era un concetto basato sulle teorie darwinistico-sociali, coniato dall’etnologo Ratzel e poi ricollegato alle idee di razza e volk (popolo inteso come comunità mistica discendente dallo stesso sangue). A differenza del Grossraum – il grande spazio che avrebbe inglobato anche i territori dell’Urss all’interno dell’economia tedesca – il termine Lebensraum indicava quella porzione di territorio necessaria alla sopravvivenza delle popolazioni germaniche[7]. Non è semplice stabilire se vi fosse un collegamento diretto tra spazio vitale e il Nuovo Ordine Europeo. Da parte della Germania, l’Anschluss del ‘38 fu considerato uno strumento necessario per la politica dei grandi spazi e non fu nemmeno visto come un vulnus per l’Italia, nell’ampia prospettiva di un Nuovo Ordine Europeo. Inoltre, nella prima fase di questo progetto, la Germania non temeva le mire espansionistiche italiane poiché si concentravano specialmente (e rovinosamente) in Africa. L’Italia, d’altro canto, inizialmente non considerava l’imperialismo tedesco una minaccia perché credeva di poter collocare l’asse Roma-Berlino alla guida del Nuovo Ordine Europeo.
Fino ai primi anni della Seconda guerra mondiale, il partito Nsdap e Hitler non elaborarono alcun progetto preciso nel campo della politica estera, ignorando persino le varie ipotesi presentate da alcuni dirigenti nazisti[8]. A partire dalla sconfitta di Stalingrado del 1942, la battaglia che più di tutte comportò un’inversione di tendenza nelle sorti della guerra, la Germania nazista cominciò a proporre programmi europei che prevedessero una sorta di federazione politica tra gli Stati, benché tali progetti venissero promossi soltanto per fini propagandistici e, a volte, osteggiati da Hitler in persona. Da quel momento in poi il fanatismo razziale fece degli ebrei il capro espiatorio della sconfitta della Germania. Infatti, la sconfitta tedesca della Wehrmacht a Mosca accelerò i processi di predisposizione dei piani per la soluzione finale della questione ebraica[9]. Vi è oggi un ampio consenso sul fatto che il razzismo dei nazionalsocialisti non fosse un elemento puramente ideologico che condusse ex se allo sterminio finale. L’obiettivo precipuo non fu soltanto lo sterminio ma anche la volontà di imporre una politica di cleansing and resettlement, ossia di purificazione razziale e ricollocazione dei popoli, per ridurre anche una presunta sovrappopolazione europea. L’obiettivo fu quello di consolidare l’etnia tedesca nelle colonie della Germania nazista, eliminando quei popoli considerati non germanizzabili. A tal fine, fu elaborato un piano – denominato Generalplan Ost – che prevedeva la suddivisione delle popolazioni degli Stati occupati in percentuali variabili a seconda dell’origine etnica. In Cecoslovacchia, ad esempio, i nazisti ritennero che il 50 per cento della popolazione composta di cechi non germanizzabili dovesse essere espatriata forzatamente nei territori non di particolare interesse per il Reich, al di là dei monti Urali. A differenza del Nuovo Ordine europeo, tale progetto si rivolse prevalentemente alle popolazioni dell’Europa dell’Est. Se infatti nei confronti dell’Europa occidentale la Germania associò forme di sfruttamento a forme di collaborazione, con le popolazioni dell’Est, invece, venne esclusa ogni collaborazione[10]. Secondo la definizione di Galemi, con il termine collaborazionismo si indica l’adesione ideologica al piano di rifondazione del Nuovo Ordine Europeo. Alcuni studi recenti hanno rivalutato il rapporto che si crearono tra la Germania nazista e i paesi occupati: la tesi di fondo è che, in realtà, la maggior parte dei paesi europei ebbe un minimo potere di contrattazione con la Germania nazista che concedeva loro un certo margine di manovra e che li rendeva in qualche modo soggetti attivi in alcune pratiche tipicamente naziste. Numerosi sono gli esempi a conferma di questa tesi: l’Ungheria, dopo essere stata occupata dalla Germania, iniziò a promuovere una modernizzazione sociale coordinata coi tedeschi attraverso la deportazione degli ebrei[11]; dai Paesi Bassi, nonostante fosse la nazione simbolo della resistenza, partirono 23 mila olandesi volontari per combattere tra le fila della SS-Waffen; l’Austria, a seguito dell’Anschluss, finì per fornire metà delle guardie di tutti i campi di concentramento; infine, la Francia, durante l’ultimo governo legittimamente votato dal Parlamento francese, introdusse le leggi ebraiche del 1940, senza alcuna pressione da parte dei nazisti, rendendo apolidi migliaia di ebrei che vennero poi deportati nei campi di concentramento[12]. A tal riguardo, alcuni esponenti politici asserirono che l’iniziativa di tali pratiche provenisse dai nazisti che controllavano de facto i governi fantoccio. A smentire questa visione, però, è il caso eccezionale della Danimarca che, nonostante l’occupazione nazista del 1940, fu l’unico Stato in cui gli ebrei riuscirono a sopravvivere grazie all’intervento eroico del governo occupato. Per tali ragioni, la storiografia più recente ha preferito utilizzare il termine “cooperazione” – politicamente più neutro rispetto a “collaborazione” – per evitare quella tendenza dei paesi occupati ad esternalizzare le proprie colpe alle potenze straniere[13].
CONCLUSIONE
Il tentativo fallito della Germania nazista di imporre con la forza una concezione a senso unico dell’Europa – che sulla base di una gerarchia immaginaria andasse ad annientare tutti gli altri Stati – ha provocato uno stravolgimento della società europea. Tutto questo per colpa di un politico squilibrato che, approfittando dei mezzi democratici dell’epoca, distrusse la democrazia facendo leva su un nazionalismo esasperato. Durante tutto il Novecento, la Germania attraversò diverse fasi di passività miste a fasi di azione. Infatti, a seguito di ciascun conflitto mondiale, si ritrovò ad essere alternativamente oggetto delle politiche di altri Stati, per poi diventare gradualmente soggetto attivo delle politiche europee. Dal secondo dopoguerra in poi, la Germania si trasformò da paese subordinato a paese integrato, per diventare infine una potenza mondiale, economicamente e demograficamente, capace di imporre la sua rigida disciplina a tutti gli altri Stati membri dell’Unione europea. L’ultima frase del libro di Judt “Postwar: A History of Europe Since 1945” recita: “European Union may be a response to history, but it can never be a substitute”. Partendo da questa affermazione si può concludere affermando quanto sia essenziale rinnovare la memoria riguardo ciò che è accaduto soltanto il secolo scorso, al fine di comprendere appieno le dinamiche politiche, sociali ed economiche che travolgono la nostra società contemporanea. Oggi occorre superare quegli stereotipi – nati nel secondo dopoguerra – che tuttora producono effetti polarizzanti tra i popoli europei, ed ambire a quell’unità d’intenti su cui l’Unione europea si fonda.
Francesco Russo
[1] Coudenhove-Kalergi R., (1923), Paneuropa.
[2] Briand A., (1930), Memorandum sur l’organisation d’un regime d’union federal europeenne.
[3] Fioravanzo M., (2011), Mussolini, il fascismo e l’idea dell’Europa. Alle origini di un dibattito. In Italia contemporanea, Franco Angeli, pp. 8-11.
[4] Ivi, pp. 21-26.
[5] Fioravanzo M., (2017) Italian fascism from a transnational perpective. The debate on the New European Order (1930-1945), in Fascism without borders, Bauerkämper A., Rossoliński-Liebe G. (a cura di) Berghahn books, N.Y., pp. 246-245.
[6] Mosse G.L., (2015), Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, pp. 18-19.
[7] Fonzi P., (2015), Il Nuovo Ordine Europeo nazionalsocialista. Storia e Storiografia, in 1943 Strategie militari, collaborazionismi, Resistenze, Fioravanzo M., Fumian C. (a cura di), Viella, pp. 103-106.
[8] Ad es. quelle del ministro plenipotenziario Clodius o dell’ambasciatore Ritter. Si veda Collotti E., (1985) Grande Germania e progetto nazista di Nuovo ordine europeo, in Italia contemporanea, pp. 13-19.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, pp. 23-24.
[11] Fonzi P., Op. Cit., pp. 115-117.
[12] Judt T., (2011), Postwar: A History of Europe Since 1945, Random House, pp. 808-815
[13] Fonzi P., Op. cit., pp-115-116.