Il presente articolo si prefigge l’obiettivo di ricostruire le tappe evolutive del principio di uguaglianza fra gli Stati membri dell’Unione Europea, un principio introdotto per la prima volta dal Trattato Costituzionale ed oggi riaffermato efficacemente dal Trattato di Lisbona all’art. 4(2) TUE.
Il principio di uguaglianza tra gli Stati si è inizialmente affermato nel lessico giuridico come una propaggine della teoria del diritto naturale e dell’Illuminismo: era basato su un’analogia tra i diritti degli individui e quelli degli Stati, mentre altri sostenevano fosse radicato in un’idea di “cosmopolitismo innato”. Francisco de Vitoria ha suggerito che gli Stati potrebbero essere inclusi nell’idea dell’uguaglianza naturale di individui e dei popoli. Iconica l’affermazione di Emmerich de Vattel, che ha osservato che ‘just as a midget is a man no less than a giant, so a tiny republic is no less sovereign than the most powerful of kingdoms’.
Dopotutto, il principio era funzionale all’idea dello Stato sovrano: considerando che una comunità disorganizzata manca di qualsiasi autorità gerarchicamente più alta, e che la legge nasce come un modo per lo Stato di limitare la propria sovranità, ogni stato sovrano ha il diritto di essere considerato uguale ad altri Stati, proprio perché non riconosce alcuna autorità superiore (superiorem non recognoscens) e ciò indipendentemente dalle sue dimensioni, peso o ricchezza. Il principio, che nel tempo si è solidificato in qualcosa di postulato, era una dichiarazione di uguaglianza formale o legale davanti alla legge, ed era inteso a proteggere gli Stati più piccoli o più deboli. Ne sono scaturiti anche alcuni corollari, in particolare che gli Stati sono indipendenti, che non possono esserci interferenze nei loro affari interni e che ogni Stato è immune dalla giurisdizione di altri Stati. In un caso del 2012 in cui la Germania si riconosceva immune dalla giurisdizione civile italiana in relazione a circostanze che riconducono all’occupazione nazista in Italia, la Corte Internazionale di Giustizia ha trovato che il principio di immunità iure imperii si basa proprio sul principio dell’uguaglianza formale tra gli Stati. È chiaro, tuttavia, che l’uguaglianza formale tra gli Stati raramente, se non mai, implica un’uguaglianza sostanziale, vale a dire un’uguaglianza di relazioni di potere, e in tal senso è stata criticata dal positivismo giuridico.
Kelsen ha respinto la visione, allora dominante, secondo cui il principio di uguaglianza tra gli Stati è strettamente legato a quello dell’autonomia degli Stati in quanto soggetti del diritto internazionale. Egli riteneva infatti impossibile estrarre le regole da un concetto giuridico come quello della sovranità in ossequio al fatto che le regole nascono dalla pratica. Il principio di uguaglianza è stato ribadito nelle conferenze internazionali di pace tenutesi a L’Aia nel 1889 e nel 1907, in occasione delle quali esso è stato catturato nel motto ‘One State, one vote’, ma ha suscitato molto attrito quando si è discusso di istituire un tribunale arbitrale internazionale incaricato di dirimere le controversie internazionali. Nessuna menzione del principio è stata fatta invece nella Convenzione della Società delle Nazioni, che non si basava su un principio di uguaglianza formale, ma dava maggiore peso alle nazioni che avevano sconfitto la Germania, tuttavia, atteso che l’organizzazione non aveva la capacità di vincolare gli Stati che non partecipavano alle sue decisioni, l’uguaglianza sostanziale non veniva violata.
La Carta delle Nazioni Unite ha rovesciato la situazione. Da un lato, nel preambolo, stabiliva formalmente l’uguaglianza dei diritti delle “nazioni grandi e piccole”, mentre dall’altro affermava, all’articolo 2, paragrafo 1, che ‘the Organization is based on the principle of the sovereign equality among all its Members’, un principio che si riflette di fatto nel funzionamento della sua Assemblea Generale. Ma d’altra parte, la rappresentanza disuguale in seno al Consiglio di sicurezza ha fatto sì che le sue risoluzioni fossero vincolanti anche per quegli Stati che non avevano preso parte al processo decisionale. Ma poi, dato che le potenze nucleari stavano emergendo sulla scena mondiale e si era creata la necessità di limitare la proliferazione nucleare, divenne presto chiaro che la sicurezza internazionale non poteva essere garantita senza accettare che non tutti gli Stati avessero diritto a pari diritti. Il principio dell’uguaglianza sovrana tra gli Stati è stato affermato ancora una volta dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella sua Dichiarazione sui principi di diritto internazionale in materia di relazioni amichevoli e cooperazione tra gli Stati. Avendo definito l’uguaglianza sovrana nel senso che tutti gli Stati ‘hanno uguali diritti e doveri e sono membri uguali della comunità internazionale, nonostante le differenze di natura economica, sociale, politica o di altra natura’, la Dichiarazione elenca i contenuti specifici di tale uguaglianza, affermando che tutti i principi contenuti nella Dichiarazione stessa sono correlati, ad esempio, e che “costituiscono i principi di base del diritto internazionale” per un altro. La Dichiarazione rifletteva un’epoca in cui la decolonizzazione era in corso e l’uguaglianza tra gli Stati era ampiamente percepita come un corollario della loro indipendenza come soggetti di diritto internazionale. Ma poiché l’uguaglianza formale può essere volontariamente limitata da un trattato internazionale liberamente sottoscritto da uno Stato, dando origine a situazioni differenziate così modellate dalla legge, è chiaro che anche se vi è un’uguaglianza formale nella formazione di un trattato, il suo contenuto può riflettere le ineguali relazioni di potere tra i firmatari: illuminante in questo senso è il dibattito sui c.d. “trattati iniqui”, così come la pratica più recente del cosiddetto WTO Plus. E infatti, mentre la comunità internazionale si sta spostando da uno scenario di Stati indipendenti a uno di interdipendenza degli Stati, le organizzazioni internazionali hanno iniziato a introdurre eccezioni al principio di uguaglianza (senza mai però rigettarlo apertamente), così, proprio come gli Stati membri limitano la propria sovranità, parimenti essi accettano regole che si allontanano dal principio dell’eguaglianza formale, in un modo che solo occasionalmente è giustificato da considerazioni di uguaglianza sostanziale. La relazione tra il principio di uguaglianza e il dovere degli Stati di sostenere in buona fede gli impegni che assumono si dimostra quindi particolarmente importante, giacché, come abbiamo visto, ciò può giustificare una sostanziale limitazione dell’uguaglianza formale attraverso i trattati uno Stato liberamente accetta di entrare. Tale dovere è sancito dall’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite, che impone agli Stati di adempiere a buona fede agli obblighi che assumono secondo la Carta stessa, e che contiene anche una sorta di principio di leale cooperazione.
Il principio di uguaglianza e le Organizzazioni Internazionali
Le organizzazioni internazionali sono istituite sulla premessa che gli Stati membri accettano volontariamente di rinunciare a parte della propria sovranità in modo da conferire poteri all’organizzazione stessa. Questa auto-limitazione della sovranità può anche essere abbinata ad una compressione del principio di uguaglianza formale. Ci sono due criteri alla luce dei quali le organizzazioni internazionali hanno tradizionalmente misurato questa compressione: (a) la rappresentanza quantitativa e il “peso” portato dai diversi stati nelle organizzazioni di cui sono membri e (b) le maggioranze di voto.
- Per quanto riguarda il primo criterio, va evidenziato che il rapporto tra il principio di uguaglianza e la democrazia è ambiguo. Questi due principi sono tipicamente invocati insieme quando si parla di diritti individuali. Così, quando il principio viene messo in relazione con i rapporti tra gli Stati, sembrerebbe a prima vista di combinarsi con la regola ‘One State, one vote’, sulla base di un’idea di democrazia abbracciata all’interno della comunità internazionale. Tuttavia, come è stato sottolineato nella dottrina giuridica, questa regola affronta una sfida alla luce della tendenza verso un ruolo sempre più grande attribuito a persone e individui nel diritto internazionale, poiché l’implicazione è che più lo stato è popoloso, maggiore è il peso che dovrebbe portare. Il concetto di democrazia nel diritto internazionale è quindi ambivalente e solleva una questione fondamentale: è più democratico avere una regola di voto che dia uguale peso a tutti gli Stati in virtù della loro uguale sovranità, oppure il principio di uguaglianza è meglio servito con una procedura che tiene conto del numero di individui che rappresentano Stati diversi? Nell’elaborare una serie di regole di voto, ogni organizzazione internazionale deve cercare di bilanciare queste due preoccupazioni e deve farlo con il consenso dei suoi membri. Non è quindi raro che il principio di pari rappresentanza degli Stati entri in notevole eccezione all’interno delle organizzazioni internazionali, a partire dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la cui composizione riflette una situazione di disparità di potere tra membri permanenti e non permanenti, una situazione originata da uno specifico contesto storico. Si può osservare che la pratica delle organizzazioni internazionali segue una tendenza che va dall’uguaglianza formale – il criterio ‘One State, One Vote’ – ai criteri di uguaglianza sostanziale (in altri termini, che cosa dovrebbe essere interpretato in tal modo).
- Per quanto riguarda il secondo criterio, il principio di uguaglianza tra gli Stati significherebbe in astratto che nessuna maggioranza di stati può imporre nulla che risulti contrario alla loro volontà. Ne consegue che in un’organizzazione internazionale il principio dovrebbe tradursi, almeno in teoria, nella regola del voto unanime. Il requisito dell’unanimità dovrebbe infatti proteggere gli Stati più piccoli dando loro un potere di veto, indipendentemente da quanto sia piccolo lo stato. Ma la regola dell’unanimità fa sprofondare il processo decisionale in una fase di stallo, in ultima analisi, minando la stessa efficacia dell’organizzazione in questione. Ne consegue una contrapposizione tra uguaglianza ed efficacia, una situazione che può indurre gli Stati ad accettare limitazioni sulla prima così come a migliorare quest’ultima.
L’evoluzione del principio di uguaglianza tra gli Stati membri UE
Passiamo ora alla questione di come il principio di uguaglianza si sia sviluppato tra gli Stati membri all’interno di un sistema specifico, quello dell’Unione Europea (UE), che è passato dal suo stato originale di organizzazione internazionale a quello di unione sovranazionale.
Come è noto, il processo di integrazione europea è iniziato con la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), e quindi con un’organizzazione settoriale, composta da sei Stati: sulla base della popolazione, tre di loro erano grandi (Francia, Italia e Germania), due erano di medie dimensioni (Belgio e Paesi Bassi), e uno era un micro-stato (il Lussemburgo). Per quanto riguarda la rappresentanza degli Stati all’interno delle istituzioni della CECA, l’Alta Autorità era composta da più membri di quanti fossero gli Stati CECA – nove membri nominati sulla base delle loro qualifiche e dell’indipendenza. Otto di questi membri erano designati dai governi dei sei Stati (o “per accordo tra loro” o con una maggioranza di cinque sesti), e poi quegli stessi otto membri avevano il compito di eleggerne un nono. Ogni tre anni un cambiamento parziale vi era un cambiamento parziale dei membri dell’Alta Autorità fatto a sorte. Sette giudici sedevano nella Corte di giustizia CECA: ogni tre anni tre e quattro di loro venivano alternativamente selezionati, anche qui a sorte, per la sostituzione con altri incaricati. Per quanto riguarda le regole di voto, le decisioni del Consiglio speciale – la cui presidenza era detenuta da ciascun membro a rotazione nell’ordine alfabetico degli Stati membri – venivano prese a maggioranza assoluta dei suoi membri, ma era necessario che tale maggioranza includesse uno Stato che forniva almeno il 20% della produzione comunitaria di carbone e acciaio. Il numero di seggi assegnati a ciascuno Stato nell’Assemblea Comune era proporzionale alle sue dimensioni in base ai tre livelli precedentemente menzionati: diciotto seggi andavano a ciascuno dei tre maggiori stati; dieci in Belgio e nei Paesi Bassi; e quattro a Lussemburgo. Il sistema CECA è stato quindi caratterizzato da regole di parità formale, tenendo anche conto del peso di ciascuno Stato membro a seconda della produzione e della popolazione. Anche il sistema istituzionale della Comunità economica europea (CEE), in parte basato sul sistema CECA, ha accoppiato la parità formale degli Stati membri con alcuni adeguamenti per correggerne le dimensioni. Ma per certi versi il sistema era diverso da quello della CECA, il primo essendo generale nei suoi obiettivi e il secondo settoriale. Il sistema di voto all’interno del Consiglio (all’epoca l’unico organo legislativo europeo) si basava principalmente sull’unanimità, salvo rare occasioni in cui le decisioni venivano prese a maggioranza semplice o a maggioranza qualificata. Mentre nei sistemi di voto all’unanimità era il principio ‘One State, One Vote’ a fare da protagonista indiscusso, il voto a maggioranza qualificata temperava questo principio assegnando un numero di voti su base ponderata. Il sistema ha quindi trovato un equilibrio tra il bisogno degli Stati più popolosi di essere più rappresentati di quelli meno popolosi e la necessità di assicurarsi che questi ultimi non venissero sistematicamente posti in minoranza. Quindi agli Stati più grandi sono stati assegnati più voti, ma con un correttivo distorto a favore degli Stati più piccoli. Un criterio analogo di proporzionalità degressiva è stato utilizzato per ripartire i seggi nel Parlamento europeo. Si deve tuttavia tenere presente che all’inizio tutte le decisioni, ad eccezione di una manciata, sono state adottate dal Consiglio dei ministri all’unanimità, con il Parlamento relegato a un semplice ruolo consultivo, e quindi anche il più piccolo Stato godeva di un potere di veto. Per quanto riguarda la rappresentanza degli Stati all’interno delle istituzioni europee, la turnazione semestrale della presidenza del Consiglio dei Ministri, accanto alla quale è arrivato, negli anni ’70, la presidenza del Consiglio europeo, sottolineava con enfasi la parità formale di tutti gli Stati membri, che si alternano nell’esercizio delle funzioni politiche e legislative. E poiché gli Stati più grandi hanno nominato più membri sia alla Commissione europea che alla Corte di giustizia europea, le persone così nominate non rappresentavano i loro Stati, ma erano piuttosto incaricate di promuovere l’interesse generale e di proteggere l’ordinamento giuridico europeo comune, rispettivamente. Nel complesso, il sistema comunitario è stato quindi concepito per perseguire un’uguaglianza “sostanziale”, perfezionando il sistema a favore degli Stati più piccoli. In assenza di tali ritocchi, sarebbe stato difficile nell’Europa del dopoguerra convincere gli Stati del Benelux a sottoscrivere il progetto di integrazione con gli Stati più grandi, in particolare la Germania e l’Italia.
Per lungo tempo questo quadro istituzionale si è evoluto con la revisione dei trattati, e con i primi allargamenti il suo numero è cresciuto, sebbene senza alterare la sua filosofia di fondo. Però, partendo dall’Atto unico europeo, le potenze europee si espansero e più settori politici passarono dall’unanimità al voto a maggioranza qualificata, con conseguente eliminazione del potere di veto. Anche l’accresciuto ruolo legislativo assegnato al Parlamento europeo nell’Unione europea, in particolare con la procedura di co-decisione introdotta dal trattato di Maastricht, ha contribuito ad accrescere il peso degli Stati più grandi, senza contare una ripartizione dei seggi basata sul principio della proporzionalità degressiva. Dopo la riunificazione della Germania, il paese, e in particolare la sua Corte costituzionale federale, ha iniziato a criticare l’assegnazione dei voti al Consiglio e ai seggi nel Parlamento europeo, sostenendo che la popolazione degli Stati più grandi era sottorappresentata. Ne è seguito un dibattito sull’equità del sistema che ha tradito un crescente scetticismo riguardo alla capacità dell’Unione di rappresentare equamente gli interessi di tutti gli Stati membri e delle loro popolazioni, e il dibattito è diventato ancora più acceso alla luce del considerevole allargamento che ha portato a dodici nuovi Stati membri. Un tentativo di far fronte a queste crescenti tensioni e sfiducia reciproca è stato fatto nel trattato di Nizza, in base al quale il numero di membri tedeschi del Parlamento europeo è aumentato rispetto a quello degli altri grandi Stati, pur mantenendo il criterio di proporzionalità degressiva. Il trattato ha inoltre mantenuto la regola secondo cui ciascuno Stato membro più grande potrebbe nominare ciascuno due commissari, ma da allora la regola è che ciascuno Stato può designare un solo rappresentante. Il Trattato di Nizza ha riaggiustato la ponderazione dei voti aumentando il divario tra grandi e piccoli Stati, e ha anche introdotto un nuovo metodo per calcolare ciò che conta come maggioranza qualificata in Consiglio tenendo conto di una tripla soglia: il numero di voti (almeno 260, dopo che la Croazia ha aderito all’Unione); il numero di Stati membri (a maggioranza semplice, se la proposta proviene dalla Commissione europea, o a maggioranza di due terzi, in tutti gli altri casi); la popolazione dell’UE (almeno il 62%). Va infine ricordato che nella Banca europea per gli investimenti, e ora anche nel trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità (MES), i diritti di voto di ciascuno Stato sono proporzionali al proprio contributo economico al MES, in modo sostanzialmente identico al caso di contribuzioni con organizzazioni finanziarie internazionali. In realtà, le controversie sulla rappresentanza e sulle regole di voto sembravano più una questione di status e un vantaggio comparativo rispetto alla preoccupazione di non essere spinti verso la minoranza. In effetti, uno studio ha rilevato che solo raramente il Consiglio ha fatto ricorso a un voto, di solito procedendo per consenso, e la maggior parte dei voti è stata unanime, anche in aree politiche in cui la legge consente il voto a maggioranza qualificata. Ciò non equivale a dire, tuttavia, che il graduale passaggio dei Trattati istitutivi dall’unanimità al voto a maggioranza qualificata non ha avuto conseguenze: quando gli Stati non hanno potere di veto, essi avere un incentivo a lavorare verso una soluzione che possa raccogliere un consenso generale. Questa pratica cerca quindi di moderare l’efficienza del voto di non unanimità con correzioni volte a proteggere l’uguaglianza. Il voto non è quindi la regola, ma piuttosto un momento di crisi, una rottura del meccanismo di consenso (progettato per proteggere gli Stati più piccoli dall’essere spinti verso la minoranza). Il trattato di Lisbona prevedeva la riforma di questo sistema a partire dal 1 novembre 2014. Di conseguenza, il voto a maggioranza qualificata (che divenne parte della procedura legislativa regolare, quindi la procedura più diffusa) si è da allora basato sul cosiddetto voto a doppia maggioranza, e per la prima volta il sistema di ponderazione è stato abbandonato. La maggioranza qualificata richiede ora il 55% degli Stati membri che votano a favore (almeno 15 Stati), rappresentanti almeno il 65% della popolazione europea (la soglia del 55% sale al 72% quando si deliberi su una proposta non proveniente della Commissione europea). Come misura di protezione degli Stati più piccoli, una minoranza di blocco deve comprendere almeno quattro Stati; in caso contrario, si riterrà che l’atto sia stato adottato. Inoltre, fino al 31 marzo 2017, ogni membro del Consiglio può chiedere che qualsiasi deliberazione a maggioranza qualificata in seno al Consiglio segua il sistema di voto ponderato previsto dal trattato di Nizza. Inoltre, con il trattato di Lisbona le norme sulle maggioranze sono state applicate per la prima volta anche al Consiglio europeo, anche se solo in una gamma limitata di casi in cui il trattato richiede al Consiglio di prendere decisioni vincolanti senza specificare regole di voto diverse. L’introduzione della procedura di voto ordinaria ha ridotto il numero di basi giuridiche che richiedono l’unanimità e comportano quindi un potere di veto. Tuttavia, l’unanimità è ancora la regola in settori politici cruciali dell’integrazione dell’UE, come la politica fiscale nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (PESC). La maggioranza del Consiglio europeo dovrà in ogni caso raggiungere un livello più alto soglia quando si deliberano proposte non originate dalla Commissione europea. In ogni caso, la prassi decisionale all’interno del Consiglio sarà fortemente basata sul consenso e sulla consociata, e il voto in corso continua ad essere un’eccezione alla pratica di costruzione del consenso. Le garanzie a favore delle minoranze saranno rafforzate mantenendo norme simili al cosiddetto compromesso di Ioannina, nonché in virtù di vari “emergency brakes” che consentono a qualsiasi Stato membro di chiedere al Consiglio o al Consiglio europeo di riesaminare una decisione presa a maggioranza qualificata tenendo conto, per quanto possibile, delle preoccupazioni espresse dagli stati in minoranza. L’esperienza, d’altra parte, mostra che la maggior parte dei fronti delle alleanze e delle coalizioni opposte non si forma tra Stati grandi e piccoli o tra vecchi e nuovi Stati membri, ma piuttosto tra interessi economici o strategici che possono variare da un settore politico all’altro. Come è stato osservato, il ‘peso nominale’ di uno Stato membro all’interno dell’UE può differire da un ampio margine dal suo ‘peso reale’, poiché quest’ultimo dipende da una serie di fattori indipendenti dalle dimensioni dello Stato in questione, come l’accesso alle informazioni, la capacità di elaborare e giustificare una posizione su un dato problema, potere negoziale, capacità di costruire alleanze e credibilità goduta con le istituzioni europee. Il peso nominale può in ogni caso influire sul potere di formare coalizioni per formare le maggioranze o bloccare le minoranze necessarie per determinare l’esito di una votazione. La procedura di voto e le prove di rappresentanza parlano quindi di conciliare le regole dell’eguaglianza formale con considerazioni di uguaglianza sostanziale, tenendo conto del peso portato dagli Stati più grandi mentre cercano di proteggere gli Stati più piccoli dall’essere bloccati in condizioni di minoranza. Ciò che può essere concluso, per quanto riguarda questi due test, è che i sistemi di voto e di rappresentanza sono nel complesso destinati a raggiungere un equilibrio tra l’uguaglianza tra gli Stati e l’uguaglianza dei popoli. Infine, la nomina dei giudici alla Corte di giustizia e al Tribunale si basa ora sulla regola di, rispettivamente, uno o due seggi per Stato membro, mentre un’eccezione alla regola a favore di Stati più grandi viene fatta solo nella nomina di avvocati generali.
In conclusione, passando da un’organizzazione internazionale a una nuova forma sovranazionale, l’UE è stata plasmata da principi propri. Pertanto, il modo di garantire l’uguaglianza tra gli Stati membri a livello istituzionale diverge dai modelli classici del diritto internazionale.
Nicolò Passalacqua
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