1. Prologo.
“E’ un peccato che la cavalleria brasiliana non sia stata efficiente quanto quella americana nello sterminare i suoi indiani”.
Furono queste le parole che inaugurarono la presidenza di Jair Bolsonaro in Brasile. Parole amare e dure, con un chiaro riscontro in quanto a odio mirato verso una specifica fetta di popolazione, ovvero i circa 900.000 indigeni dell’Amazzonia divisi in svariate tribù (più di 300) e clan diversificati dalle loro identità basate su differenti tradizioni, religioni e strutture sociali. Dunque, uno dei primi obiettivi del presidente brasiliano, ex militare e capo dei paracadutisti, uomo di estrema destra e nazionalista manifesto, estremamente attento all’ego imperturbabile prodotto dagli interessi economici che lo ammantano di gloria di fronte al proprio entourage politico che lo sostiene, fu quello di contrastare e distruggere – in ogni modo possibile – i diritti dei primi abitanti nativi del suolo brasiliano. Essi, come lo prevede la stessa Costituzione, sono tenuti a godere di specifici diritti sul suolo amazzonico, dunque, rovesciare lo status quo di cui godono rappresenterebbe un ineluttabile e catastrofico danno alla loro esistenza come comunità senza nessun contatto con l’esterno. Come protettore della condizione degli indigeni vi è il FUNAI, ovvero la Fondazione Nazionale dell’Indio, che rappresenterebbe l’ente per eccellenza che si fa carico della difesa non soltanto dei loro diritti ma anche dell’incolumità della loro cultura, fatta di tradizioni, usi e costumi mantenuti tali dall’assenza di contatti con l’esterno. Far questo comporta il possesso, in quanto Fondazione specializzata in un’attività, di un determinato budget da utilizzare al fine di ogni protezione. Quest’ultima è messa a rischio in primis dall’incontrastata e violenta attività dei taglialegna e dei minatori illegali che agiscono nel suolo amazzonico, stroncando letteralmente alberi per ricavarne legno pregiato da smaltire nel caotico mercato mondiale della “mafia del legno”, ma ancora più letteralmente stroncando le vite degli individui che abitano quell’ambiente. In un contesto come questo, una mente acuta e ben attenta ai propri inderogabili interessi, come quella di Jair Bolsonaro, non poteva che pensare, come prima azione per delegittimare gli indios per giungere a nuove forme di smantellamento degli stessi, di decurtare i finanziamenti previsti dal governo per il FUNAI.
2. I prolegomeni per un genocidio sotto mentite spoglie: tra Nazionalismo e odio etnico.
Jair Bolsonaro rappresenta una figura ambigua, poiché anche se ritrova un ampio consenso da parte della sua popolazione, rispecchia nel suo operato alcuni aspetti controversi. Molte delle promesse che aveva fatto in campagna elettorale sembrano trovar attecchimento e modo di essere messe in atto. La frase, con cui abbiamo inaugurato questa sede testuale, è una delle tante che sono state pronunciate dal presidente riferendosi agli indios dell’Amazzonia. Per Bolsonaro è una questione di fatto che gli indigeni rappresentano un ostacolo e il problema che essi rappresentano va reciso alla base. Come precedentemente facevamo presente, l’azione di decurtare i finanziamenti al FUNAI è uno dei modi per delegittimare le comunità indigene. Ma al di là di questo, nell’effettività e nell’immediato oggettivo, un reale pericolo per l’incolumità dei singoli indios è messa in risalto dagli araldi del commercio della “mafia del legno”, i taglialegna illegali, i quali – in virtù di un agire per un piano superiore – non trovano un grande argine nel loro operato. Argine, per l’appunto, che dovrebbe piombare dall’alto in quanto nell’ultimo decennio le morti all’interno del contesto amazzonico sono state moltissime e in moltissimi casi si trattava di indigeni o di attivisti in loro difesa. Non è il massimo della raffinatezza intellettuale il sentire, pubblicamente tra l’altro, pronunciare certe parole o definizioni a discapito della dignità d’esistere di certe comunità sociali. Bolsonaro fu colui che, parlando degli indigeni, li definì puzzolenti, senza denaro e senza cultura, denunziando a suo discapito – tra l’altro – il fatto che è proprio in quei contesti tradizionali ed etnologici che il termine “cultura”[1] nasce come definizione antropologica dei sistemi sociali e dando, per l’appunto, l’idea di restare ancorato ad una visione romantica del concetto di “cultura” che produce l’ecumenico dualismo tra subalterni e dominanti che, per grave errore dell’uomo, ancora attraversa la realtà. Dualismo che non può che sfociare nella costruzione di un linguaggio e di una coscienza collettiva che si muova sotto le mentite spoglie di un razzismo retrogrado. Sono questi alcuni aspetti del linguaggio utilizzato dalla politica del presidente finalizzata ad un vero e proprio sterminio degli indios. Il Nazionalismo di Bolsonaro sovrasta la via umana dell’acculturazione, anche se essa sarebbe una forzatura culturale dato che si tratta di comunità incontaminate, e promuove la via disumana della de-culturazione, sotto forma di distruzione totale dei diritti costituzionali degli indigeni. C’è un aspetto da sottolineare, ovvero che nell’immaginario collettivo, quando si parla di “genocidio”, si sfocia in ciò che è la via dell’unicismo[2] di tale fenomeno, poiché quando se ne parla istantaneamente si pensa alla Shoah come paradigma universale del fatto e in quanto essa rivesta una posizione ideale nella formazione intellettuale di ogni individuo occidentale. Assodato il fatto che il termine “genocidio” venne coniato da un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin, nel 1943[3], bisogna consapevolizzare le coscienze con il fatto che esso dia nome ad un fenomeno succedutosi in vari contesti storicizzati nel tempo e che abbia prodotto il medesimo sfacelo in termini di umanità in qualsiasi altro contesto. Dunque, dar luogo ad una visione unicista sul problema del genocidio, risulta minimizzante per ciò che si manifesta parallelamente nelle realtà del mondo. Sin dal Medioevo, in cui Carlo Magno nel 772 cominciava a sterminare i Sassoni, deportandoli e uccidendoli, per un Dio acquisito successivamente alla sua corona di Re dei Franchi, si parla di “genocidio” anche se non lo si chiama in tal modo. Esso è un fenomeno che abbraccia l’esistenza umana, in quanto è la spada con cui il razzismo divide le coscienze e le culture diverse, mettendole l’una contro l’altra. Ciò che Bolsonaro sta attuando rappresenta una dimensione preliminare di ciò che potrebbe diventare un vero e proprio genocidio. I suoi interessi e il suo, a tratti velato e a tratti manifesto, razzismo e odio nei confronti delle popolazioni indigene, definite inferiori, stanno lentamente costruendo la distruzione di massa di ciò che rappresentano queste popolazioni che vivono sul suolo amazzonico. Una distruzione che comincia, per l’appunto, con questo progetto numero 191, che prevede l’apertura della possibilità di realizzare attività economico – minerarie e la costruzione di centrali idroelettriche per ricavare energia elettrica, avvicinandosi sempre di più alla dissoluzione di un sistema sociale che nella sua dimensione di assenza di contatto con l’esterno rappresenta ancora una risorsa per il mondo. E’questo il mondo che vogliamo? Un mondo in cui anche l’Amazzonia diventi un suolo su cui far progredire le malsane logiche un homo economicus?
3. L’ideologia del primitivo di fronte all’imposizione di un modello.
Il modello che Bolsonaro vuole acquisire è chiaramente un modello occidentale basato su un capitalismo che generi un progresso in un’unica via, quella dell’accumulazione di ricchezza[4]. Una via che propone una totale industrializzazione dei propri territori al fine di ricavarne tutte le possibili risorse per una soddisfazione degli interessi economici che ruotano attorno al potere costituito di Bolsonaro e della sua giunta presidenziale. Una visione politica che certamente non vede spazio per una valorizzazione delle strutture tradizionali del proprio sistema o almeno in parte sembra essere questa la via percorsa[5]. Ricordiamo sempre che alcuni dei tratti somatici dell’intenzionalità politica ed economica della presidenza risiedono in logiche di privatizzazione, tagli al sistema pensionistico per alleggerire la spesa pubblica, riforme fiscali, tutti aspetti che nell’immaginario collettivo allontanano la presidenza di Bolsonaro da quella del suo predecessore Luiz Inàcio Lula da Silva. All’interno di questo profilo, gli indios, non soltanto rientrano in quella diversità che l’ideologia dell’attuale presidente non accetta e non condivide, ma essi rappresentano un vero e proprio ostacolo per ciò che in realtà rientra nelle intenzioni politiche ed economiche del governo. Il mantenimento della dimensione di assenza del contatto con l’esterno è di estrema importanza, poiché il superamento di questa dimensione – che comunque ha già fatto il suo corso in certi aspetti – porterebbe all’annientamento di questi contesti culturali e sociali che esistono propriamente in virtù della loro diversità da un modello culturale e normalizzato, che viene definito come occidentale e capitalistico, ma che in questo periodo storico dobbiamo immaginare come diffuso in tutto il mondo “a macchia di leopardo”. Dunque, il mantenimento di una dimensione incontaminata, rappresenta una risorsa per l’umanità. Mantenere questi contesti sociali, particolareggiati nei loro mondi tradizionali e profondamente cultuali, significa difendere la diversità nel mondo, la quale – sul modello occidentale di cui sopra – oggi sembra manifestarsi all’interno di uno sfondo di guerra che produce contrapposizioni unicamente su scala religiosa o politica. Uno degli aspetti più subdoli di questa politica contro l’indigeno si rispecchia nelle logiche utilizzate, dal presidente, per utilizzare la fetta di popolazione evangelista come nucleo da cui far diramare un proselitismo che, da un lato servirebbe ad evangelizzare ed integrare l’indigeno salvaguardando in un certo senso l’opinione pubblica, dall’altro servirebbe come forma di annullamento identitario e differenziale degli indigeni. Dunque Bolsonaro arriverebbe al suo obiettivo risparmiandosi l’impatto con la morale generale. La crescita della comunità evangelica ha raggiunto un gran livello, dal 1980 fino al 2019 è passata dal rivestire il 9% della popolazione al rivestirne il 31%. Crescita sostenuta ed avallata da un’intenzione di fondo, da parte della politica in atto, di riuscire a portare – intorno al 2032 – il Paese, per antonomasia cattolico, ad una prevalenza di pastori evangelici. De-cattolicizzare il Brasile in chiave anti-indigena, queste sono le mire della politica brasiliana. Ma la questione religiosa, quando si parla di primitivi e sistemi culturali etnologici, non è una questione così semplice da poter “risolvere” con logiche coercitive e di imposizione. Per lo più, le popolazioni indigene, praticano una religione di stampo animista, ovvero tendono a vedere un’anima in tutto ciò che costituisce la propria realtà, pervadendo anche l’inanimato di questo spirito. In questo aspetto si innesta una caratteristica, del loro sistema di categorie, ben più importante dell’omologazione con il fine di omogenizzare la società, ovvero, il loro particolare rapporto con l’ambiente e la natura[6] che funge da vera e propria protezione dello spazio amazzonico, in quanto è, da un lato, una risorsa essenzialmente vitale per il mantenimento della loro struttura sociale e da un altro una risorsa per tutta l’umanità. Non è questa la sede adeguata in cui ricostruire il significato della pratiche rituali degli indigeni del Sud America, anche se bisogna comprendere che la religione, come ci insegna Emile Durkheim riguardo alle manifestazioni festive, rappresenta una forma di “ipostasi” del sistema sociale e in quanto tale è rappresentativa di tutto l’essere di un contesto sociale, motivo per cui va rispettata nella diversità in cui si manifesta di fronte al proprio Ego identitario. Vandana Shiva, una grande filosofa e scienziata indiana, nel suo Monocolture della mente(1993), introducendo il testo diceva:
“La principale minaccia alla diversità deriva dall’abitudine a pensare in termini di monocolture, quelle che io chiamo <<monocolture della mente>>. Le monocolture della mente cancellano la percezione della diversità e insieme la diversità stessa. La scomparsa della diversità fa scomparire le alternative e crea la sindrome della <<mancanza di alternative>>.”[7]
Negli anni ’90, in queste parole, l’autrice racchiudeva il senso di tutte le lotte attiviste contro l’odio per la diversità, il razzismo e tutto l’apparato ideologico che gravitava intorno ad esso, riferendosi ad un campo di ricerca apparentemente lontano da tutto questo, cioè la biodiversità e le conseguenze dell’egemonia del sapere scientifico occidentale applicato al mondo dell’agricoltura. Parole in cui si possono ritrovare svariati autori, da Fanon a Todorov, da Sartre a Levi-Strauss. Ma l’aspetto che più deve richiamare l’attenzione collettiva risiede nel fatto che finchè il mondo sarà costituito a macchia d’olio, non soltanto per il capitalismo dislocato, vedendo al suo interno, tanti “criminali” con il potere di decidere sul destino degli individui, quanti gli araldi di ogni resistenza, allora sarà un mondo ancora colmo di speranza.
Maurilio Ginex Per approfondimenti: – Fernad Braudel, Una lezione di storia, Einaudi, Torino 1988. – Pierre Clastres, La società contro lo Stato, Ombre corte, Verona 2003. – Philippe Descola, Oltre natura e cultura, Seid Editore, Firenze 2014. – Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. – Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra, Meltemi, Milano 2019. – Serge Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino 2016. – Claude Levi-Strauss, Razza e storia, Einaudi, Torino 1967. – Claude Levi-Strauss, Tristi Tropici, il Saggiatore, Milano 2015. – Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, 2010. – Darcy Ribeiro, Il dilemma dell’America Latina, il Saggiatore, Milano 1976. -Vandana Shiva, Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995. -Tzvetan Todorov, La conquista dell’america, Einaudi, Torino 2014.[1] Vedi Primitive Culture, Edward Burnett Tylor, 1971, trad. it. Parziale in il concetto di cultura, a cura di Pietro Rossi, Einaudi, Torino 1970. L’antropologo britannico, nel suo testo più importante, rilascia una prima ed universale definizione del concetto di “cultura”. [2] Vedi lo studio sui genocidi dei popoli indigeni, del Nord America e Australasia, di Leonardo Pegoraro, “I dannati senza terra”, Meltemi, Milano, 2019, pp. 113-115. [3] Ivi, p. 116. [4] Vedi lo studio Il pianeta dei naufraghi, Serge Latouche, Bollati Boringhieri, Torino, 2016. [5] E’ molto interessante, a riguardo, ripensare ad alcune tesi che in passato venivano sviluppate da Celso Furtado, grande economista e pensatore brasiliano del Novecento, per capire a partire da quale struttura sociale si sviluppa il Brasile. Riporto un passo : “[…]L’industrializzazione, elemento fondamentale dello sviluppo brasiliano postbellico, non è stata tanto il risultato di una precisa scelta politica, quanto la conseguenza indiretta di misure adottate occasionalmente nell’intento di sostenere le strutture tradizionali[…]…[…] Il fatto che l’industrializzazione sia stata una specie di sottoprodotto delle difficoltà che attraversate dal <<tradizionale>> settore dell’importazione ha comportato un certo numero di conseguenze negative[…].”op. cit. in Una lezione di storia, di Fernand Braudel, Einaudi, Torino, 1988, pp. 102-103. [6] Sull’aspetto della religione e dei vari culti religiosi praticati presso le popolazioni indigene, non soltanto presenti sul suolo amazzonico, per i quali è determinante indicare gli studi di Pierre Clastres, bisogna prendere in considerazione una tradizione di studi che inizia con il Levi-Strauss di “Tristi tropici”(1955), per poi continuare con gli studi che arrivano alla cosiddetta “svolta ontologica” in antropologia, i cui capostipiti – per far qualche nome – sono Philippe Descola, Eduardo Viveiros de Castro o Tim Ingold. La svolta ontologica, oggi, sia al livello accademico che divulgativo, rappresenta una nuova forma di consapevolezza epistemologica che riporta ad un ritorno al nativo. In Inglese “ontological turn” in cui “turn” assume il significato di “girarsi verso” (… verso il nativo). [7] Vedi Monocolture della mente, Vandana Shiva, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 9.