Continua a protrarsi in Libano l’ondata di proteste che sta attraversando il Paese dal 17 Ottobre scorso. Centinaia di migliaia di manifestanti, appartenenti a diverse etnie e religioni, sono scesi per le strade paralizzando il Paese al grido di«Killun, yani killun» (Tutti, vuol dire tutti). Una protesta che trova le sue radici nella lotta alla corruzione e ad una classe politica fino ad ora incapace di gestire le emergenze del Paese. Ad aver dato la spinta definitiva è stata proprio l’introduzione di nuove tasse sul tabacco, sulla benzina e, ultima non per importanza, sulle chiamate effettuate tramite le App di messaggistica online, come la celebre WhatsApp.
I manifestanti rivendicano con forza le dimissioni di tutta la classe politica che è al governo dalla guerra civile, e una prima risposta il movimento l’ha ottenuta il 29 ottobre con le dimissioni di Saad Hariri, ex primo ministro libanese. Non ha fiaccato l’entusiasmo collettivo l’annuncio, da parte di Michel Aoun (presidente del Libano), di un imminente rimpasto del governo, per il quale non poche sono le difficoltà di attuazione date dalle note divisioni interne all’esecutivo. La crisi economica in atto rischia di minare alla base la governabilità di un Paese ricco di contraddizioni, che proprio in questi giorni stanno emergendo con grande eco, raccontate dalle migliaia di giovani, studenti, lavoratori e dalle moltissime donne che stanno animando lo sciopero, non disposti al momento ad accettare compromessi di alcun tipo. Al momento per l’entità della protesta scuole e attività commerciali sono chiuse da settimane; in gravi condizioni versano le banche che nonostante la riapertura impongono ai clienti limiti ai prelievi e ai trasferimenti.
Il Libano, terzo paese al mondo per peggior rapporto debito/PIL (con un debito pubblico al 150% del PIL) non gode di alti livelli produttivi, superati di gran lunga dai consumi interni. In aggiunta il Paese presenta un tasso di disoccupazione al 25%, con un sistema universitario per la maggior parte privato ad impostazione vicina al modello statunitense, e difficilmente accessibile, che non mette i neolaureati nelle condizioni di inserirsi facilmente in ambito lavorativo dopo l’acquisizione del titolo; una situazione che si riflette in gran parte nell’emigrazione di moltissimi giovani, impossibilitati a rimanere nelle proprie città. Quanto detto costituisce un danno estremamente forte per l’economia del Paese che, sprovvisto di materie prime e risorse naturali, vede nella forza lavoro e nel capitale umano il principale motore dell’economia. All’emigrazione di giovani si accompagna un massiccio flusso migratorio in entrata dalla Siria, dalla quale provengono circa 1,5 milioni di rifugiati attualmente in territorio libanese.
A rendere la situazione sempre più irrespirabile si aggiunge l’allargamento della forbice delle disuguaglianze che vede da un lato l’1% della popolazione che detiene il 25% della ricchezza nazionale, dall’altro gravi difficoltà economiche per almeno un quarto del restante totale, che, secondo le stime, vive con meno di 5 dollari al giorno. In un Paese con un sistema fiscale basato principalmente su tassazione indiretta (imposte sui beni di consumo) è sul secondo gruppo che ricade maggiormente il peso dei nuovi tentativi di riforma fiscale, per i quali oggi la protesta si è ridisegnata sulla scia di un rifiuto totale della classe politica, mostrando un tratto molto interessante: alla rigida tripartizione delle cariche istituzionali più importanti si è opposta una trasversalità del movimento che vede uniti sciiti, sunniti e cristiani, anteponendo alle differenze etniche e religiose le difficoltà economiche vissute e condivise da migliaia di persone. Al di là delle differenze la strada percorsa è attualmente una, che sta unendo migliaia di persone in un comune percorso di crescita collettiva che potrebbe portare ad un effettivo superamento delle attuali compagini politiche e ad una possibile ristrutturazione del sistema politico.
Fonti: Sole24Ore