Ormai è diventata una farsa. Una tragedia greca in salsa londinese, che ricorda molto il romanzo “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello: parlo ovviamente della Brexit, cioè dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
Già ha mietuto una vittima eccellente, l’ex primo ministro Theresa May; oggi rischia di trucidare il primo ministro in carica Boris Johnson.
Sabato 19 il Parlamento britannico, infatti, in riunione straordinaria ( l’ultimo precedente di una riunione di sabato risale alla crisi delle Isole Falkland), mettendo ko il primo ministro, anziché approvare l’accordo di uscita concluso da Johnson, ha deciso di chiedere all’Unione Europea di posticipare la Brexit dal 31 ottobre prossimo al 31 gennaio 2020.
Si tratta di un vero e proprio scacco matto per Johnson, che ha sempre dichiarato e continua a dichiarare di volere rispettare il termine del 31 ottobre, anche a costo di violare la legge.
Ma come si è arrivati a questo voto? A settembre, il Parlamento di Sua Maestà ha approvato una legge, il cd. Benn Act, che stabilisce che, ove entro il 19 ottobre il Parlamento non avesse approvato l’accordo di uscita dall’Unione Europea, Il Governo avrebbe dovuto chiedere ai vertici comunitari un rinvio. Ad inizio di seduta ed ancor prima dunque di votare l’accordo di uscita e le leggi attuative, il Parlamento ha approvato un emendamento presentato dal deputato Letwin in cui si obbliga il Governo a chiedere all’Unione Europea il rinvio della Brexit: a quel punto, votare l’accordo di uscita non aveva più alcun senso. Ed è qui che neanche Pirandello avrebbe potuto fare di meglio: Johnson invia al Presidente del Consiglio Europeo la lettera con la richiesta di rinvio, ottemperando così al voto del Parlamento, però non firmandola. E non contento, come in una farsa, invia una seconda lettera, firmata stavolta, in cui chiede all’Unione Europea di non accettare alcuna richiesta di rinvio, garantendo che il Parlamento britannico riuscirà a rispettare il termine del 31 ottobre.
Se spesso si parla di “ pasticcio all’italiana” per riferirsi alle politica istituzionale di casa nostra, stavolta gli inglesi ci hanno di gran lunga superato: inviare all’Unione Europea due lettere dal contenuto diametralmente opposto, e peraltro con una delle due non formalmente sottoscritta, è qualcosa di grottescamente fantastico. Goduria allo stato puro.
A questo punto gli scenari che si presentano davanti sono davvero molto stretti: la soluzione più accreditata, anche da fonti della Commissione, è che venga concessa una ulteriore proroga addirittura a febbraio 2020, il che significherebbe una sonora sconfitta politica per Johnson, che invece punta a fare uscire il Regno Unito entro la fine del mese, anche in situazione di “ no deal”. Se, invece, l’Unione Europea non dovesse concedere alcuna proroga, a quel punto o Johnson riuscirà a fare approvare dal Parlamento l’accordo di uscita da lui negoziato, e i numeri non sono a suo favore o il Regno Unito – ed il Governo sta già lavorando a questa opzione, che è sempre più concreta – uscirà dall’Unione Europea senza accordo, con tutte le conseguenze giuridiche e soprattutto economiche, commerciali e doganali connesse. Certamente il “no deal” farebbe risparmiare al Regno Unito quasi 40 miliardi di sterline, che è il prezzo che Londra deve pagare all’Unione per un divorzio ordinato e consensuale; dall’altro lato, però, già a partire dal 1 novembre, non essendoci stato alcun accordo e dunque nessun periodo di transizione, il Regno Unito diventerebbe immediatamente uno Stato terzo, il che significa dazi doganali, maggiori difficoltà di mobilità da e verso il Paese nonché un probabile tracollo dei mercati finanziari e della sterlina stessa. Cosa conviene di più a Londra? A mio avviso, conviene una uscita traumatica, senza accordo alcuno. E questo non soltanto per risparmiare 40 miliardi di sterline, ma soprattutto per svincolarsi immediatamente da tutti i fardelli regolamentari e burocratici di una entità sovranazionale ormai sempre più anacronistica e non in grado di incidere nella governance globale.
La Brexit rappresenta, a mio avviso, l’esempio migliore e nobile del sovranismo, molto diverso e distante dal sovranismo becero e volgare di Salvini e Meloni: quello della Brexit, infatti, è un sovranismo raffinato, di prospettiva, che punta a riportare Londra ad avere un ruolo centrale in Europa. Come Paese membro dell’Unione Europea, infatti, i suoi margini di manovra, soprattutto nella politica estera comune, sono stati molto ristretti e marginali, a tutto vantaggio del rinnovato asse franco-tedesco.
Diventare un Paese terzo, estraneo alle logiche e alle farraginose politiche europee, significa per Londra ritornare ad essere ciò che è stata fino alla fine del secondo conflitto mondiale: la più grande potenza europea, l’unica ad essere riuscita a resistere ed anzi a sconfiggere il nazismo.
Uscire dall’Unione Europea è fondamentale per gli inglesi e lo è ancora di più senza accordo alcuno, dimostrando così di essere una vera potenza, capace di non sottostare alle imposizioni di Bruxelles.