Bismarck, Roma, Yamato : il comune destino dei tre colossi



Il mare ha per millenni ispirato l’essere umano: i Fenici ne fecero un vanto, i Veneziani una tradizione. Lo ritroviamo, quasi sempre come protagonista di racconti, miti e leggende ma anche come modello per dipinti e quadri. Ma ricordiamo sempre che fu anche campo di battaglia e cimitero di molti.

Solo nell’ Ottocento si iniziarono ad avere le prime imbarcazioni corazzate e solo nel primo Novecento iniziò a svilupparsi il moderno concetto di “Battaglia navale”. Da quel momento in poi le navi iniziarono a divenire sempre più grandi : ponti più larghi, scafi più spessi, cannoni più potenti. Cominciarono a svilupparsi delle vere e proprie città galleggianti, capaci di ospitare più di tremila marinai e dotate di una potenza di fuoco formidabile. Delle vere e proprie macchine di morte ideate per dominare i mari e gli oceani.

Tre di questi mostri di metallo nel corso della Seconda Guerra Mondiale , accomunati da un comune destino e una comune fazione, segneranno la storia delle Battaglie per mare, infliggendo una dura lezione ad ogni ingegnere e progettista : “Nulla è indistruttibile”.

Si parla quindi dei tre fiori all’occhiello della marina dell’Asse : la “Bismarck“, per la Kriegsmarine tedesca; la “Roma“, per la Regia Marina Italiana e la “Yamato” per la Marina Imperiale Giapponese. Ognuna di queste imbarcazioni rappresentava, almeno sulla carta, il prodotto migliore che i cantieri navali dei rispettivi Paesi potessero offrire. Nella realtà dei fatti, tuttavia, ebbero poche occasioni di mettere in mostra il proprio arsenale. Il trio di navi, infatti, subì in generale la stessa sorte : una fine quasi comica considerate le aspettative che gravavano sull’equipaggio di questi colossi del mare.

La Bismarck, ad esempio, era la Nave Regina della Kriegsmarine e capostipite della classe omonima. Per i cittadini del Reich era motivo di vanto, utilizzata largamente in propaganda e allo stesso tempo rappresentava un vero e proprio incubo per la marina inglese. In molti la davano come inaffondabile. Imbattibile. E così pareva, quando con sole poche salve riuscì ad affondare una nave inglese e danneggiarne pesantemente una seconda, uscendo praticamente illesa dal conflitto. Fu però la stessa fama della Bismarck a segnarne la sorte , poiché dopo la battaglia la Marina Inglese dichiarò caccia aperta alla nave tedesca ed ogni imbarcazione battente Union Jackfu messa sulle sue tracce. La Bismarck tentò di darsi alla fuga, sfruttando anche la notte e le condizioni meteo poco limpide, venne però a più riprese avvistata da diversi radar e piccole imbarcazioni inglesi. Alcuni Swordfish (aerosiluranti considerati obsoleti, ma unici velivoli imbarcati presenti sulle Portaerei inglesi nell’Atlantico) vennero mandati a caccia. Fu proprio il piccolo e datato aerosilurante a segnare inevitabilmente il destino della Bismarck, la nave non era equipaggiata per fronteggiare velivoli così datati ed il volo a bassa quota era imprendibile per le contraeree, dato che ,su due tentativi, ne andarono a segno soltanto alcuni e addirittura molti altri senza risultati. Un siluro, tuttavia, riuscì a centrare il timone portando fondamentalmente l’imbarcazione alla deriva. Il fato della nave era ormai segnato. Senza più possibilità di governarsi questa divenne un bersaglio inerme per la Royal Navy, scomparendo dai radar la mattina del 27 Maggio e terminando la sua vita a 4800 metri di profondità nell’Oceano.

La Roma era invece il vanto della Regia Marina italiana, ultima nave e più grande nave dell’acclamata classe Littorio. Consegnata nel tardo ’42 non ebbe, a differenza della Bismarck, possibilità di mettersi in mostra : fu prima bersaglio di un potente bombardamento aereo statunitense che la invalidò pesantemente, mettendola per svariati mesi fuori dai giochi per poi, firmato l’armistizio e diretta con le altre navi italiane a Malta per prestare servizio nella flotta alleata, sparire definitivamente in fondo al Mediterraneo. In seguito all’armistizio era stato ordinato alla Luftwaffel’affondamento di ogni imbarcazione militare italiana disponibile nel raggio d’azione degli aerei tedeschi e la Roma, ancorata a La Spezia, rientrava in questo campo. Salpata in ritardo insieme al suo gruppo navale e senza scorta aerea, venne intercettata da una trentina di bombardieri tedeschi partiti da Marsiglia e pesantemente bersagliata oltre il tiro della propria antiaerea su quattro ondate. I velivoli tedeschi sganciarono una delle armi in quel momento più temute : le bombe teleguidate. Queste armi all’avanguardia potevano essere controllate a distanza e risultare quasi infallibili oltre che all’essere dotate di una portentosa capacità di penetrazione. Bastarono due colpi di queste formidabili armi a porre fine alla storia della Roma : un primo ordigno perforò la nave, aprendo una falla all’altezza dello scafo, senza che questa risultasse però fatale. Sarà il secondo colpo ad essere fatale. La bomba penetrò il deposito munizioni che esplose immediatamente. La nave si spezzò in due parti prima di affondare totalmente.

Ultima, ma non per importanza, la Yamato rappresentava l’apice dell’ingegneria navale giapponese ed era per tutto il popolo dell’impero motivo di grande vanto ed orgoglio.  Venne posta ufficialmente in servizio nel  Dicembre 1941 ma nel corso della sua carriera non partecipò mai attivamente ad alcun ingaggio. Nel ’43 venne stanziata a guardia delle isole Marshall, senza però essere mai impegnata. Riparazioni ed ammodernamenti la tennero poi ferma fino all’aprile del ’45 quando venne destinata a quella che, sia per successo o per fallimento, sarebbe stata la sua ultima missione. Con il compito di arenarsi sulla costa di Okinawa e fungere da vera e propria batteria d’artiglieria per contrastare lo sbarco statunitense sull’isola, la Yamato si preparava alla sua missione suicida. Uscendo in mare venne tuttavia avvistata da alcuni ricognitori americani, comportando un’inevitabile stato d’allerta nella marina dello Zio Sam. Con effetto quasi immediato ben quattrocento fra aerosiluranti, bombardieri e cacciabombardieri della USAF partirono da diverse portaerei ancorate a largo di Okinawa con l’ordine di affondare la Yamato. La strategia adottata era chiara e semplice : tutte le bombe e siluri sganciati dagli aeromobili dovevano colpire un solo lato della nave giapponese per facilitarne l’inclinazione e l’affondamento. Inoltre vi fu il manifestarsi di tredici raid che, tra siluri e bombe, colpirono la Yamato facendola capovolgere  ed affondare. Nonostante l’enorme e caratteristica forza antiaerea dell’imbarcazione giapponese, che fu più volte rivista e migliorata, furono soltanto dodici, su quattrocento, gli aerei statunitensi a cadere.

Com’è stato precedentemente introdotto, per le tre navi, vi fu un comune destino. Bastarono pochi ordigni a far sì che dei “mostri” degli oceani, considerati imbattibili, crollassero e affondassero portando con loro migliaia di uomini. Una sorte che probabilmente non si prevedeva per i rispettivi popoli e allo stesso tempo ingiusta di fronte a ciò che rappresentavano per lo sviluppo tecnologico e ingegneristico dell’epoca e per il ruolo simbolico che svolgevano nella società.

Daniele Morgante

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