Accordo Italia – Cina, superare il masochismo italiano percorrendo la New Silk Road
- Di Lorenzo Gagliano , 14/03/2019
La prossima settimana è atteso l’arrivo a Roma del Presidente Cinese Xi Jinping, in carica dal 2012 e ideatore della “Belt and Road Initiative” (BRI) o New Silk Road, un progetto di cooperazione economica cinese lanciato nel 2013 basato sullo sviluppo infrastrutturale che coinvolge più di 70 paesi in 3 continenti, metà della popolazione mondiale e un valore stimato di un trilione di dollari, volto ad accorciare le distanze commerciali tra Pechino e l’Europa tramite una via terrestre che attraversa l’Eurasia e la via marittima, che dal sud est asiatico arriva direttamente in Europa tramite il Canale di Suez e il Mediterraneo che rappresenta un vantaggio competitivo per l’Italia.
Un “brand” più che un progetto ben definito da un piano organico, ma non per questo senza solidi contenuti, anzi, le opportunità che la BRI porta con se’ sono straordinarie e potrebbero avviare le regioni del mondo coinvolte ad un nuovo livello sviluppo. Secondo i dati del Ministero del Commercio Cinese, solo nel 2018, la Repubblica Popolare ha investito 12 miliardi di dollari nei progetti legati al BRI, il 6,4% in più rispetto all’anno precedente. Inoltre, ha firmato progetti per un valore contrattuale di 80 miliardi di dollari (+48% rispetto al 2017). Lo scambio commerciale con i partner dell’iniziativa ha superato gli 860 miliardi di dollari.
Le aziende cinesi hanno investito 11 miliardi di dollari in progetti sotto l’egida della BRI e hanno avviato 82 aree di cooperazione economica e commerciale all’estero. Uno degli aspetti più eclatanti della BRI è che, a differenza di altre iniziative di integrazione e cooperazione regionale che si basano su trattati internazionali caratterizzati da regole ben definite, è regolato su base politica. Questo sembra essere secondo Pechino, in linea con il “nuovo pragmatismo” cinese, l’unico modo per mantenere l’intenzione di una cooperazione “multilivello” flessibile, incondizionata, aperta e inclusiva.
Il desiderio, largamente corrisposto, di coinvolgere non solo gli stati nazionali ma anche i blocchi regionali all’interno della BRI come l’Unione Europea, l’Unione Economica Eurasiatica (EAEU), l’Asia Pacific Economic Cooperation (APEC), e l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), così come il coinvolgimento di diverse piattaforme di Copperazione a vari livelli come il FOCAC in Africa, il Macau Forum per i paesi di lingua portoghese, il New Silk Road Forum, il G20, insieme al sostegno di oltre 30 istituzioni finanziarie nazionali, internazionali, bilaterali e multilaterali, molte delle quali sono state concepite direttamente collegate alle finalità della BRI, come il Silk Road Fund, l’AIIB (in cui moltissimi paesi Europei figurano come azionari o paesi fondatori), il Silk Road Gold Fund, che operano in modo complementare alle istituzioni tradizionali create dagli accordi di Bretton Woods, come ad esempio la Banca Mondiale, dimostrano che la Belt and Road Initiative è un progetto valido con un potenziale concreto e gode di ottima salute.
In Italia, il dibattito sulla BRI e sul Memorandum of Understanging- MoU – ( Memorandum di intesa – accordo non vincolante e sempre rinegoziabile) che il nostro Governo dovrebbe firmare il prossimo 22 Marzo infuria sui media nazionali, e si sono già creati gli schieramenti: i Pro-Intesa che vedono nella Nuova Via della Seta una opportunità di sviluppo per un’Italia che non è mai riuscita ad uscire dalla palude della stagnazione economica, e poi gli Anti-Intesa, che vedono nella Cina il nuovo Colonizzatore del XXI secolo. Non sono inoltre mancate le consuete ingerenze politiche da parte degli USA da un lato, che minacciano ritorsioni politiche sull’Italia in seno alla NATO, mettendo quindi in dubbio la fedeltà del nostro paese come alleato, e gli avvisi allarmati della Commissione Europea dall’altro, pronta ad isolare l’Italia più di quanto già non sia.
Per Washington l’adesione formale di Roma alla BRI, nel breve-medio periodo, significa perdere terreno nella guerra commerciale tutt’ora in corso contro Pechino; per Bruxelles, invece, significa ricevere l’ennesimo colpo che indebolisce la coesione dell’Unione e l’autorevolezza delle istituzioni europee. Tuttavia non possiamo non considerare che l’Italia, così come molti altri paesi Europei pesantemente colpiti dalla Crisi del 2008, innescata proprio negli USA, non abbiano beneficiato come previsto dall’austerità raccomandata dall’UE. Nuovi investimenti, soprattutto nelle infrastrutture, sono in realtà proprio quello che servirebbe ad una economica da rilanciare, d’altra parte è largamente riconosciuto che uno dei maggiori driver per lo sviluppo economico sono proprio le Infrastrutture.
Negoziare il coinvolgimento dell’Italia nell’Iniziativa cinese in seno ai meccanismi decisionali dell’UE sarebbe sicuramente l’opzione più auspicabile poiché questi assicurerebbero un maggiore peso contrattuale nelle negoziazioni e migliori garanzie sui rischi. Tuttavia, però, con i tempi estremamente estesi e i diversi interessi nazionali che collidono all’interno delle istituzioni europee, si rischia di perdere una occasione unica. Non è infatti un segreto che i paesi dell’UE siano in competizione tra loro per assicurarsi un ruolo nel mercato Cinese e degli altri “paesi BRI”.
Già l’Ungheria, la Grecia e il Portogallo hanno firmato un Memorandum d’Intesa con Pechino sulla BRI, e paesi come la Germania e la Francia, tradizionalmente con un peso politico notevole in Europa, grazie ad azioni diplomatiche bilaterali fuori dai meccanismi dell’UE, godono già di un rapporto privilegiato con la Cina che li ha portati negli anni ad essere i maggiori partner commerciali grazie alla negoziazione di misure d’accesso al mercato cinese molto più vantaggiose rispetto a quelle di cui possono godere altre nazioni dell’Unione. Malta sembra essere la prossima firmataria di un Mou sulla Belt and Road. Infine vi è il Regno Unito che in vista di una “hard Brexit” sempre più probabile dopo l’ennesima bocciatura dell’accordo da parte del Parlamento britannico, cerca di diversificare le proprie entrate stringendo con la Cina importanti accordi di cooperazione soprattutto a livello finanziario.
Pertanto, la questione sulla quale ci si dovrebbe interrogare non è tanto se sia conveniente o meno farne parte: starne fuori, infatti, significherebbe relegarsi ai margini della scena politico-economica mondiale dei prossimi decenni, in quanto l’Asia (e la Cina) rappresenta la regione del mondo con il più alto potenziale di sviluppo economico e commerciale. Piuttosto ci si dovrebbe chiedere se si è capaci di fronteggiare le sfide che derivano da una iniziativa di tali proporzioni.
Sarebbe ingenuo considerare inesistenti i rischi legati ad ingenti investimenti esteri nel nostro Paese (Corruzione negli appalti, spionaggio industriale/politico, aumento del debito pubblico, dumping, ecc.), ma una classe dirigente all’altezza della terza economia dell’euro-zona, paese fondatore dell’UE e membro del G7, si presuppone debba possedere quelle capacità necessarie a massimizzare i vantaggi, minimizzare gli svantaggi e arginare i rischi.
È forse proprio su questo punto che si trovano le incertezze degli Alleati a Bruxelles e oltre Atlantico? Quanto il nostro attuale Governo, che sta conducendo le fasi finali della negoziazione del Memorandum d’intesa, beneficia della stima e della fiducia dei partner internazionali? Quanto è effettivamente in grado di portare avanti il coinvolgimento dell’Italia nella Nuova Via della Seta quando non sembra esserci una visione strategica nel lungo periodo?
Tuttavia è importante ricordare che l’adesione dell’Italia alla BRI non è un progetto esclusivo dell’attuale governo, anzi, è il PD che, raccogliendo nel 2012 il testimone dal Governo Monti, ha intrapreso la strada verso il riavvicinamento a Pechino, e che sotto numerosi governi, tra cui soprattutto quello Gentiloni (due anni fa fu l’unico leader del G7 a presenziare al Forum ‘One Belt one Road’), si è dato l’impulso decisivo che ci ha portato a creare la speciale “Task Force China” che vede coinvolti il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero degli Affari Esteri; a firmare già un MoU di cooperazione con la Cina per la cooperazione in paesi terzi (Asia e Africa) e un accordo portuale tra Venezia e il Terminal portuale greco del Pireo, controllato dall’azienda cinese COSCO e ormai a pieno titolo parte integrante della BRI.
Proprio i Porti di Trieste, Venezia e Genova, potrebbero diventare, grazie alla BRI, le porte di accesso delle merci di mezzo mondo in Europa, rappresentando una credibile e conveniente alternativa (minore tempo di trasporto = maggiore risparmio) ai porti del Nord Europa quali Rotterdam, Amburgo e Anversa. I porti del Sud come Napoli, Gioia Tauro, Taranto e Catania, potrebbero anche essi avere un ruolo nella Nuova via della Seta marittima (21st Century Maritime Silk Road) trasformando il meridione di Italia in un enorme Hub Logistico al centro del mediterraneo.
Sorprende quindi non poco che adesso l’opposizione all’interno del Parlamento nazionale sembra aver preso posizioni apertamente critiche e allarmate sull’intesa prevista per la prossima settimana, che, ricordiamolo, sancirebbe il primo ingresso formale di un Paese del G7 nell’iniziativa di investimento e cooperazione più importante della storia contemporanea. Un vero e proprio evento storico.
La Belt and Road Initiative, al netto delle fobìe nazionali ed internazionali, è non solo una grande opportunità di rilancio economico, ma rappresenta anche una occasione per il nostro Paese di portare fino in fondo una iniziativa che almeno nella sua preparazione ha dimostrato di essere frutto di una visione di interesse strategico nazionale di ampio respiro, indipendente dai colori politici del governo di turno.
Secondo l’Autorità delle dogane Cinesi nel 2017 si è registrata una crescita record delle esportazioni dall’Italia alla Cina del 22,2% rispetto all’anno precedente, con un valore di 20,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento delle importazioni dalla Cina del 10%, a 29,2 miliardi di dollari (il deficit commerciale per il primo è sceso sotto i nove miliardi di dollari) . La tendenza si è confermata anche nel 2018. Il valore degli scambi commerciali tra i due Paesi ha fatto dell’Italia il quarto partner della Cina all’interno dell’Unione Europea e i margini di miglioramento di tali performance sono altissimi.
L’adesione alla Belt and Road Initiative dell’Italia, ed il dibattito che ha generato, potrebbe avere il merito di risvegliare la coscienza geopolitica di una intera nazione che si “riscopre” un Paese strategico e che troppo spesso si è rifiutata di esserlo. Il nostro Paese ha quindi l’opportunità di intraprendere, finalmente, la strada del perseguimento del proprio interesse strategico nazionale troppe volte messo in secondo piano proprio per seguire, in un cieco masochismo, gli interessi politici dei nostri partner internazionali: è successo in Libia, nel 2011, con un intervento armato che ha destabilizzato un paese strategico per il nostro approvvigionamento energetico, e continua a succedere con le ripetute sanzioni alla Russia, una volta florido partner commerciale.
Si rischia che accada ancora una volta adesso con la Cina. Possiamo davvero permettercelo?