Bohemian Rhapsody e l’universalità dei diritti umani


 


Bohemian Rhapsody, la celebre canzone cult di Freddie Mercury e dei Queen, ritornata prepotentemente alla ribalta con la recente uscita dell’omonimo film ( peraltro, proprio questa notte premiato con il prestigioso Golden Globe 2019 come miglior film drammatico), mi ha suscitato, ascoltandola e soprattutto leggendo piu volte il testo, una irrefrenabile curiosità sull’enigma del suo vero significato, perdendomi nella ricerca delle più disparate teorie interpretative circa il significato recondito di alcune frasi e parole utilizzate, partendo soprattutto dal titolo stesso della canzone.

Se “Rhapsody” indica in maniera chiara la contemporanea presenza in un brano di più parti musicali, non necessariamente tra loro collegate ( la canzone ne ha almeno sei), più problematico è stato capire il perchè di “Bohemian”: la tesi, tra le molteplici, che mi ha più convinto, e che peraltro mi ha illuminato per interpretare e decifrare alcuni passi del testo – sia inteso, frutto di una mia personale interpretazione, funzionale alle riflessioni filosofico-giuridiche che ne ho tratto, forse anche forzatamente – è che con questa canzone Mercury abbia voluto far trasparire il suo travaglio interiore, etico ed identitario, per accettarsi e farsi accettare omosessuale, in un periodo storico – siamo sul finire del 1975 – in cui le rivendicazioni libertarie degli omosessuali e delle lesbiche erano da poco cominciate, grazie ai Moti di Stonewall, capeggiati dalla battagliera transgender Sylvia Rivera ed in Italia grazie anche al contributo letterario e poetico di Pier Paolo Pasolini, che morirà proprio due giorni dopo l’uscita del brano.

Nonostante, dunque, già dal 1948 sia stata promulgata in ambito Onu la Dichiarazione universale dei diritti umani, tra cui ovviamente il diritto alla propria dignità e libertà sessuale, Mercury è costretto a ricorrere, nella canzone, a metafore enigmatiche per esprimere un concetto che avrebbe dovuto essere financo banale: la propria libertà sessuale!

Ecco allora che il richiamo alla Boemia, terra di ambientazione del Faust di Goethe, in cui si narra il patto tra l’alchimista e Mefistofele, come se essere gay fosse un qualcosa di diabolico; il travaglio religioso, con la citazione “bismillah”, che richiama al Corano ed alla condanna dell’omosessualità da parte della religione in generale; la struggente confessione criptica alla propria madre, con l’ambigua espressione “just killed a man”, come se il passaggio dalla eterosessualità alla omosessualità fosse un crimine, sono stati tutti spunti che mi hanno portato ad una riflessione non tanto sulla libertà sessuale, quanto piuttosto sul tema molto più ampio della essenza stessa dei diritti dell’uomo, sulla loro definizione e soprattutto sulla loro reale portata universalistica.

Avrei dovuto forse concentrare la mia riflessione esclusivamente sul tema della parità di genere e dell’orientamento sessuale, per come la loro tutela internazionale si è evoluta a partire dal divieto di discriminazione contenuto in molteplici carte internazionali tra cui la richiamata Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo: in fondo, il tema strisciante e velato di Bohemian Rhapsody, se si aderisce alla tesi interpretativa poco sopra illustrata, è quello della rivendicazione della propria identità sessuale. Tuttavia, ed il lettore mi perdonerà, ho ritenuto più aderente alla universalità di questa canzone svolgere una brevissima riflessione sullo speculare tema dell’universalità dei diritti umani, non limitandomi a considerare solo quello relativo all’orientamento sessuale e sul quale si dovrebbero spendere chilometri di inchiostro.

Ed allora, parlare di universalità dei diritti umani gioco forza vuol dire, facendo forse un inedito volo pindarico, partire da Norberto Bobbio e il suo celebre saggio L’età dei diritti ( Einaudi, Torino, 1992) in cui il filosofo, traendo spunto dal pensiero kantiano della capacità del genere umano ad essere “la causa del suo progresso verso il meglio” ( si veda il bellissimo saggio I. Kant, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, nell’edizione italiana di Solari e Vidari, UTET, Torino 1965) definisce per l’appunto “l’età dei diritti” come l’esito di una “rivoluzione copernicana” che consiste nel riconsiderare il rapporto tra governanti e governati non più dalla prospettiva dei primi ma da quella dei secondi, il che comporta la consapevolezza della priorità dell’individuo nella società.

Ci spiega ancora Bobbio che questo processo rivoluzionario si sostanzia essenzialmente in tre fasi ben determinate: parte con il giusnaturalismo razionalista settecentesco rappresentato soprattutto dal pensiero di John Locke, il quale ha avuto un ruolo importante nel processo di affermazione dei diritti umani: per Locke, infatti, gli uomini sono detentori di diritti che neanche lo Stato può loro sottrarre; si evolve con le rivoluzioni americana e francese, che rappresentano la fase di positivizzazione dei diritti in cui l’universalità del giusnaturalismo cede dinanzi alla contingenza politica, per cui è diritto ciò che all’uomo spetta non in quanto tale ma in quanto cittadino, in un determinato contesto storico e spaziale; infine, la terza ed ultima fase, ossia l’internazionalizzazione dei diritti umani, a partire proprio dalla Dichiarazione Onu del 1948: da questo momento, nasce per l’appunto “ l’età dei diritti”, per cui i diritti dell’uomo non sono soltanto positivi, ma sono anche universali, poiché appartengono a tutti gli esseri umani.

Appare di tutta evidenza, allora, che l’età dei diritti comporta anche una revisione del concetto di sovranità statale: mi perdonerà il buon Salvini ed il suo prosaico sovranismo, ma purtroppo per lui con l’internazionalizzazione dei diritti umani, a partire dalla Dichiarazione Onu del 1948 passando per i due Patti Onu del 1966 sino a giungere alla Convenzione Edu, la sovranità statuale subisce non soltanto un processo di limitazione interna come gia avvenuto con l’avvento dello Stato liberale ottocentesco, ma soprattutto subisce un processo di limitazione esterna ad opera per l’appunto di quell’insieme di norme internazionali relative alla tutela della persona umana che, corrispondenti ormai al diritto internazionale consuetudinario, hanno acquisito rango di norme di ius cogens assolutamente inderogabili.

L’età dei diritti, dungue, rappresenta il naturale compimento dell’Illuminismo, in cui l’individuo viene messo al centro della riflessione politica e per dirla con Bobbio, “ lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato “ ( N. Bobbio, op.cit, pag. 58): se con essa, dunque, si completa il processo di affermazione ed universalizzazione dei diritti stessi, resta da chiedersi, a questo punto, quale sia il loro fondamento filosofico.

L’averli consacrati in testi solenni sia a livello nazionale che soprattutto a livello internazionale, ha creato la certezza ( rectius: l’illusione) di un mondo fatto di pace, democrazia e pari dignità tra tutti gli individui: ma quale è il consenso universale che ne sta alla base? Il problema è stato risolto in modo molto semplice, ossia evitando ovvero tralasciando di andare alla ricerca di questo fondamento filosofico. Per una ragione ovvia: la ricerca di un consenso filosofico comune finisce con il creare solo scontri e radicalismi, per cui meglio contentarsi dell’universalità normativa dei diritti umani, faticosamente raggiunta e non domandarsi altro; per dirla con Aldo Schiavello, che cita Maritain “ i diritti umani sono espressione di una convergenza pratica delle piu diverse ideologie e delle piu svariate tradizioni spirituali. E non è possibile, e neppure opportuno, sperare in qualcosa di piu di questa convergenza pratica” ( vedi A. Schiavello, La fine dell’età dei diritti, inEtica e Politica, XV, 2013, I, pag. 127).

A questo sconforto per così dire filosofico, bisogna poi aggiungere una ulteriore amara riflessione, ossia che viviamo un periodo di crisi dei diritti umani: in primo luogo hanno un linguaggio troppo vago, generico ed indeterminato; in secondo luogo, a causa della proliferazione delle dichiarazioni internazionali e del processo di specificazione, sono diventati troppi, con possibili antinomie e contrasti di prevalenza dell’uno rispetto all’altro; infine, la loro tutela, per quanto brutale possa dirsi, ha dei costi.

Per porre rimedio a ciò, taluni hanno prospettato un minimalismo dei diritti: il più celebre sostenitore di questa tesi è certamente lo storico canadese Michael Ignatieff il quale, nella sua famosa opera Una ragionevole apologia dei diritti umani , sostiene di soprassedere sulla ricerca del fondamento filosofico dei diritti, che è assolutamente inutile ma soprattutto di evitare di considerare ogni pretesa dell’uomo come un diritto umano. In buona sostanza, secondo Ignatieff occorerebbe garantire all’uomo non ciò che è bene ma solo ciò che è giusto: ciò determinerebbe e favorirebbe una convivenza civile basata sul concetto della “libertà negativa”, per cui ciascun individuo può spingersi sino al punto in cui il proprio piano di vita non entri in contrasto con il piano di vita di un altro individuo. La tesi di Ignatieff tuttavia presuppone anche che, per tutelare questo nucleo minimale di diritti umani, gli Stati possano intervenire anche militarmente, secondo la ben nota quanto discutibile teoria della responsability to protect o “ ingerenza umanitaria”.

Personalmente, ritengo che il problema del fondamento filosofico dei diritti umani sia un falso quanto inutile problema: in primo luogo, perchè non esiste una filosofia comune a tutta l’umanità, che invece si caratterizza per la molteplice e variegata presenza di diverse culture ed ideologie; in secondo luogo, perchè anche quando dessimo sfogo all’illusoria pretesa di trovare un fondamento comune, non avremmo tuttavia risolto l’altro ben più importante problema: come ed in che misura vanno garantiti e tutelati universalmente i diritti dell’uomo, tra cui anche il diritto alla propria libertà sessuale.

Non bisogna infatti dimenticare che ancora oggi esistono molti Paesi in cui l’omosessualita è un reato molto grave, che può essere punito anche con la pena capitale, benchè le norme internazionali vietino i trattamenti inumani e degradanti e tutelino il diritto alla vita; esistono diversi Paesi in cui i diritti umani vengono costantemente violati, abusati, offesi.

Mi chiedo allora se esista ed in che misura una strada per rendere veramente universale e plurale la tutela dei diritti dell’uomo. Certamente, ridurre i diritti per una loro maggiore tutela non avrebbe alcun senso, atteso che, per quanto specifici e molteplici essi siano, tuttavia rappresentano pur sempre una mera declinazione di un unico fondamentale diritto: il diritto dell’uomo ad essere uomo. Ed allora, per garantirne l’universalità forse più che di diritti umani o, peggio ancora, di diritti naturali ( questi ultimi frutto del diritto positivo e non viceversa) bisognerebbe parlare di diritti morali, che attengono e privilegiano la spiritualità dell’individuo, il proprio io come parte del tutto universale, senza barriere, senza diversità. Un’utopia!

Mentre scrivo in sottofondo riascolto per l’ennesima volta Bohemian Rhapsody, ed allora mi ricordo che alla fine si tratta soltanto di una bellissima canzone, che forse non ha neanche alcun recondito mistero o enigma, che mi ha fatto viaggiare mentalmente, mi ha fatto emozionare e piangere, facendomi infine interrogare se Is this the real life? Is this just fantasy?

Un grazie, da profano della musica e dei Queen, a Massimo Parisi e Flavio Neri per i preziosi e pazienti suggerimenti.

Rosario Fiore, Università degli Studi di Palermo

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