Eva, secondo il racconto biblico della Genesi, è la progenitrice del genere umano, mentre nella tradizione ebraica rappresenta “la madre di tutti i viventi”. Dal 2014 è anche il nome conferito al Protocollo, fortemente voluto dalla Polizia di Stato quale canale prioritario per maltrattamenti e violenze. Il progetto, nato in via sperimentale presso l’Ufficio generale di prevenzione della questura di Milano e condiviso dal 2017 dalle altre questure italiane, ha come finalità quella di contrastare i maltrattamenti, limitare la violenza, estendere e rafforzare la tutela alle vittime (1).
La modifica del Codice Penale, avvenuta nel 2013 per gli artt. 58, 159, 160, 161, 416, 624, 625,628,629 (2), è stata un punto di partenza per la genesi del Protocollo in cui si definiscono anche gli strumenti giuridici forniti alle Forze dell’ordine in caso di intervento: l’arresto obbligatorio in flagranza per atti persecutori e l’allontanamento nel caso di lesioni o minacce.
Nell’ultimo caso si tratta di un provvedimento sottoposto a convalida dell’autorità giudiziaria che può valere per la dimora della vittima o anche per altri luoghi da questa frequentati; la tipologia di allontanamento varia al variare dei casi (3).
Eva, acronimo di “Esame delle violenze agite”, non è soltanto una banca dati che raccoglie i contatti delle vittime e/o ex vittime, ma è un’azione di vigilanza organizzata su tre livelli: il sistema penitenziario emette una segnalazione al momento della scarcerazione di detenuti per violenza di genere, la vittima viene avvertita e simultaneamente, in assenza di un provvedimento della magistratura, inizia il controllo sul territorio (4).
Fino a qualche anno fa il personale delle forze dell’ordine era impreparato a far fronte a casi del genere ma adesso, grazie ad un’adeguata preparazione che permette di interagire col dolore altrui, può intervenire in maniera più concreta. Al momento della chiamata l’operatore del 113 rassicura la vittima, fino all’arrivo della volante, dandole supporto psicologico. Ogni intervento viene registrato su una banca dati e un’apposita processing card. In questo quadro ogni evento è da vedersi come un episodio “satellite” che può essere segnalato dalla vittima o da chi si trova ad assistere e funge, al di là dell’entità, come precedente fondamentale in caso di una futura richiesta d’aiuto e quindi un ulteriore intervento (5).
Gli operatori annotano ciò che hanno visto e fatto, le testimonianze raccolte e le circostanze domestiche in cui vengono accolti e altri elementi utili per ricostruire una cronistoria dei singoli fatti.
I dati relativi al Protocollo Eva sono in continua evoluzione e, per fare un esempio, a riprova della sua efficacia sul territorio nazionale, nel 2017 la Questura di Milano ha realizzato 4300 interventi e in 92 casi si è ricorso all’arresto per maltrattamenti. Rispetto al passato sono cambiate molte cose, prima fra tutte la capacità da parte della vittima di violenze di denunciarle nonostante vi siano casi ancora taciuti; ed è mutata anche la capacità di saper gestire situazioni di pericolo. A giocare un ruolo fondamentale non è soltanto l’azione di intervento ma anche altre pratiche basate sulla prevenzione al fine di tentare di superare la mentalità della sopraffazione e della prevaricazione. Il modello d’azione dovrebbe implicare un cambiamento che riguardi le strutture sociali come la famiglia, i gruppi di appartenenza oltre che la struttura individuale-razionale ma anche di quelli che sono i “dispositivi sociali che regolano il comportamento e la sessualità” secondo una riflessione di Valenzi (6).
La violenza di genere non conosce distinzioni sociali essendo un fenomeno multidimensionale che si manifesta in varie declinazioni: da quella fisica, a quella psicologica, forse la più subdola perché senza volto, difficile da codificare e palese nella relazione asimmetrica uomo-donna. A ciò si lega anche il profilo economico costituito dalla mancanza di indipendenza che, in relazione alle donne, ha un grande peso e provoca la nascita del circolo vizioso del ricatto; la donna finisce per scambiare la “protezione” con la rinuncia alle proprie scelte di autonomia soffocando il benessere dell’individuo prima di tutto come essere umano e poi in quanto appartenente ad un genere (7).
Si verificano anche casi in cui le donne, nella fase postuma alla denuncia, si ritrovino sole e in preda ad un aggressore ancor più inferocito, come testimonia la storia di Grazia Biondi (8).
Il timore non deve essere motivo di ripensamenti, la vittima deve sentirsi in dovere di contattare le autorità in caso di ulteriori episodi di violenza e di rivolgersi ai centri presenti sul territorio e preposti a garantire assistenza e supporto alle vittime. Questi faranno da tramite a quella che potremmo definire una violenza sommersa in cui però gli attori sociali chiamati ad intervenire, dai medici agli operatori di settore, per citarne alcuni, devono ascoltare e mettere la loro sensibilità a disposizione dei malesseri individuali e familiari analizzando i vissuti e intercettando ciò che potrebbe accadere seguendo delle indicazioni metodologiche a supporto dei singoli casi. Fondamentale è il dialogo interistituzionale fra i vari attori sociali che fungano da rete sinergica di supporto alle vittime da un punto di vista sociale e culturale nonostante le difficoltà a cui il fenomeno ancora si trova a far fronte.
Maria Martina Bonaffini
(1) 27esimaora.corriere.it/18_luglio_01/protocollo-eva-canale-prioritario-le-donne-pericolo
(2) www.altalex.com/documents/news/2017/07/14/codice-penale-modifiche
(3) www.letteradonna.it/it/articoli/conversazioni/2018/07/10/protocollo-eva-polizia-violenza-donne
(5) 27esimaora.corriere.it/18_luglio_01/protocollo-eva-canale-prioritario-le-donne-pericolo
(6) C.Arcidiacono, I. Di Napoli, Sono caduta dalle scale i luoghi e gli attori della violenza di genere, Franco Angeli, 2012, p.17
(7) Ibidem, p.19
(8) www.letteradonna.it/it/articoli/conversazioni/2018/09/30/sentenza-grazia-biondi-modena