Finanza islamica: principi e divieti alla base di un modello economico alternativo



A partire dal periodo della Guerra Fredda, e in modo più preponderante negli ultimi decenni, si è assistito allo sviluppo di un modello economico islamico basato sui principi della Shari’ah e della tradizione profetica, fenomeno che ha assunto un certo rilievo soprattutto a causa del boom demografico dei paesi a maggioranza musulmana e con l’aumento esponenziale delle migrazioni globali. Per analizzare questo modello economico alternativo, bisogna cominciare dall’analisi del rapporto tra uomo e Allah e come questo si riverbera nel rapporto che ogni essere umano ha con le proprietà materiali. 

Mentre Allah viene considerato malik, ovvero creatore e possessore di tutto ciò che esiste di naturale e materiale nel mondo, l’uomo viene invece considerato wakil, ovvero vicereggente del creatore in Terra. Questo significa che Allah mette nelle mani degli uomini dei beni a disposizione per la sussistenza e la sopravvivenza quotidiana, ma si tratta di una proprietà transitoria e instabile, in quanto in qualunque momento Allah può revocare la sua benevolenza e misericordia e riprendersi i beni dati in concessione. Questo significa che ogni uomo non solo deve ringraziare ogni giorno Allah per la benevolenza e misericordia ottenuta, ma deve far circolare tale ricchezza nella propria comunità, seguendo i principi di fratellanza e di condivisione. 

Sulla base di ciò, vi è una piena consapevolezza nel mondo islamico che ricchezza e povertà non solo esistano, ma siano parte di un ordine naturale prestabilito: ciò non significa che si vogliano mascherare le differenze economiche e sociali esistenti, ma che esse rappresentino soltanto una sorta di prova divina nei confronti dei più benestanti, i quali hanno l’obbligo morale di supportare i meno abbienti e garantire loro la possibilità di riscattarsi. 

L’obiettivo finale è rappresentato quindi dalla creazione di una comunità fondata su un principio di giustizia ben definito, ovvero la condivisione e la redistribuzione dei beni sia in senso verticale che orizzontale all’interno della comunità: tale situazione, che può prendere il nome di circolo della giustizia, permette di creare legami forti all’interno della comunità e permette di garantire un maggior ordine sociale e un maggior senso di benessere. 

Il mezzo attraverso cui è possibile stabilire la giustizia nell’ambito economico è rappresentato dal denaro, la cui funzione però deve essere semplicemente quella di mezzo di scambio per garantire una distribuzione della ricchezza maggiormente equa e solidale. Per raggiungere tali obiettivi, all’interno del Corano e della Sunna è possibile rinvenire tutta una serie di divieti per facilitare la trasparenza e la correttezza delle operazioni economiche e per evitare l’aumento delle diseguaglianze che possono innescare odio e litigi all’interno della comunità. I tre divieti principali sono costituiti dal divieto di ribā (usura), ghàrar (alea) e maysir (speculazione). 

Per quanto riguarda il primo divieto, l’usura è stata da tempo proibita da tutte le grandi religioni del libro, ovvero cristianesimo, ebraismo e islam, ma tale concetto è stato declinato differentemente sulla base del contesto culturale di riferimento e delle successive evoluzioni. Mentre in ambito giudaico e cristiano si è distinto tra usura, vietata sempre, e interesse, considerato necessario per la crescita commerciale, nell’ambito islamico tale distinzione non è mai stata operata. Il termine ribā infatti significa crescita, espansione: ciò non significa che è vietata qualsiasi forma di aumento dei guadagni, i quali invece sono ben accetti e considerati un segno di benevolenza divina, ma semplicemente che tali guadagni devono derivare dal frutto del proprio lavoro e non dal denaro, il quale  rappresenta solo un mezzo di scambio che non può generare da sé un surplus. 

Per ricapitolare, si può dire che tale divieto è stato predisposto per tre ragioni in particolare: in primo luogo, perché l’utilizzo di interessi o di tassi usurari minano i sentimenti di cooperazione e fratellanza all’interno della comunità; in secondo luogo, perché interessi eccessivi applicati sul credito soffocano l’espansione delle attività commerciali; in terzo luogo, perché il denaro è solo un mezzo per facilitare i commerci e non ha un fine economico in sé. Nonostante negli ultimi decenni alcuni studiosi abbiano tentato di operare una distinzione tra usura e interesse, per cercare di aprire il modello economico islamico ad alcuni strumenti finanziari utilizzati nell’ambito occidentale, essi hanno soltanto rappresentato poche voci fuori dalla dottrina maggioritaria, la quale ha deciso di mantenere una visione rigida sul tema. 

Il secondo divieto è rappresentato dal ghàrar, che significa letteralmente inganno, azzardo. Tale divieto ricopre tutti quei casi in cui, in una compravendita commerciale, l’oggetto della transazione non sia ancora definito o le informazioni su di esso non siano state fornite in modo tempestivo e trasparente. Il divieto dunque sussiste per evitare che la parte contraente più forte sfrutti la propria condizione di parte dominante per generare abusi e per sfruttare l’occasione a proprio vantaggio. In particolar modo tale divieto è stato sfruttato per eliminare tutti quei contratti in cui vi era un elemento eccessivo di incertezza, come ad esempio la vendita futura di un bene ancora non esistente (particolarmente calzante è il caso della vendita futura di raccolti agricoli ancora da produrre).

L’ultimo divieto infine è quello di maysir, che vieta qualsiasi forma di scommessa o speculazione. Essa è condannata in quanto in primo luogo, come detto precedentemente, rischia di recidere i legami di fratellanza all’interno della società e, in secondo luogo, perché il profitto deriva da un azzardo e non da uno sforzo personale effettivo. Nell’ambito finanziario moderno, esso può essere applicato ai prodotti finanziari in cui vi è un grande elemento di speculazione, come i derivati finanziari che hanno provocato la crisi del sistema economico-finanziario occidentale e i cui effetti deleteri si ripercuotono ancora tutt’oggi. 

Enrico Cocina

FONTI:

E. FRANCESCA, Economia, religione e morale nell’islam, Roma, Carocci, 2013.

C. TRIPP, Islam and moral economy: the challenge of capitalism, Cambridge, Cambridge University Press, 2006.

R. HAMAUI E M. MAURI, Economia e finanza islamica, Bologna, Il Mulino, 2002.

A. SALVI E N. MIGLIETTA, Principi di finanza islamica, Bari, Cacucci Editore, 2013.

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