I Garanti delle cosiddette “zone di de-escalation” in Siria hanno fallito.
I Leader di Russia, Iran e Turchia, Putin, Rouhani ed Erdogan, riunitisi a Teheran, non sono cioè riusciti a trovare un’intesa, un compromesso capace di conciliare le rispettive posizioni in merito al futuro da riservare alla provincia di Idlib nel piu’ vasto contesto di quella “soluzione politica” della crisi siriana unanimamente da loro invocata anche al termine di questo ennesimo vertice. E a ben poco sono serviti i contatti bilaterali che hanno preceduto la riunione trilaterale.
Naturalmente non lo hanno ammesso. Anzi, il Ministro degli esteri Zarif ha voluto esprimere il suo compiacimento per l’incontro marcato dalla persistente volontà delle tre parti di continuare a lavorare per farla finita col terrorismo ed evitare ulteriori sofferenze alla popolazione della provincia di Idlib; dunque attraverso un processo politico negoziato giacchè, come recita una dichiarazione finale del Vertice che trasuda la piu’ vieta ipocrisia diplomatica, “..non vi può essere soluzione militare…” a tale crisi.
E come spesso accade in similari circostanze ha preferito puntare altrove, lanciare strali bellicosi al grande nemico d’oltre oceano, Donald Trump tacciato di essere responsabile della “…distruzione della credibilità degli Stati Uniti e dell’umiliazione dei suoi alleati..” con palese riferimento al ritiro degli USA dall’accordo sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action) del 2015.
Che ne sarà dunque dei tamburi di guerra preannuncianti da tempo la grande offensiva – con conseguente, prevedibile catastrofe umanitaria – per “bonificare” quella provincia dai terroristi che nella logica russa e iraniana riguarda sostanzialmente tutti i nuclei ribelli, anche quelli meno estremisti, e non solo Tahrir al-Sham, erede di Al Qaeda, residui dell’ISIS e altri nuclei minori,?
Lo vedremo nelle prossime ore-giorni, così come si vedrà se il regime di Damasco, formalmente assente da Teheran, così come erano assenti i rappresentanti americani e quelli di altri paesi occidentali, ricorrerà all’uso del gas che Trump ha indicato come una linea rossa da non varcare salvo incorrere in una dura punizione militare come già avvenuto ad opera di USA, Francia e Gran Bretagna nell’aprile scorso.
Resta il fatto che l’ammassamento militare compiuto finora a livello marittimo e terrestre e gli attacchi aerei condotti nei giorni scorsi sembrano preludere ad una operazione su larga scala, quella che uno dei tre protagonisti del terzetto riunitosi a Teheran, Erdogan, ha chiesto anche pubblicamente di evitare l’attacco su larga scala: per evitare un massacro, per impedire un altro esodo di rifugiati in territorio, che Ankara non potrebbe accogliere in aggiunta agli oltre 3,5 milioni che già ospita; per non mettere a repentaglio una parte importante della sua “strategia siriana” che per quanto riguarda la provincia di Idlib comporta la messa a repentaglio del Fronte di liberazione nazionale che è riuscita a costituire, raggruppando diversi nuclei di ribelli provenienti dall’intero paese per sfuggire al regime di Damasco, formando strutture amministrative e sociali locali.
Insomma, un investimento politico cospicuo che né Teheran né Mosca hanno comunque interesse a smantellare del tutto e propiziare in tal modo i punti di saldatura con l’Occidente, NATO in testa. Ma le proposte avanzate da Erdogan per salvaguardare tale investimento, invero poco praticabili, non hanno convinto i due partner che hanno fatto della lotta senza quartiere al terrorismo la loro bandiera. Hanno anzi indotto il leader turco ad associarvisi mentre si preparava una nuova incursione aerea russa puntata indiscriminatamente sia i gruppi ex-al qaida che quelli dell’esercito libero siriano protetti dalla Turchia.
Vi sono tuttavia elementi di fatto che lasciano sperare in un’offensiva che non sia a totale alzo-zero come si dice in gergo militare. E ciò non tanto per ragioni di sensibilità umana – Aleppo e Ghuta ne sono due esempi – ma per ragioni politiche. Penso che Putin voglia non solo dimostrare di essere in grado di controllare l’azione delle truppe di terra del regime, ampiamente sostenute dalle milizie di obbedienza iraniana, ma anche e soprattutto preparare il terreno a quel tanto decantato processo negoziale sul futuro della Siria e al correlato sforzo della ricostruzione del paese (subordinato da tutti i paesi in grado di contribuirvi al successo della soluzione politica) che non può non tener conto del suo antagonista strategico, cioè gli Stati Uniti, e del concorso degli altri paesi, dal Golfo all’Europa interessati.
Putin vuole uscire da questa crisi come il campione dell’anti-terrorismo, come il vero arbitro della partita siriana e interlocutore ineludibile nelle questioni medio-orientali.
Per riuscirvi dovrà far in qualche modo emergere un suo ruolo di contenimento dell’Iran, di controllo di Bashar al Assad anche in relazione al temibile ricorso all’arma chimica gas da parte di Damasco, di capacità di piegare il braccio a Erdogan e, su tale base, ricercare in sede ONU un’intesa con Washington che controlla, non dimentichiamolo, l’area ad est dell’Eufrate con i suoi alleati curdi e arabi, nonché con l’Occidente e i paesi del Golfo.
Si tratta di un insieme di passaggi tutt’altro che agevoli come dimostra lo stesso fallimento dell’incontro di Teheran del 7 settembre, ma ad esso ne seguiranno altri, così come proseguiranno i contatti con i principali interlocutori occidentali e arabi. E il filtro del loro esito sarà pesantemente influenzato dalle modalità e dalla portata dell’offensiva condotta nella provincia di Idlib e dalle reazioni che gli Stati uniti, l’Europa e i principali paesi arabi sapranno esercitare nella cornice e al di fuori delle Nazioni Unite.
Armando Sanguini, giá Ambasciatore della Repubblica Italiana:
–
Direttore generale relazioni culturali
Direttore generale Africa
Capo missione in Cile Tunisia e Arabia saudita