Eredità di Bisanzio e geopolitica contemporanea. Intervista a Gastone Breccia.
A cura di Federico La Mattina (twitter:@FedLaMattina)
Gastone Breccia è docente di Storia bizantina presso l’università di Pavia. E’ autore di numerose pubblicazioni nell’ambito degli studi bizantini (si segnala Lo Scudo di Cristo. Le guerre dell’impero romano d’Oriente, Laterza 2016, di recente pubblicazione). Si occupa anche di storia e teoria militare ed ha pubblicato numerosi libri in questo ambito. E’ inoltre autore di pubblicazioni sull’Afghanistan e, più recentemente, di un libro sul fronte curdo. La sua ultima pubblicazione è Scipione l’Africano. L’invincibile che rese grande Roma (Salerno Editrice 2017).
Professore Breccia, la millenaria storia dei “Romei” d’Oriente ha contribuito a plasmare profondamente gli equilibri politici e religiosi europei: si pensi alla competizione con i latini per la cristianizzazione dei Balcani. Nel suo libro di recente pubblicazione “Lo Scudo di Cristo” (Laterza 2016) ha messo in rilievo come addirittura l’affidamento del controllo dell’Illirico al giovane Teodosio (quindi in un contesto che potremmo definire ancora ‘poto-bizantino’) sia stata “una decisione giustificata dalle esigenze strategiche contingenti, nelle sue intenzioni temporanea e revocabile, destinata invece a segnare per sempre la storia geopolitica della penisola balcanica” (p. 8). Da studioso dell’Impero bizantino attento alle vicende geopolitiche contemporanee, ritiene che sia legittimo parlare di una ‘profonda eredità di Bisanzio’ in riferimento agli equilibri geopolitici del ventunesimo secolo?
L’esempio della divisione teodosiana dell’Illirico, nel 395, è senza dubbio calzante: ancora oggi i Balcani sono attraversati da una “linea di faglia” che è esattamente identica a quella tra le due partes dell’impero alla fine del IV secolo: una divisione politica diventata poi religiosa (tra crtistiani “ortodossi” di rito greco e obbedienza costantinopolitana e cristiani cattolici di rito latino e obbedienza romana), a cu si è sovrapposta poi la presenza musulmana dal XV secolo. Ma ancora più interessante, al giorno d’oggi, è l’eredità di Bisanzio come “ponte” tra Oriente e Occidente, e come comunità politica, sociale e religiosa multietnica e multilinguistica. Come tutti gli imperi, nella Nuova Roma era sconosciuto (o quasi) il principio di nazionalità: tutti potevano diventare sudditi dell’impero, godere dei privilegi e della protezione offerta dai basileis, a patto di seguire la dottrina cristiana nella forma definita nei canoni dei concili ecumenici e difesa dal braccio secolare. Da Costantinopoli, anche dopo il tramonto del sogno giustinianeo di restaurazione dell’impero romano tardoantico, si guardava a un orizzonte più vasto di quello della “nazione” ellenica: uno spazio mediterraneo condiviso, a cavallo di Oriente e Occidente, ponte e non separazione tra civiltà e culture. Oggi però chi regna sugli stretti – il neo-sultano Erdogan – lo fa guardando più all’eredità ottomana che a quella bizantina, ovvero più all’influenza che è possibile esercitare nell’area mediorientale e mesopotamica (ed eventualmente in quella del Caspio, da cui del resto provengono i turchi) che non verso il Mediterraneo e l’Occidente. In altre parole: i segni della tarda antichità romana e del lungo millennio bizantino sono ancora visibili, ma oggi è l’eredità ottomana ad avere un peso di gran lunga maggiore.
Stiamo assistendo ad una progressiva crisi nelle relazioni tra Occidente (a patto che sia legittimo parlarne in termini unitari) e Russia. Oggi Mosca sta tornando ad occupare un ruolo importante nello scenario internazionale, coprendo vuoti di potere lasciati dalla superpotenza americana, parzialmente declinante. Nonostante la dissoluzione tutto sommato pacifica dell’Urss, i motivi di contesa con l’Occidente non sono svaniti insieme al crollo del socialismo. Da bizantinista, ritiene che si possa parlare, con tutte le cautele del caso, di un’incomprensione di lungo periodo tra l’Occidente (nelle varie forme in cui si è presentato nel corso dei secoli) e le controparti orientali bizantina e poi russa (che si considerava erede della Seconda Roma)? Oppure si rischierebbe di commettere una forzatura sul piano storico?
Mosca, la Terza Roma, ha raccolto consapevolmente l’eredità di Bisanzio fin dal XV secolo; in epoche più recenti, questo ruolo di rivendicazione della sovranità sugli Stretti del Bosforo e di protezione dei cristiani ortodossi (soprattutto nei Balcani) si è manifestato nei ripetuti conflitti con l’impero ottomano, fino all’intervento a fianco della Serbia che ha contribuito a scatenare la Grande Guerra. L’Occidente, che già non si era mostrato per nulla “amico” di Costantinopoli fin dal Medioevo (basti pensare agli attacchi normanni alla fine dell’XI secolo, alle Crociate, al terribile saccheggio della capitale bizantina nel 1204), ha continuato a porsi in netto antagonismo con le aspirazioni russe di resuscitare una sovranità “neo-bizantina” in versione moscovita sul Bosforo. La guerra di Crimea è l’episodio più eclatante di questa contrapposizione, ma non certo il solo. Del tutto naturale, quindi, sia che lo “zar” Putin segua le orme dei suoi predecessori, tentando di consolidare le proprie posizioni nel Mediterraneo, sia che l’Occidente non veda di buon occhio questo tipo di iniziativa politica e militare. Ma forse l’Occidente non esiste più… Come giustamente hai sottolineato nella domanda, l’America oscilla tra una sorta di disimpegno isolazionista e la tracotanza tipica della grande potenza che si sente minacciata nel suo ruolo di leadership: nessuno di questi due atteggiamenti può rappresentare un’ispirazione valida per condurre un’azione politico-militare efficace nello scacchiere forse più complesso della scena mondiale.
Gli eredi dei conquistatori ottomani della Seconda Roma pare che abbiano trovato una convergenza con gli eredi della Terza Roma, dopo un’intensa ma tutto sommato breve crisi diplomatica. Russia e Turchia restano divise in diversi scenari geopolitici (non solo in Medio Oriente ma anche nei Balcani, Caucaso e perfino in Crimea per la questione dei tatari). Come giudica, con la lente dello storico oltre che dell’analista geopolitico, la convergenza (tattica?) russo-turca?
Convergenza tattica… Tattica senza dubbio è la parola giusta. A meno di un’improbabile atto di “vassallaggio” da parte di Erdogan nei confronti di Putin, è una convergenza che non potrà mai trasformarsi in una vera alleanza strategica di lungo respiro: perché le sfere d’influenza si sovrappongono, dalla Siria al Caucaso passando per il Bosforo, e non è possibile che Mosca o Ankara rinuncino alle loro aspirazioni. Ma oggi – e domani, e per qualche anno ancora – è verosimile che l’intesa possa durare, con reciproco vantaggio (i russi potenza dominante in Siria, Erdogan libero di reprimere i curdi e sviluppare i propri interessi in Asia Centrale): molto dipenderà però dagli altri attori regionali, in primis l’Iran, e poi Israele e l’Arabia Saudita.
Lei ha scritto diversi libri in cui ha trattato temi di estrema attualità geopolitica: dall’Afghanistan al fronte curdo, dopo avere viaggiato nei luoghi in questione, “immischiandosi nella storia mentre accade” (come ha scritto nell’introduzione al suo libro “Guerra all’Isis. Diario dal fronte curdo” (il Mulino 2016). Alla luce anche delle sue esperienze (e con l’occhio dello storico), come considera l’esperienza ‘autoptica’ sul campo?
Dal punto di vista umano, sono state esperienze preziosissime, impagabili. Ho conosciuto persone splendide: dai nostri militari impegnati in teatri operativi difficili, professionisti davvero d’eccezione, ai guerriglieri del PKK, che dedicano la loro vita (o meglio, la loro giovinezza) a un ideale in cui credono fermamente e a una lotta durissima contro nemici implacabili. Dal punto di vista per così dire scientifico, bisogna naturalmente essere più cauti: tanto per cominciare, perché sia in Afghanistan che in Iraq e in Siria ho potuto raccogliere informazioni e impressioni su un solo lato della collina, per così dire, senza poter entrare a contatto diretto né con i combattenti talebani che si opponevano alle forze ISAF né con i miliziani dell’ISIS. Ma da storico militare posso aggiungere una considerazione, che a mio avviso basta a giustificare la prospettiva “autoptica”. Nel 2015 avevo scritto un saggio sul primo anno della Grande Guerra italiana, parlando spesso dell’esperienza della trincea, e descrivendo come fosse possibile condurre una vita quasi normale a pochi metri dal parapetto dove sparavano i cecchini. Avevo raccolto testimonianze in merito, e avevo creduto alla possibilità della cosa, ma non avevo davvero “capito”. Poi, nel settembre del 2015, mi sono trovato esattamente nella stessa situazione, a prendere il tè e conversare con giovani combattenti del PKK mentre accanto a noi un cecchino teneva sotto tiro le linee nemiche, e di quando in quando un paio di mitragliatrici si scambiavano brevi raffiche. Posso dire, a mente fredda, di aver capito davvero quello che fino ad allora avevo semplicemente accettato e descritto; posso testimoniare quanto la mia consapevolezza di storico militare si sia fatta più profonda, almeno riguardo al comportamento degli uomini in zona di combattimento, e posso sperare che questo si rifletta nelle cose che scriverò di qui in avanti. Per questo la possibilità di “guardare coi propri occhi” serve senz’altro a chi scrive di storia.