Summit Unione Europea – Unione Africana: tra speranze condivise e resistenze
Il 29 ed il 30 novembre scorsi, si è tenuto ad Abidjan, in Costa D’Avorio, il quinto Summit internazionale tra l’Unione Europea e l’Unione Africana, definito, dagli stessi promotori ed organizzatori, come una piattaforma di dialogo tra le Nazioni europee ed africane con lo scopo di creare forti e durature relazioni di natura economica e politica. Il Summit, arrivato alla sua quinta edizione, si è aperto nel contesto di un clima geopolitico internazionale caratterizzato da diversi fattori, in grado di condizionare anche i futuri sviluppi delle relazioni euro-africane: come la disputa tra Stati Uniti e Russia in merito alle vicende nascoste del “russiagate”, la politica estera minacciosa medio-orientale di Trump nei confronti della Corea del Nord e dell’Iran, l’uscita dall’UE della Gran Bretagna con il relativo avvio di una politica di momentanea chiusura, e lo stallo politico della Germania ancora incapace di formare uno stabile Governo di coalizione tra la Merkel ed i Liberali. Si tratta di fattori determinanti, in apparenza solo di carattere relazionale americano ed europeo, ma in ogni caso in grado anche di modificare gli interventi diretti ed indiretti delle Nazioni sviluppate del “primo mondo” nei confronti di quelle africane, comunemente denominate “terzo mondo”.
Con i suoi 5000 partecipanti approssimativi, di cui 83 capi di Stato e di Governo di Paesi africani, 28 di quelli europei, e rappresentanti di delegazioni dell’Unione Europea, dell’Unione Africana e di organizzazioni internazionali governative e non-governative, come in passato, il Summit si è aperto con una prolusione politica generale riguardante i cambiamenti strutturali avvenuti negli ultimi anni in entrambi i continenti, e sugli interessi comuni da perseguire nei prossimi anni, come pace, sicurezza, sviluppo inclusivo e politiche giovanili. Il tutto analizzato partendo dalla considerazione che ancora attualmente UE ed UA rimangono partner primari economici uno dell’altro, in fatto di donazioni, investimenti diretti ed indiretti, e normale import-export commerciale.
Metà degli aiuti pubblici diretti in Africa, infatti, provengono dall’Europa, e nel 2016 i Paesi europei sono stati i primi interlocutori economici con un totale di affari complessivo di 227 miliardi di euro circa, davanti a Cina ed India. Anche se il tema programmatico di questo quinto Summit sarebbero dovute essere le politiche euro-africane giovanili, dato che nel Continente nero i giovani coprono complessivamente il 60% dell’intera popolazione, aspetto legato ad una diversa concezione culturale della vita con una forte propensione demografica, l’attenzione dei leader e dei vari rappresentanti si è focalizzata in primo luogo sulla questione dell’emigrazione africana verso l’Europa, di derivazione soprattutto libica, con tutti i problemi ad essa connessi, come la costante violazione dei diritti umani degli emigrati, la gestione criminale da parte di gruppi libici delle rotte migratorie mediterranee, il ruolo delle Ong nell’accoglienza dei migranti in acque libiche ed internazionali ed i compiti, non secondari, dei rispettivi Paesi europei nella risoluzione della problematica. Aspetto, quest’ultimo, tra le altre cose, ancora in fase di definitiva soluzione, anche in seguito al parziale superamento dell’Accordo di Berlino, che fino a poco tempo fa esponeva i Paesi mediterranei dell’UE, come Grecia, Malta ed Italia, in quanto primi Paesi di arrivo di migranti per questioni geografiche, al difficile compito di gestione a breve ed a lungo termine di migliaia di migranti.
Migrazioni:
Una questione, quella migratoria, che ha quasi monopolizzato il Summit anche in seguito ad un video trasmesso dal network televisivo CNN in cui denunciava la costante e vergognosa violazione dei diritti umani dei migranti, venduti come schiavi anche prima della partenza dalla Libia, oltre che costretti a pagare alte somme di denaro per tentare di fare la traversata, che rimpinguano e finanziano i gruppi criminali libici che gestiscono l’intera vicenda. Si tratta di una vicenda spinosa e problematica, cui ancora l’UE non riesce a trovare una stabile e proficua soluzione condivisa, anche a causa di debolezze interne cui prima si accennava, come la Brexit che chiude parzialmente la Gran Bretagna su questa questione, ormai divenuta di secondo piano; l’attuale instabilità politica della Germania, ancora orfana di uno stabile Governo di grande coalizione tra i democratico-cristiani della Merkel, dei liberali e dei verdi, affiancati dai deputati neo-eletti di destra per nulla interessati alle vicende migratorie in casa tedesca; e le future elezioni politiche italiane in cui la coalizione di centro-destra ha già annunciato di chiudere, o per lo meno gestire diversamente le frontiere.
Partendo da questa considerazione, i maggiori leader europei, P. Gentiloni, E. Macron, A. Merkel, M. Rajoy, congiuntamente con l’Alto rappresentante della politica estera della Commissione europea F. Mogherini ed il premier libico F. al Serraj, hanno sostenuto la necessità primaria di chiusura dei centri di detenzione presenti in Libia in cui vengono “depositati” i migranti in attesa della traversata, come detto in precedenza molto spesso luoghi di torture e di minacce continue nei confronti di uomini, donne e bambini inermi. Un aspetto propedeutico all’ampliamento del supporto e dell’azione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OMI) e dell’UNHCR, che ormai da qualche tempo hanno gli strumenti necessari per aiutare le persone a rientrare su base volontaria in patria africana, che raffigura un altro tassello importante dell’intera vicenda migratoria: storie di uomini che dopo avere visto le politiche di respingimento europee, la difficile vicenda delle cooperative di prima accoglienza in gran parte italiane e l’incapacità del mercato europeo di accogliere la loro vasta manodopera, preferiscono fare rientro in patria d’origine e tentare di cambiare le loro condizioni sociali anche tramite gli aiuti internazionali.
Su questo punto dei rientri volontari, in gran parte taciuta dai media, tra l’altro, poco prima del Summit è stata stilata e diffusa una nota sottoscritta dal Presidente della Commissione europea J. C. Juncker, dal Segretario dell’Onu A. Guterres, dal Presidente dell’UA M. Faki Mahamat e dalla stessa F. Mogherini in cui si annunciava una “task force” UE-Onu su questo singolare aspetto che riguarda migliaia di migranti africani. Infatti, al termine del Summit, F. Mogherini ha rilasciato una lunga intervista in cui ha evidenziato diversi ineluttabili punti fermi, dalla necessità di regolarizzare l’emigrazione, soprattutto nord-africana, di cui anche l’Europa ha bisogno anche per coprire una buona parte di manodopera, all’esigenza pratica e concreta di salvare persone in fuga da molti Paesi africani che sono ancora in piena crisi economico-politica.
Partendo da questi punti, la Mogherini ha affermato che
“l’Europa e l’Onu hanno fatto la loro parte, ora serve che anche i Governi africani facciano la loro. Nel 2017 abbiamo sostenuto il rimpatrio di 13 mila persone dalla Libia. Servono più soldi, ma soprattutto serve che i Governi africani accelerino le procedure. Con gli africani al nostro fianco possiamo salvare decine di migliaia di persone”.
Proprio per questo motivo, uno dei risultati concreti della politica migratoria dell’UE, ribadita anche all’interno del Summit, consiste nella formazione di centinaia di agenti della Guardia costiera libica, in grado di lavorare di anticipo rispetto ai colleghi italiani ed europei. Solo in questo modo, infatti, è possibile avviare una catena di responsabilità condivise che permetta di rompere questo diabolico meccanismo, non solo in Libia, ma anche in Tunisia, Siria e Niger.
Economia e commercio:
Il Summit dei giorni scorsi è il quinto di un lungo percorso storico iniziato nel 2000, in occasione del primo Summit tenutosi al Cairo, in Egitto, caratterizzato dal valore dell’importanza dei processi di democratizzazione e di riformismo che incombevano come una necessità razionale e di diritto in molti Paesi del Continente nero. Fu proprio in questa occasione che nasceva ufficialmente la nuova Unione Africana, con lo scopo di avviare un programma socio-economico denominato “New Partnership for Africa’s Development”. (NEPAD). Un programma che ha continuato ad evolvere, sempre in collaborazione con l’UE, nei Summit successivi: in Portogallo nel 2007, in Libia nel 2010 ed a Bruxelles nel 2014. Si tratta di incontri che nel corso del tempo hanno cercato di modificare la vecchia concezione della solidarietà e dell’assistenzialismo dei tradizionali Paesi ricchi verso quelli poveri africani, con la stimolazione di categorie economiche e politiche certamente più in linea con le esigenze dei tempi, come strategie di impegno reciproco tra i due Continenti, in cui lo sviluppo economico venisse opportunamente inquadrato in un solido contesto di modernizzazione democratica e liberale.
Sono questi, infatti, i punti principali di una “roadmap” che nel 2017 è arrivata ad una svolta determinante, per il futuro dell’Africa e dell’Europa stessa. Quest’anno, infatti, raffigura un momento di svolta per la cooperazione tra UE ed EA, che avviene principalmente attraverso alcuni negoziati fondamentali: l’accordo di Cotonou, la strategia comune Africa-UE e le strategie regionali particolari (Corno d’Africa, Golfo di Guinea e Sahel). Mentre l’accordo di Cotonou, del 2000, disciplina le relazioni generali tra l’Europa ed i Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), coadiuvato principalmente dalla strategia comune che quest’anno arriva alla sua prima destinazione, le strategie particolari con il Corno d’Africa, il Golfo di Guinea e Sahel, prevedono invece piani di intervento mirati finalizzati a lottare contro alcune pesanti realtà che rendono difficoltoso il normale processo di democratizzazione e di sviluppo economico in queste aree: come la tratta degli esseri umani, il traffico di stupefacenti, la pirateria in mare, furti continui e saccheggi di villaggi che legano le popolazioni locali a continui ricatti di bande armate.
I piani di intervento europei in queste aree destabilizzanti, riguardano principalmente lo sviluppo economico agricolo, la risoluzione di conflitti interni, la sicurezza politica e la lotta all’estremismo violento. In generale, allo stato attuale, il Fondo Europeo per lo Sviluppo (FES) per il periodo 2014-2020 ha già stanziato per gli aiuti africani una cifra pari a 30 miliardi di euro circa. (Si veda: www.consilium.europa.eu, Consiglio europeo, 5° Vertice dell’Unione Africana).
In pratica, le questioni legate allo sviluppo commerciale e democratico di gran parte dei Paesi africani raffigura ancora adesso uno dei temi centrali della “questione Africa”, con le sue contraddizioni politiche ed economiche ancora fortemente in bilico ed in fase di possibile risoluzione.
Tensioni e aree di crisi:
Attualmente, infatti, sono ancora molti i focolai di crisi e di instabilità politico-sociale che rendono l’Africa altamente “vacillante” ed incapace di imboccare un’unica strada verso la stabilità democratica e lo sviluppo economico. Tra le zone più calde, ad esempio, troviamo ancora il Burundi, in cui il regime del dittatore P. Nkurunziza governa il Paese tramite torture di civili, sparizioni di oppositori politici e avvisaglie di genocidio. Da qui, la geografia dell’instabilità democratica riguarda anche il Congo, l’Uganda, la Somalia, lo Zimbabwe e la Nigeria, alle prese non solo con gravi problemi economici causati in larga parte dalla gestione criminosa delle risorse naturali, come il petrolio, il cacao ed il caffè, ma anche con il costante terrorismo capeggiato da “Al-Shabaab”, responsabile, tra l’altro, di recenti attentati contro cristiani e musulmani in Kenya e Paesi limitrofi.
Senza un’azione condivisa, tra Europa ed Africa, infatti, diventa impossibile liberare il Continente nero dalla logica di una nuova concezione colonialistica, che a differenza della sua prima forma attuata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento con la dominazione politica da parte dei Paesi euro-occidentali, oggi si presenta sotto forma di sfruttamento delle molte risorse naturali e minerarie da parte di varie multinazionali con sede legale e di profitto in Europa o in America, di assistenzialismo di molti “aiuti legati” che vincolano l’Africa al potere ed al volere dei Paesi euro-occidentali che finanziano, e di costante corruzione che riguarda molti capi di Governo e di Stato africani, che antepongono i loro interessi personali di arricchimento affaristico tramite il petrolio ed altre risorse, a quelli generali dell’intera popolazione.
Tra le fila di questi elementi, infatti, si annida silenzioso l’assoggettamento politico e lo sfruttamento economico rispolverati in chiave moderna ma sempre ereditati dal colonialismo ottocentesco. In pratica, senza un aiuto concreto, anche da parte dell’UE, ma che riguardi in modo particolare la vigilanza sui processi di democratizzazione e di liberismo sociale, il vecchio colonialismo dalla logica imperialistica rischierebbe di trascinare molte Nazioni africane nel baratro del continuo sotto-sviluppo e come fonte di risorse naturali a sottocosto per le industrie dei Paesi ricchi euro-occidentali, in nome di una costante depauperamento.
In concreto, si tratta, senza mezzi termini, di stimolare in maniera efficiente le tante potenzialità espressive di cui dispone la varietà geografica e sociale dell’Africa intera, tramite i mezzi più razionali, quali potenziamento delle infrastrutture, dell’istruzione superiore e tecnica, e lotta ai retaggi dei pregiudizi culturali che ingabbiano ancora gli africani in un vicolo cieco senza crescita umana.
Non casualmente, partendo da uno storico documento, il “Investing in Africa’s Future”, redatto ormai da un decennio fa in cui si parlava della necessità di amalgamare le tante varietà economiche presenti nei vari Paesi africani sotto un unico modello di sviluppo capitalistico e concorrenziale con gli altri Stati euro-occidentali ed orientali, senza sottomissioni strutturali a livello internazionale, oggi, l’African Development Bank, autore dello stesso rapporto citato, parla piuttosto della necessità di investire nei nuovi mercati emergenti africani con politiche agricole e tecnologie innovative ed in vista di risultati non più euro-centrici. Sono elementi di cui proprio i giovani, in costante aumento demografico in controtendenza rispetto ai trend europei, sono tra i più diretti responsabili per portare l’Africa fuori dal pantano del sotto-sviluppo costante. (Si rinvia a: African Development Bank: www.afdb.org, sezione “Projects & Operations” e “Documents).
Ed è proprio questo, d’altronde, il secondo e preponderante punto analizzato dal Summit dei giorni scorsi, che tra l’altro si è svolto in concomitanza, nei giorni immediatamente precedenti, ad una visita diplomatica in diversi Paesi africani da parte del Presidente del Consiglio italiano P. Gentiloni. Dopo avere visitato la Tunisia ed incontrato il suo Presidente della Repubblica B. Caid Essebsi con il capo di Governo Y. Chahed e l’inviato speciale dell’Onu in Libia G. Salamé, in cui si è discusso di un nuovo piano d’azione riguardante la gestione migratoria libica e tunisina, la visita è proseguita in Angola ed in Ghana, in cui con i rispettivi Presidenti, J. Laurenco e N. A. Addo, la discussione programmatica ha riguardato principalmente la visione di nuovi criteri di sviluppo economico e di interscambio commerciale con l’Italia, con cui si segnala un aumento del 30% sull’export da parte africana, soprattutto in risorse petrolifere ed agricole. Su questi stessi punti, d’altronde, si è focalizzato il recente incontro internazionale organizzato a marzo scorso da The Wall Street Journal su “Investing in Africa: technology, transition & growth”.
In pratica, in attesa della realizzazione dei risultati sperati, uno dei punti nevralgici del Summit, al di là anche delle sue aspettative, è stato anche quello di riflettere su soluzioni condivise a livello globale, euro-occidental-africane, in grado di modificare gli effetti collaterali della globalizzazione che nel corso dei decenni ha portato molti Paesi emergenti a rimanere tali, senza mai arrivare ad uno sano sviluppo competitivo.
Su questa strada, ricorda il Summit, bisogna proseguire continuando a tenere sempre presente i valori più importanti che ci ha donato la storia per ristabilire gli equilibri dopo i disastri della seconda guerra mondiale. Primo fra tutti il principio di autodeterminazione dei popoli nato dalla Carta atlantica del 1941, ed a cui l’Onu si sarebbe ispirato per avviare una nuova fase di comportamento etico-politico. Una autodeterminazione a cui per lungo tempo, i popoli africani ne sono stati esclusi, non con la dominazione militare, ma con quella ancora più subdola dell’assoggettamento e del condizionamento politico e diplomatico.
Ed è proprio il superamento della logica del “terzomondismo”, in una rinnovata logica di un capitalismo globalizzato ispirato agli elementi del neo-liberismo, il perno principale di due tra i più importanti economisti africani che con le loro teorie stanno imponendosi all’attenzione della comunità internazionale: Dambisa Moyo e James Shikwati. La prima, nata in Zambia nel 1969, con una formazione presso le Università americane di Washington ed Harvard, denuncia il fallimento di molte politiche economiche internazionali legate agli aspetti assistenzialistici e beneficiari delle Nazioni ricche euro-occidentali, sostenendo, piuttosto, la validità di aiuti concreti da dare alla variegata Africa con la logica del controllo e della selezione relativa a progetti mirati, come mezzi principali di lotta contro la deviazione degli aiuti finanziari nelle tasche di organizzazioni criminali e di politici corrotti che preferiscono tenere la terra africana sotto l’egida del sottosviluppo costante.
Il tutto analizzato in diversi scritti, tra cui How the West Was Lost: Fifty years of Economic Folly, del 2010. Linea ideologica percorsa anche da J. Shikwati, originario del Kenya e creatore dell’”Inter Region Economic Network”, e che in molti suoi scritti pubblicati in autorevoli riviste sostiene: “Gli africani possono sfruttare il loro passato coloniale per ricreare un’Africa come loro la vogliono, invece di come la vogliono i Paesi dominatori”.
In pratica i paesi del Terzo mondo, comunemente quelli africani ed asiatici, che a partire dagli anni Cinquanta caratterizzati dalla divisione tra un Occidente capitalistico ed un Oriente comunistico, non avevano aderito a nessuna delle due ideologie politico-economiche dominanti a livello internazionale, attendono ancora in parte di riprendersi la propria autonomia ed indipendenza anche a livello di potenzialità economiche e di crescita condivisa proprio con il partner che un tempo fu il suo maggiore e più crudele nemico armato che fagocitava ogni diversità: l’Europa.
Salvatore Drago.