Tentare di descrivere l’attuale contesto geopolitico mediorientale è una pratica complessa che richiede un particolare sforzo analitico, nonché una buona memoria storica che permetta, altresì, di decostruire i molteplici processi di assoggettamento e delegittimazione che connotano gli scenari internazionali e regionali del moderno campo conflittuale.
Il Libano rappresenta, oggi, dopo Siria, Yemen e Qatar, l’ennesimo luogo in cui attuare politiche destabilizzanti e pratiche di regime change. Le determinanti della crisi politica ed economica libanese sono facilmente rintracciabili nelle guerre per procura e nelle politiche di conquista regionali messe in atto dai molteplici attori dell’arena che, sviluppando nuove ed anacronistiche riconfigurazioni territoriali e politiche di consenso anti/pro siriane, all’indomani dell’istituzionalizzazione del medesimo conflitto, praticano alleanze e strategie funzionali.
Se i luoghi del “campo politico” sono rappresentati da quell’utile pedina libanese, gli attori, per contro, sono i protagonisti di una nuova escalation a base confessionale che mira, in buona sostanza, alla conquista della leadership regionale. Arabia Saudita – con il piano innovatore e rivoluzionario di stampo politico, economico e sociale, denominato Visco 2030, dell’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, con una politica estera apodittica anti-iraniana – e Israele – palese stakeholder e alleato strategico, per una metalessica cooperazione dedita alla conquista del monte libanese, da una parte; Iran, con il consequenziale settarismo politico-confessionale sciita di Hezbollah e delle politiche filo-siriane, dall’altra. Nel mezzo, il Libano, repubblica parlamentare e semi-presidenziale, dal punto di vista costituzionale, poiché il Presidente della Repubblica condivide il potere esecutivo con il Primo Ministro.
Quali sono, dunque, gli eventi, fortemente correlati, che hanno determinato l’attuale assetto geostrategico degli attori in medioriente?
Recentemente i sauditi hanno attuato una politica di espulsione anti-corruzione nei confronti di 38 ex ministri condannati ed in seguito arrestati. Il premier libanese, Saad Hariri, annuncia le dimissioni direttamente da Riyadh, denunciando il ruolo ingerente dell’Iran nella politica nazionale libanese, ed accusandolo altresì di promuovere la destabilizzazione del Libano con gruppi armati, per rovesciare i governi legittimi della regione. Segue, il lancio di un missile balistico yementita/iraniano, secondo i Saud, in territorio saudita. Pochi giorni dopo, la riunione istituita al Cairo della Lega Araba, richiesta dai sauditi, emette una durissima risoluzione contro l’Iran ed Hezbollah, accusandoli di destabilizzare la regione. In seguito, Arabia saudita, Kuwait, Emirati Arabi e Bahrein chiedono ai loro cittadini, residenti in Libano, di lasciare il paese. Infine, giovedì scorso, il premier uscente Hariri sospende le proprie dimissioni.
Le accuse vicendevoli promosse dal premier nei confronti di Hezbollah ed Iran e l’interventismo saudita, da una parte, fanno da sfondo agli anatemi mossi dal partito di Dio contro Hariri. Le posizioni anti-iraniane e filo-occidentali del leader del partito sunnita, Movimento per il futuro, alleanza 14 marzo, sono note – e finanche la doppia cittadinanza del premier su base confessionale – ma lo è, altresì, la politica filo-siriana che connota l’opposizione sciita libanese del partito di Hezbollah, dichiaratamente pro- Assad.
Ma cosa si cela dietro alle politiche confessionali? Qual è il ruolo di Israele? Che effetti politici ed economici deriverebbero da una guerra imminente?
Le politiche confessionali
Il sistema politico libanese è di tipo multiconfessionale. Sono 18, infatti, le comunità riconosciute e riunite in tre gruppi monoteisti: cristiani, musulmani ed ebrei libanesi.
Le pratiche di confessionalismo politico risalgono al 1861 quando la Sublime Porta stabilì che un governatore cristiano“straniero” veniva affiancato da un consiglio di 12 rappresentanti dei principali gruppi del territorio. Vi era, sostanzialmente, un equilibrio tra le diverse minoranze cristiane e musulmane che, secondo il principio di garanzia delle comunità, devono essere rappresentate egualmente negli organi istituzionali, politici e militari.
L’equilibrio venne meno con l’aumento dei musulmani e la fine della guerra civile libanese (1975-90), che si concluse con gli accordi di Ta’if del 1989. La novità è introdotta, però, dall’attuale costituzione libanese che prevede l’abolizione del confessionalismo politico, ma, di fatto, riproduce il sistema confessionale all’interno dei vertici delle istituzioni statali. La costituzione prevede, infatti, che il Presidente della Repubblica sia di confessione Cristiano-maronita, il Premier di confessione sunnita, mentre il Presidente del Parlamento, di confessione sciita. Oggi, i poteri del capo dello Stato sono ridotti in favore del Primo Ministro sunnita e del Parlamento sciita. Inoltre, il sistema confessionale è protetto altresì dal sistema politico elettorale.
Come interpretare, dunque, la posizione degli attori politici?
Sebbene il settarismo rappresenti, dunque, la determinante del sistema politico libanese, ad incrementare l’uso politico del medesimo in chiave etnica e conflittuale, vi sono gli intenti geopolitici nella regione promossi da Arabia saudita e Israele in chiave anti-iraniana. Obiettivo comune dei due acerrimi nemici è quello di rompere la “mezzaluna sciita” e di arrestare l’influenza e l’espansione iraniana in Siria, Libano,Iraq.
Dietro la retorica confessionale vi è in gioco la conquista libanese come escamotage funzionale a muovere guerra contro Hezbollah. L’Arabia Saudita incrementa le pressioni contro il partito di Dio e lo fa aizzando il nemico che, per antonomasia, è Tel Aviv. Per contro, al di là di ogni mancata relazione diplomatica ufficiale tra i due, pare che già nel 2015 vi fossero degli incontri istituiti per attaccare Teheran. Non a caso, oggi, Hezbollah ha ben pensato di spostare le èlite nel Golan al confine con Israele. Per contro, a difendere il Libano: Francia, Italia e apparentemente Stati Uniti.
Il telegramma della concordia
La mancata intesa tra Sauditi e Israeliani, in chiave anti-iraniana, è presto smentita. Il 6 novembre scorso, il corrispondente diplomatico israeliano per Channel 10 News, Barak Ravid, scrive su twitter di aver pubblicato un telegramma, inviato dal Ministero degli Affari Esteri di Gerusalemme, a tutte le ambasciate israeliane; all’indomani delle dimissioni di Hariri. Secondo il giornalista, il telegramma, scritto in ebraico, esortava a sostenere la guerra dei sauditi contro gli Houthi in Yemen, sosteneva che l’Iran stava causando “sovversione regionale” ed infine, invitava i diplomatici israeliani a fare appello ai funzionari dei paesi ospitanti, per tentare di espellere Hezbollah dal governo e dalla politica libanese. Il 7 novembre, il tg israeliano dell’omonimo media, pubblica il telegramma e da questo si evince che, in buona sostanza, Arabia Saudita e Israele sono preoccupate perché la guerra in Siria ha rafforzato l’Iran ed Hezbollah. Nel telegramma, secondo Channel 10, gli ambasciatori israeliani vengono invitati a trasmettere un messaggio di sostegno ai sauditi alla luce della guerra in cui sono coinvolti nello Yemen, contro i ribelli sostenuti dall’Iran.
Le relazioni informali tra i due Paesi sono testimoniate altresì da un’intervista rilasciata recentemente dal Generale Gadi Eisenkot, alto esponente militare dello Stato ebraico, ad Elaph, quotidiano saudita di base a Londra, ripresa dai media dello Stato ebraico, nella quale ha dichiarato che: “ Israele è pronta a scambiarsi informazioni, comprese quelle d’intelligence, con i Paesi Arabi moderati per affrontare l’Iran”.
Effetti del conflitto
Gli interessi, dunque, che dominano le sorti delle politiche economiche libanesi e che costituiscono la determinante delle azioni attuate dagli attori regionali, sono molteplici.
L’Iran, grazie al Paese dei Cedri, riesce a raggiungere il bacino Mediterraneo via terra, senza dover sottostare al controllo marittimo dei governi ostili a Teheran. Dal medesimo luogo provengono, altresì, svariate decine di miliardi che sovvenzionano la mezzaluna sciita. Per contro, le petromonarchie, scelgono le banche libanesi per i loro depositi in valuta pregiata.
Quella che potrebbe essere una nuova guerra tra Israele ed Hezbollah (2006), ma anche in Yemen, tra Houthi e Sunniti (Iran e Siria vs Arabia Saudita e Israele), decreterebbe una crisi economica, oltre che politica, del Libano.
La recente approvazione del bilancio del 2017, da parte del parlamento di Beirut, verrebbe meno ed attiverebbe un incremento del debito pubblico del paese insieme con una nuova crisi politica eguagliabile a quella in cui cadde il Libano all’indomani dell’uccisone dell’allora Primo Ministro Rafiq Hariri.
Valeria Salanitro
Fonti:
httpsi://t.colabelLPC35GP