Dopo Gheddafi: il magma libico è tutto ciò che resta
Dal 2011 la Libia è sprofondata nella guerra civile. Seguendo l’effetto domino delle primavere che hanno attraversato il nord Africa e parte del Medio Oriente i giovani libici influenzati dai loro coetanei in Tunisia prima ed in Egitto poi, hanno deciso di opporsi al regime ultraquarantennale del colonnello Muʿammar Gheddafi.
Contrariamente a quanto avvenuto in Tunisia dove le proteste costituirono la naturale valvola di sfogo per una popolazione afflitta dalla piaga della disoccupazione, i moti rivoluzionari in Libia furono sospinti non dalla fame (la Libia poteva vantare il più alto indice di sviluppo umano del continente, il salario medio più elevato e l’esportazione petrolifera permetteva a Gheddafi un massiccio piano di sussidi statali per le famiglie) bensì da odi tribali atavici che vennero convogliati nella volontà di abbattere il potere della tribù dominante, quella dei Qadhadhfa, diventata la più influente subito dopo il colpo di stato che portò Gheddafi al potere nel 1969.
Nel giro di pochi giorni le proteste assunsero i contorni di una vera e propria guerra civile che si concluse (almeno ufficialmente) nell’Ottobre 2011 con la cattura di Gheddafi da parte dei ribelli e con la sua sommaria esecuzione senza regolare processo. Da quel momento la Libia, come era forse facile prevedere, non si è proiettata in una nuova e prospera dimensione ma si è trasformata in un paese diviso, nelle mani di piccoli gruppi armati organizzati su scala locale. Retta ufficialmente da un governo, con sede a Tobruk, che gode del sostegno e del riconoscimento della comunità internazionale, subisce l’antagonismo di un secondo governo non riconosciuto, ma tremendamente influente sul territorio, con sede a Tripoli.
Tale dualismo è sintomatico delle eterogenee correnti ravvisabili in un paese profondamente diviso su scala tribale, ed in questo rebus apparentemente indecifrabile i paesi dell’Unione Europea si sono trovati a dover far fronte non soltanto all’instabilità politica del vicino al di là del Mediterraneo, ma anche ad una delle conseguenze della guerra civile: il grande numero di rifugiati che vogliono lasciare la Libia e in generale le coste del nord Africa per trovare un nuovo inizio sul suolo europeo.
E’ necessario premettere che la Libia, anche sotto il governo di Gheddafi, rappresentava il serbatoio Africano per tutti coloro che volevano partire alla volta del vecchio continente e l’unica cosa che ne impediva (o regolava) il flusso era la presenza di un forte potere centrale con un reale controllo sul territorio. Il dramma dei rifugiati ha acceso il dibattito europeo degli ultimi anni facendo da sponda a tutti i partiti della destra populista che, cavalcando il fenomeno, sono riusciti ad ottenere largo consenso in gran parte dei propri paesi di appartenenza condannando l’unione ad un empasse politico che, come sempre, è stato pagato a caro prezzo da chi tenta la traversata a bordo di natanti non adatti a tenere il mare ed in condizioni igieniche disumane.
Al di là del dibattito sull’accoglienza e su quanto questa dovrebbe incidere negativamente sui sistemi di welfare dei paesi UE è bene sottolineare come tali flussi migratori siano un vero e proprio business per i gruppi armati nord africani che col traffico di esseri umani riescono ad acquistare armi e veicoli dal mercato nero per alimentare piccoli conflitti regionali, o come i governi centrali di vari paesi interessati dal fenomeno utilizzino la cosa come strumento di pressione internazionale: la Turchia, a più riprese e per ottenere un valido terreno di trattativa, ha spesso minacciato l’Unione Europea di non porre più alcun tipo di controllo sulle proprie frontiere, cosa che hanno fatto in tandem il governo di Tobruk e il suo rivale non riconosciuto di Tripoli nel tentativo di trasformare tali esodi in armi improprie di pressione internazionale.
Di certo una composizione del complesso mosaico tribale libico potrebbe condurre alla creazione di un unico attore statale con cui dialogare che abbia effettivo controllo sul territorio in modo da garantire,in primis, condizioni di traversata dignitose per chi vuole lasciare il nord Africa. Purtroppo però,come già detto, la Libia rappresenta un rebus apparentemente impossibile per l’Europa e per la situazione socio-politica in cui si trova oggi, non può essere considerata soggetto credibile con cui dialogare. I due Governi, a Tripoli e a Tobruk, non hanno un controllo territoriale stabile e, per questo, risultano incapaci di amministrare le funzioni statali in senso ampio.
L’esercito è diviso sia su base etnica sia su base regionale e Tobruk, scelta da molti in occidente come principale interlocutrice, non sembra essere abbastanza forte da imporre il proprio controllo sui confini. A questo si aggiunge la presenza di una miriade di piccoli gruppi che, nel corso del conflitto, hanno più volte cambiato campo d’azione e che, anche grazie all’ausilio di multinazionali estere che in Libia hanno necessità di proteggere i propri stabilimenti hanno, a fasi alterne,avuto buona disponibilità di armi e denaro, risultando determinanti nel controllo di ampie fette di territorio. In questo vuoto di potere, hanno potuto prendere campo e diffondersi le ramificazioni locali dello Stato Islamico che nel 2015, periodo di massima espansione del Daesh, sono arrivate a lambire ( affamate del petrolio necessario a sovvenzionarsi) le città di Derna e Sirte, importanti centri di estrazione petrolifera.
Appare chiaro come nell’immediato futuro bisognerà fare i conti con una serie di piccoli potentati fortemente radicati in territorio libico e come la vecchia tecnica di Gheddafi di aprire e chiudere i flussi dei migranti come arma di ricatto non sia scomparsa con lui ma sia ancora terribilmente attuale. In questo complesso gioco delle parti a farne le spese, come sempre, è la parte più debole: i profughi. Non a caso nei primi nove mesi del 2017, smentendo chi sosteneva che bloccando le partenze dall’Africa ci sarebbero stati meno morti, il numero delle vittime in rapporto a quello degli sbarchi è decisamente aumentato rispetto al 2016: secondo gli ultimi rilevamenti, si è saliti a un migrante morto ogni 48 arrivati fino al 20 settembre contro un morto ogni 67/68 nell’intero anno passato.