L’artista e il politico. Il primo, capace di tradurre in immagini il pensiero, la parola, il non detto e il secondo, che si fa carico dell’onere di trasformare il pensiero, la parola, il non detto in azione e cambiamento concreti. Se considerati in questi termini i due hanno qualcosa in comune: essi infatti hanno l’onere di rendere fruibile ciò che di per sé nasce intelligibile e di agevolarne la manifestazione alla collettività. Se tuttavia l’arte costituisce il mezzo ideale per trasformare in immagine anche ciò che, pur promesso, potrebbe essere irrealizzabile, lo stesso non può dirsi della politica, che ha fatto delle promesse non mantenute una delle sue più deludenti costanti. Eppure proprio la politica consta di quella componente “attiva”, cui l’arte non può ricorrere. L’arte infatti agisce per mezzo di metafore, richiami; la politica, invece, è l’oggetto tangibile di quella metafora, di quei richiami. Diverso risultato, ma stesso presupposto. Si potrebbe persino affermare che la politica alimenta l’arte: l’ideale politico, infatti, inteso come slancio emotivo e passionale, costituisce spesso fonte di ispirazione per la produzione artistica che, a sua volta, può esserne considerata manifestazione e rappresentazione.
Non sorprende dunque che molti nomi celebri abbiano dedicato la propria vita ad entrambe, anche simultaneamente, sposandone vantaggi e contraddizioni. D’altra parte la scelta di dedicarsi all’arte, come alla politica, è propria di quegli spiriti indomiti e risoluti, che desiderano “lasciare un segno” e divenire protagonisti del proprio tempo. L’epopea della consapevolezza politica dell’artista raggiunge il suo acme nel Novecento. Se da un lato il secolo appena trascorso fu caratterizzato da una forte frammentazione nella produzione artistica, fu proprio questo processo di frammentazione che spostò l’attenzione dal certo all’incerto, dal contesto al soggetto. La riflessione politica nell’arte diviene dunque riflessione sull’essere e la produzione diviene, a tutti gli effetti, un atto comunicativo.
Uno degli artisti che, nel corso del Novecento italiano, seppe coniugare con grande passione impegno politico ed attività pittorica, in chiave spiccatamente personale, fu Renato Guttuso.
Proprio Guttuso, in “Mestiere di Pittore”, scrive, a proposito di Pollock:
<< Pollock fu in gran parte vittima di “avanguardia forzata” incoraggiata e voluta dai gruppi dirigenti della borghesia. Vittima di una situazione della cultura e della violenta direzione ideologica che la democrazia borghese imprime alla cultura. Le attuali filosofie dell’occidente affidano all’ “essere” tutte le responsabilità, le sottraggono, in effetti, all’uomo. Respinto a cercare le origini dell’essere, ad ascoltare le sue voci, l’uomo perde il senso della realtà e della storia, il senso della sua interezza…Tutta l’azione artistica di Pollock, nelle sue varie fasi, nello stesso tempo partecipa e si ribella a questa situazione. A volte le ribellioni emergono, altre volte è l’accettazione a prevalere; infine egli tentò il passo che gli era necessario, e il contrasto del suo recidivo impulso realista con la vicenda trionfante dell’anti-cultura gli era sembrato incolmabile, pena “uscir fuori dal gioco”. “Esser dentro”, come nel gioco di società; ma egli, come de Stael, aveva oscuramente capito che era più giusto esser fuori.>>[1]
Da queste parole, dedicate all’artista a lui contemporaneo, scomparso prematuramente nel 1956, si evince la posizione, decisa e fortemente ideologizzata, di Guttuso. Come avrà a dire, a ragione, Maria Antonietta Spadaro nel volume dedicato all’artista siciliano, “per lui l’espressione artistica al di sopra dei valori politici, estetici e morali, è un’offesa all’intelligenza e alla capacità dell’uomo di agire nella società […]. Il vero credo è la libertà dell’artista, in qualunque modo si esprima”[2].
Egli identificò questa libertà di pensiero ed azione in una forma estrema di trasformismo, sia dal punto di vista artistico che politico. Questo Stesso trasformismo, che alcuni hanno definito persino opportunismo, trova riscontro nel fatto che Guttuso non fu sempre legato al Partito Comunista Italiano, anzi nel 1934 un giovane Renato Guttuso prese entusiasta la tessera del Partito Nazionale Fascista e scrisse, nell’articolo “Come vediamo l’arte fascista”, parole di grande ammirazione nei confronti della linea politica di Benito Mussolini. Dopo un’adesione entusiasta, tuttavia, divenne ben presto chiaro che il genio creativo, quell’ “essere” di cui tanto sentiva il peso, non poteva essere imbrigliato, men che meno dalle regole di un partito più di forma che di sostanza. Negli anni 40 divenne chiara la necessità di apportare un cambiamento politico importante: è proprio in questi anni che Guttuso collabora con altri amici illustri all’organizzazione del Partito Comunista, seguendone l’evoluzione dagli anni della clandestinità a quelli dell’ufficializzazione. La militanza nel Partito Comunista diviene, da questo momento della sua vita, una vera e propria costante, che inevitabilmente si intreccia con la sua carriera e produzione artistica e con l’accesa rivalità e contrapposizione che infiammò la seconda metà del secolo scorso, tra realisti e astrattisti.
La definitiva svolta realista di Guttuso avviene nei primi anni 50: tradisce il mito picassiano e cubista a favore della schiettezza della rappresentazione dell’elemento reale, che tuttavia egli rappresenta con l’irruenza caratteristica della sua personalità. Numerosissime sono le opere che potrebbero costituire un esempio di quanto ivi affermato; soprattutto i dipinti degli anni 50 mostrano la volontà di raccontare per immagini la realtà sociale del tempo. È proprio in questa fase che racconto artistico e politico si intrecciano indissolubilmente: nasce infatti il Fronte Nuovo delle Arti , un gruppo di artisti riconoscentisi in ideali e intenti comuni, pur nella valorizzazione del proprio spirito individuale.
Fu inevitabile però, dopo poco tempo, che le forti individualità del Fronte si scontrassero tra loro, proprio a causa della sempre crescente dicotomia artistica realismo/astrattismo, cui già si è accennato. D’altra parte durante l’Internazionale Comunista era già stato fatto riferimento a un “realismo socialista”, indicato come la corrente artistica favorita del partito, e molti, all’interno del Fronte, ritenevano che virare sull’astrattismo fosse l’unica via per affrancare se stessi e le proprie opere dal legame sempre più stretto venutosi a creare tra arte e politica, per evitare che la seconda avesse definitivamente la meglio sulla prima. Guttuso, pur definito dai più con sua grande delusione un “artista di partito”, rimase fedele all’ideale realista, mentre gli astrattisti finirono per allontanarsi dal Partito Comunista, con ancor maggiore fermezza in seguito alle dure parole a loro riservate dal segretario Palmiro Togliatti.
Proprio Togliatti, suo malgrado, rappresenta per noi l’elemento di congiunzione ideale tra le fasi della carriera pittorica di Guttuso: se infatti gli anni 40 e 50 furono gli anni del crudo realismo, gli anni 70 segnano la nascita di un’attitudine allegorica nei confronti dell’oggetto rappresentato. Pur muovendosi sempre all’interno del realismo, Guttuso sceglie di dare maggiore risalto a metafore e simbolismo. Uno dei primissimi esempi, che testimonia non solo il sapiente uso del lirismo e delle metafore come strumento di rappresentazione del reale, ma anche il legame, sempre presente, qui persino lampante, tra arte e politica nelle opere dell’artista, è la tela “I funerali di Togliatti”.
Realizzata nel 1972, essa rappresenta un fermo immagine dei funerali di Palmiro Togliatti, svoltisi a Roma il 25 Agosto 1964. Si trattò di un evento imponente: oltre un milione di persone giunsero nella capitale per rendere omaggio al carismatico leader del partito comunista; tra questi, anche Renato Guttuso, legato a Togliatti dal credo politico e da un rapporto di affetto e stima reciproca.
Otto anni dopo, e dopo un lungo lavoro e diversi rimaneggiamenti, egli decide di realizzare una vasta tela (quattro metri e quaranta per tre e quaranta) per commemorare l’evento. Il quadro, come tutte le opere del maestro, è estremamente complesso e maestoso: le bandiere rosse, le innumerevoli figure sullo sfondo e in primo piano, l’alternarsi di visi più o meno noti con, in basso a sinistra, il profilo di Togliatti, circondato da una corona di fiori che riprende i colori forti e scarlatti del cielo. Tra i 144 volti rappresentati si riconoscono Lenin, Gramsci, Berlinguer, Ingrao e diversi altri dirigenti del Pci. La Politica incontra l’Arte. La tela è il perfetto esempio di come spesso l’intento di un artista non sia quello di rappresentare un fatto, una persona, un oggetto, bensì quello di esprimere, attraverso ciascuno di questi elementi, un ideale, che trascende la storia intesa come mero susseguirsi delle azioni dell’uomo. L’uomo è mortale, ci dice Guttuso rappresentando un Togliatti quasi inghiottito dalla folla e a stento riconoscibile, l’ideale politico, che condivide con i suoi compagni, invece no. In tal senso si spiega anche la volontà dell’autore di collocare alcune figure sulla scena, pur non tenendo conto della loro assenza fisica durante la cerimonia.
Guttuso interpretò pertanto in maniera del tutto personale il rapporto tra Arte e Politica, riuscendo a bilanciare perfettamente la volontà di descrivere il mondo per come lo si vede e la necessità di caricare le immagini di un significato, politico, in cui l’osservatore potesse riconoscersi. Il tutto reinterpretato in piena fedeltà ai propri istinti.
“Felice Italia, che permette a un uomo ossessionato dal suo lavoro di comportarsi così, come ritiene giusto e necessario, e che comunque non nasconde quello che l’uomo è: un grande protagonista dell’arte”[3].
Alessia Girgenti
[1] R. Guttuso, “Mestiere di pittore. Scritti sull’arte e la scoietà”, 1972, De Donato Editore
[2] M. A. Spadaro, “Renato Guttuso”, 2010, Flaccovio Editore
[3] Hans-G. Sperlich, prefazione al catalogo della mostra del 1967 a Berlino Ovest