La liberazione di Mossul (al-Mawsil o Musil in arabo) nel nord dell’Iraq e la sconfitta dei dawa’ish da parte della coalizione costituita dall’esercito iracheno, al-Hashd al-sha’bi (o milizie popolari armate) e dai peshmerga curdi a nord-est della città, rappresentano la fine di un incubo per le popolazioni della provincia di Ninive, durato circa tre anni. E’ una vittoria importante dell’esercito iracheno e del Governo di Baghdad. Certo il sostegno logistico aereo degli Stati Uniti ha accelerato la liberazione di Mossul, ma senza dubbio è una vittoria del popolo iracheno nella sua interezza e dello Stato dell’Iraq. Questo paese, grazie anche all’appoggio dell’Iran, all’intesa con la Russia, all’alleanza militare e politica con il governo di Damasco, si presenta oggi come paese arabo forte e autorevole nell’arena vicino-orientale, dopo i lunghi anni dell’occupazione americana, della divisione e della debolezza politico-militare. Oggi, all’indomani della liberazione (al-tahrìr) e al-tathìr, altro termine usato per indicare la purificazione dalla presenza di da’esh, di Umm al-Rabi’ayn, come è ricordata Mossul nella storiografia classica musulmana, tutti i paesi della regione e le potenze internazionali devono fare i conti con la rinascita della Repubblica irachena, che tra l’altro resta, cosa che non va dimenticata, paese tra i maggiori produttori di petrolio. Ripeto, la liberazione di Mossul è stata possibile grazie alla volontà (al-irada) dello Stato e del popolo dell’Iraq; é questo che alla fine conterà di più nella ricomposizione degli assetti regionali, in continua scomposizione dal 2011 ad oggi (vedi Iraq e Siria, Yemen e Libia). Non a caso nella lettera inviata da Ahmad Gibrìl, segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, al premier iracheno, Haydar al-‘Ibadi, di congratulazioni per la vittoria dell’esercito iracheno e delle milizie popolari, Gibrìl sottolinea l’importanza della sconfitta di da’esh a Mossul. Tale sconfitta rappresenta per il vecchio leader palestinese comunista la contestuale sconfitta del progetto ebraico-sionista di Israele, che dal 2011 ha lavorato per la divisione all’interno dei paesi del Mondo arabo con particolare riguardo all’Iraq, alla Siria e alla Libia. La vittoria dello Stato iracheno a Mossul sembrerebbe rafforzare in ambito arabo la posizione della Resistenza araba (Siria, Iraq e Yemen, Hizb Allah libanese, resistenza palestinese, movimenti politici progressisti) nella battaglia contro i governi arabi reazionari e alleati degli Stati Uniti e di Israele. Ma vedremo meglio nei mesi a venire e dopo la liberazione di al-Raqqa in Siria.
Infatti va ricordato che la vittoria militare a Mossul e quella che si profila in Siria, non rappresentano la fine del conflitto nel Vicino Oriente arabo e islamico nel Mondo arabo più in generale. Ciò che si è voluto creare nel 2011 attraverso la cosiddetta primavera araba, va oltre da’esh. Il caos creatore ha investito la stessa vita socio-culturale nel Mondo arabo soprattutto. La battaglia continuerà in Iraq e in Siria, come in Egitto, Libia e Tunisia, e sarà una battaglia più difficile e complessa. Accanto alla lotta contro il terrorismo jihadista, gli Stati e le società dell’area dovranno fare i conti seriamente con il fenomeno della diffusione del pensiero takfiri soprattutto nel mondo musulmano sunnita. Il termine arabo takfir è un nome verbale derivato dalla II forma che ha il significato di accusare qualcuno di miscredenza, quindi di essere kafir, irreligioso e/o empio. Oggi i movimenti considerati takfiriyyah o takfiri, secondo l’uso invalso in Italia e nelle lingue europee, sono diffusi nel mondo arabo-islamico a maggioranza sunnita e costituiscono un grave pericolo per l’intera comunità musulmana, nonché per l’Europa. I movimenti takfiri e la teorizzazione del kufr (miscredenza-irreligiosità, accusa rivolta a tutti coloro che non si conformerebbero alla interpretazione rigorista del credo islamico) hanno una origine lontana che si colloca nell’area arabo-sunnita agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso, quando venne fondato in Egitto nel 1971 il movimento “Takfir wa’l-hijrah”. I musulmani accusati di irreligiosità venivano ritenuti “ribelli” e “disobbedienti” alla Legge per eccellenza, secondo una lettura assai restrittiva di versetti coranici, estrapolati da ogni contesto e utilizzati come strumento di lotta politica. La battaglia contro la diffusione del pensiero takfiri sarà quindi lunga e dovrà interessare l’ambito ideologico giuridico religioso; l’educazione, l’istruzione e i programmi scolastici; le scuole religiose e la formazione degli uomini di religione e/o ‘ulama’ (uomini di scienza) e fuqaha’ (giurisperiti). Tutti costoro, soprattutto nel mondo musulmano sunnita negli ultimi decenni rispondono solo a se stessi o a muftì legati ad interessi politici di parte (vedi le numerose fatawà o responsi giuridici che incitano all’odio all’eliminazione fisica dei cosiddetti empi, ed alla guerra contro i kuffàr). E ciò avviene, fondando le loro visioni sulla ignoranza del dato teologico musulmano, della storia e della civilizzazione, con grande danno per l’Islam, quale sistema etico e giuridico, ed alla sua immagine. Oggi lo scontro tra paesi arabi del Golfo, in particolare Arabia saudiana contro Qatar, mette in rilievo un distorto problema, ossia la pericolosità del movimento della Fratellanza musulmana (al-Ikhwàn), sostenuto dalla famiglia regnante nel Qatar, oltre che dalla Turchia di Erdogan. E il pensiero e l’ideologia wahhabita, su cui si fonda il radicalismo dell’attuale sovrano saudiano e ancor di più del figlio, Muhammad Ibn Salman, pronto a succedergli? Si vorrebbe far dimenticare che da decenni Riyad finanzia lautamente la diffusione del pensiero wahhabita e del radicalismo musulmano in tutti i paesi arabi e islamici, e in Europa, attraverso la fondazione di Centri culturali islamici, come viene denunciato in questi giorni con particolare apprensione in Gran Bretagna.
La battaglia del dopo da’esh sarà quindi assai più difficile e lunga di quella militare. Ieri la tv libanese al-Mayadeen nel suo programma di approfondimento sulla liberazione di Mossul ha invitato lo shaykh ‘alim iracheno Khalid al-Mullà, leader sunnita dell’Unione degli ‘Ulama Iracheni. Lo shaykh al-Mullà già nel passato si è contraddistinto per il coraggio con cui esplicita le sue posizioni (recentemente ha condannato la scelta dell’Arabia saudiana di considerare Hizb Allah libanese come organizzazione terrorista), tanto da essere definito dai takfiriyya “al-shaytan al-akbar” (il diavolo più grande).
Buon conoscitore della realtà socio-comunitaria dell’Iraq, l’operato dello shaykh al-Mullà è stato quello di lavorare in questi anni difficili al fine di superare il sistema della ta’ifiyya (divisione della società musulmana in gruppi confessionali ed etniche), considerato il pericolo numero uno per l’Islam nella sua unitarietà e pluralità, e sistema su cui, sottolinea il ‘alim iracheno sunnita, si sono fondati da’esh e i movimenti takfiriyya nella regione. Tale è il sistema che tende a dividere sul piano ideologico e giuridico tra buoni e cattivi musulmani. E’ partendo da questa idea che lo shaykh al-Mullà ha condotto la sua analisi dei recenti fatti che interessano l’Iraq, la Siria e la regione più in generale. Due cose dette dallo shaykh mi hanno colpito in particolare. Sono significativi ai fini della migliore comprensione di quanto sopra considerato.
- la vittoria di da’esh e l’insediamento a Mossul del “califfo” sono stati favoriti, oltre che dalla situazione regionale ed internazionale, dall’appoggio diretto e indiretto di uomini di religione sunniti, ‘ulama’, fuqaha’ e ‘a’immah, (pl. di imam) che nelle province a maggioranza arabo-sunnite del centro nord dell’Iraq (al-‘Anbar e Salah al-Din) aizzavano le popolazioni contro ciò che definivano invadenza degli shi’iti e, dice lo shaykh al-Mullà, parlavano di da’esh come di una “rivoluzione mubaraka (benedetta)”.
- A ciò si aggiunga, sottolinea lo shaykh sunnita, la fondazione e l’attivismo di numerose scuole e centri per la formazione religiosa rigorista di giovani ulema sunniti che hanno caratterizzato gli ultimi anni della vita culturale nelle province suddette. La cosa più stravolgente mi è sembrata la forte denuncia dello shaykh al-Mullà: il centro iracheno che ha sponsorizzato la diffusione di tale formazione rigorista, sostanzialmente anti shi’ita, si trova a Arbil, città capoluogo del Curdistan iracheno. Il giornalista della tv al-Mayadeen è rimasto sorpreso e non poco a sentire tale grave notizia. Anche io sono stato molto colpito e ho cominciato a riflettere sul ruolo di alcune forze e famiglie interessate a dividere l’Iraq. Naturalmente l’affermazione dello leader dell’Unione degli ‘Ulama’ Iracheni va verificata, ma è molto credibile, soprattutto quando aggiunge: tutti coloro che in questi anni hanno direttamente o indirettamente lavorato per il caos in tutta la regione, vogliono che il sistema della ta’ifiyya permanga al fine di impedire il riscatto delle popolazioni nel Vicino Oriente arabo e islamico. La battaglia contro il sistema ta’fi, il vero pericolo, conclude lo shaykh al-Mullà, in Iraq e Siria sarà ancora lunga e la ricomposizione geografica unitaria, quella sociale e culturale ancora dolorosa per lunghi anni.
Antonino Pellitteri
Antonino Pellitteri
Ordinario di Storia dei Paesi Islamici
Università degli Studi di Palermo