Tra le conseguenze negative di quel che in Occidente si suol definire “rivoluzione” o “primavera” araba ne sottolineo due molto gravi sul piano dell’essere arabo e musulmano. Stamattina ne ho avuto ulteriore conferma.
E’ ormai fuori dubbio che l’attivismo dei movimenti jihadisti e takfiriyya alimenta l’islamofobia in Occidente, mette in discussione in molti ambienti il normale vivere e sentire l’islam in terra araba e musulmana, e serve agli stessi gruppi takfiriyya. Le guerre, le violenze, il terrore che tali gruppi provocano non colpiscono soltanto l’Altro diverso all’interno del sistema islam (cristiani, shi’iti, yazidi, musulmani sunniti considerati rei di kufr o empietà, tanto per fare qualche esempio), ma lo stesso Islam nella sua sostanza, quale sistema fondato su unità e pluralità allo stesso tempo. Si tenta di distruggere cioè quel sistema che ha accompagnato lo sviluppo storico e socio-culturale dell’Islam dal suo avvento al sec. XIX, prima che i nazionalismi di importazione europea venissero a minare le basi del sistema stesso.
L’esportazione di tali modelli europei e la decadenza generata per cause interne al mondo dell’islam (per es. l’indebolimento del vincolo comunitario e l’affermazione di nuovi individualismi) hanno rappresentato una miscela che ha provocato la fine di precedenti tessuti socio-culturali importanti, soprattutto all’indomani del I conflitto mondiale. La nascita del nazionalismo arabo ha cercato di superare la crisi attraverso i nuovi ideali dell’unità degli Arabi e della loro dignità di nazione (vedi affermazione dei partiti a vocazione nazionale come il Ba’th e il Nasserismo). Ma è chiaro che i conti si fanno con l’oste, e questi era rappresentato da un contesto regionale (Israele, nato nel 1948, e governi arabi del Golfo) ed internazionale (vecchie potenze coloniali europee e Stati Uniti) contrario ai su citati ideali.
La morte di Nasser in Egitto nel 1970 e la precedente sconfitta degli eserciti arabi nella guerra di Giugno 1967, spinsero a cercare altre soluzioni e ricomposizioni (l’Islam politico è la soluzione, si disse). Tale ricomposizione ebbe sponsor fuori dai paesi arabi: emblematica fu l’apertura di Anwar al-Sadat nel 1974 agli Stati Uniti ed all’Occidente, e al contempo ad Israele ed alle monarchie arabe del Golfo. Rovinosa sul piano sociale, tale apertura produsse in Egitto e in molti paesi arabi la diffusione di movimenti islamisti, tra cui la Fratellanza musulmana o ikhwàn, e i gruppi più radicali detti takfiriyya. Fu la Siria il primo paese dove si sperimentò la nuova soluzione attraverso il terrorismo dei primi anni ottanta del secolo scorso ad opera dei gruppi ikhwan e takfiri (sanguinosi attentati a Damasco e Aleppo contro il regime empio). Poi venne la volta dell’Afghanistan contro l’empio sovietico, quindi l’Algeria dell’empio FLN, e poi l’Iraq, il paese dei rafida o empi shi’iti. A tirare le fila sempre gli stessi burattinai dentro e fuori il mondo arabo. Il disastro era già allora in cammino sul piano politico, socio-economico e culturale. Al contempo veniva avviata la fase della frammentazione dell’islam sunnita, quando per dirla all’italiana: ogni testa è un tribunale. Questa Fase venne assai corteggiata in Occidente e, in certi casi, dagli stessi studiosi orientalisti.
Il 2011 non fu inaspettato; forse non ci si aspettava che accadesse in quelle forme e violente modalità (Libia e Siria soprattutto).
Era l’apoteosi della dottrina del ministro americano Condoleeza Rice, quella detta del caos creatore o fawda al-khallaqa in arabo. Con essa si colse l’occasione per portare avanti la ricomposizione geo-politica del Mondo arabo e del Medio Oriente, naturalmente sulla base degli interessi strategici ed economici di Stati Uniti, paesi europei della Nato, Israele e ricche monarchie arabe del Golfo. Quel che è accaduto a partire dal 2011 è ormai noto e l’attuale scontro tra paesi del Golfo o al-Khalìg ha svelato verità che in molti conoscevamo, e che molti facevano finta di non sapere, non ultimo il carattere del tutto costruito delle cosiddette rivoluzioni arabe. In questi anni è l’Islam la prima vittima del caos creatore, delle guerre e del terrorismo jihadista che ne è seguito, tanto che l’uso di termini come islami e islamiyya mettono a disagio molti intellettuali musulmani. Ma c’è un’altra vittima; è l’arabismo e il senso di arabicità quale appartenenza che supera le piccole appartenenze di gruppo, tribale e familiare.
E’ di moda oggi in diversi paesi arabi, dal Marocco all’Egitto, fare riferimento a imprecise indagini sul dna dei popoli che abitano nei paesi suddetti. Facendo astrazione della storia e dei processi culturali, si pretende affermare un’idea di appartenenza (‘irq) che in Egitto si rifà agli egizi ed al periodo faraonico, nel Nord Africa agli Imazighen o berberi, azzerando secoli di storia che hanno connotato l’essere e il sentire delle società note come arabe, attraverso un particolare ed interessante processo di arabizzazione/islamizzazione delle stesse società. Tale fenomeno di ristretta appartenenza è stato presente anche nel passato, ma interessava solo alcuni gruppi, come, per fare un esempio, i cristiano-maroniti del Libano. Oggi tale fenomeno si estende e produce certo fastidio presso la gente comune, che comincia ad avvertire l’essere arabo e l’arabicità con imbarazzo. Naturalmente il disastro provocato in questi sei anni ha i suoi effetti. E’ interessante notare però, per tornare alla prima vittima di cui abbiamo discusso, che tale fastidio interessa più i musulmani che non i cristiani arabi.
Per concludere direbbe un arabo, musulmano e/o cristiano, inshallah khayr (speriamo bene).
Antonino Pellitteri
Antonino Pellitteri
Ordinario di Storia dei Paesi Islamici
Università degli Studi di Palermo