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Sullo scrittore:
Muhammed Nijim
Sono nato e cresciuto nella Striscia di Gaza, in Palestina. Ho vissuto in quella enclave per vent’anni e una volta che l’ho lasciata, ho deciso di consegnare le sofferenze del suo popolo e diffondere la verità nel mondo esterno per guadagnare la sua simpatia e il suo sostegno. Ciò è emerso dalla convinzione che il nostro conflitto con l’occupazione israeliana non possa essere risolto con le armi, ma attraverso l’aumento della sensibilizzazione. Al momento studio Sociologia all’Università Marmara di Istanbul. Aspiro a costruire un dibattito intellettuale che aiuti a correggere i malintesi sui palestinesi e offra un quadro vivido della loro vita quotidiana, cosa che rimarrà una delle mie principali responsabilità.
Gaza: “Una cicatrice perenne”
la testimonianza di Muhammed
Tre anni fa, il 10 luglio, ho vissuto uno dei giorni più terribili della mia vita, il giorno in cui ho perso, una volta per tutte, il mio equilibrio. Non posso dimenticare quella spaventosa notte in cui mi trovavo nel mio appartamento con i miei coinquilini Palestinesi, seduti nella stessa stanza per seguire le notizie che giungevano veloci dal cuore di continue offensive sulle nostre famiglie e sulla gente nella Striscia di Gaza dove l’esercito israeliano stava testando le proprie armi fatali pronte ad uccidere inumanamente ed indiscriminatamente.
In quella stanza eravamo in cinque, tutti noi provenienti da Gaza e con famiglie verso le quali si innalzavano tutti i nostri pensieri e le nostre preoccupazioni. Mai come prima abbiamo provato cosi tanto orrore e paura che un membro delle nostre famiglie venisse ferito o ucciso dai bombardamenti e dai colpi di artiglieria che non facevano alcuna distinzione tra bambini e donne, civili o combattenti. Tutto quello di cui si preoccupavano era seminare più morte possibile. Ognuno di noi controllava pagine di notizie diverse con lo scopo di raccogliere più informazioni possibili, sia Facebook che notiziari web. Riesco ancora a ricordare quei momenti critici fino a quel preciso istante, dove la paura raggiunse livelli inimmaginabili e senza precedenti. Le nostre famiglie sono sotto minaccia di morte, morte dall’infinita amarezza che nessuno di noi è pronto ad accettare, specialmente quando sei da anni lontano dalla tua famiglia.
Le notizie che scorrevano erano atroci e mortali: Amico 1: “Allarme, gli aerei militari israeliti hanno puntato un palazzo di sei piani, una dozzina di persone sono state uccise e altre ancora sono disperse sotto le macerie” , Amico 2: “Attacco di una motocicletta in via Al-‐Jalaa nel pieno centro della città di Gaza”, Amico 3: “ci sono alcune notizie circa un possibile attacco di terra da parte delle truppe israelite provenienti da est, ai confini con l’area di Al-‐Shujaiya”. Amico 4: “non riesco a rintracciare la mia famiglia al telefono, temo davvero siano feriti.”
Ad un tratto, mentre ero assorto dalle notizie che leggevo, un mio amico disse piangendo: “Muhammed, hanno colpito la famiglia di Nijim ad Al-‐Nuserirat nello stesso campo per rifugiati dove si trova la mia famiglia”. Improvvisamente mi ritrovai in uno stato di profonda ansia e paura che mi assalì completamente. Iniziai a tremare senza neppure rendermene conto. Sentivo perfino che non ero più capace di toccare la tastiera o di fare un passo in avanti coi piedi. Ho iniziato a fare chiamate a raffica per rassicurarmi che nessun membro della mia famiglia fosse ferito. Nonostante i numerosi tentativi, nessuno rispose. Subito dopo, mi ricordai di un’amica che solitamente è online su facebook, la chiamai immediatamente, le chiesi di contattare la mia famiglia e verificare se stessero bene. Lei lo fece e mi rassicurò. Mi sono sentito fortunato perché stavano bene, almeno in quel momento. Un paio di ore dopo, trovai una notizia di un nuovo attacco alla casa della famiglia Al-‐Nawasra nel campo per rifugiati di Al-‐ Maghazi.
Immediatamente ebbi la strana sensazione che qualcosa di terribile era appena accaduto. Mia sorella Aisha era sposata con Salah che appartiene alla famiglia di Al-‐Nawasra ed entrambi vivono nello stesso edificio che era appena stato bombardato. Quello stesso giorno, “ad Istanbul” c’era il Ramadan e ricevetti da parte i un amico un invito per partecipare all’ Iftar e non volevo assolutamente deluderlo. Infatti, mi imposi di pensare positivo e di non lasciarmi andare ai brutti pensieri nonostante la terribile situazione e gli eventi nella mia città, cosi come i terribili momenti vissuti nei giorni precedenti. Non c’è nulla che posso fare se non pensare positivo ed essere ottimista almeno per qualche ora per godermi il mio Iftar normalmente e tornare poi nel mio appartamento. Uscii dalla casa ma non riuscii ad arrivare al luogo dell’Iftar.
Lungo la strada, mi arrivò una telefonata dalla Palestina e sapevo fosse esattamente quello che temevo. Esitai nel rispondere, sentivo di non avere la forza di premere il pulsante per farlo perché non ero mai pronto a sentirmelo dire, non lo sono davvero. Era mia madre, stava piangendo. “Aisha è morta, Muhammed!”, “Aspetta, fammi ricomporre…dovrei risentirlo, mi voglio convincere del fatto che tutto questo non è vero. Sei seria, mamma? Abbiamo parlato giusto ieri quando lei era venuta a fare visita a casa nostra con suo marito. Non posso credere che non potremo più parlare, ti prego… non è morta. Mi ha detto al telefono che le manco e io le ho espresso a mia volta tutta la mia gratitudine e amore nei suoi confronti. Perché le hai permesso di tornare a casa sua, sai che non è un posto sicuro, sarebbe dovuta rimanere a casa nostra ieri notte”. “Non possiamo cambiare il destino. Era bellissima, figlio mio. Più bella del solito perché ci stava dicendo arrivederci con la sua visita di addio.” Abbassai il telefono e scoppiai a piangere in pubblico, come un bambino al quale è appena stata fatta un’iniezione senza pietà.
Due miei amici mi stavano accompagnando all’Iftar. Cercavano di consolarmi e farmi calmare ma non potevano fare nulla se non guardarmi piangere. Piangere in queste circostanze è la maniera più sciocca di sfogare il proprio dolore. Avrei voluto urlare forte affinché l’intero pianeta sapesse quanto fosse terribilmente ingiusto ed intollerabile quello che stava succedendo lì. Ma..hey, aspetta! Il tacito mondo non ha proferito parola su quanto accaduto durante i due precedenti attacchi nella Striscia di Gaza, credo di non avere più nessuna speranza o fiducia nei suoi confronti. Dubito che questa volta fermeranno le barbarie e l’arroganza contro gli innocenti Palestinesi.
Nel massacro della famiglia di Al-‐Nawasra, cinque anime innocenti vennero uccise a sangue freddo, cosi come altre centinaia uccise nella stessa maniera. Aisha è stata uccisa col suo bambino in grembo, lo stesso bambino che avrebbe fortemente voluto vedere specialmente dopo tutte le difficoltà riscontrate nel restare incinta. Salah, il quale stava dormendo beatamente nella sua stanza, è scomparso per sempre insieme ai suoi due nipotini che avevano solo due e quattro anni. Nonostante il fatto che il corpo di Aisha era irriconoscibile a causa del pesante bombardamento, volevo partecipare al suo funerale per potere almeno respirare il suo profumo e sussurrarle addio all’orecchio. Non ho potuto, sono stato privato dal potere vedere mia sorella defunta per l’ultima volta nella mia vita a causa della chiusura continua e ingiustificata del confine Rafah: “l’unico passaggio per gli abitanti di Gaza verso il mondo esterno”.
Nell’ operazione “Protective Edge” che l’esercito israelita ha condotto a Gaza, circa 2000 persone sono state uccise, la maggior parte delle quali erano bambini civili o donne che nulla avevano a che fare con Israele ed il suo “esercito morale”. La loro unica colpa era essere involontariamente abitanti di Gaza. Il mondo deve sapere che Aisha è stata uccisa senza motivo. Deve sapere che le persone uccise in ogni guerra non sono numeri. Sono persone come me e te, hanno sogni, aspirazioni, email lasciate a metà nelle bozze delle loro caselle postali, erano persone normali come tutti noi e avevano il pieno diritto di vivere in pace e con dignità.
Articolo tradotto da Alessandra Falzone
Ho conosciuto Muhammed a fine Aprile di quest’anno, durante un mio viaggio in Turchia. Lui è uno dei fortunati che è riuscito ad uscire da Gaza per poter studiare, anche se, questo me lo ha confessato più volte, l’incertezza di non poter tornare o, una volta rientrato, di non poter più riuscire dal Paese lo tiene in un continuo stato d’angoscia. A Gaza ha lasciato la famiglia e gli amici di sempre. Averlo conosciuto è stato un vero privilegio per me, ho potuto ascoltare le sue storie, le sue esperienze e scrutare il suo animo. Così ho potuto capire che studiare i conflitti, le crisi umanitarie, leggere articoli, guardare i TG, non riuscirà mai a darci la misura umana delle tragedie alle quali ci approcciamo. Molte volte, durante le lunghe chiacchierate, avrei voluto dirgli “ti capisco Muhammed”, ma ovviamente sarebbe stata una bugia e perciò mi limitavo ad ascoltarlo, e più lo ascoltavo, più cresceva la profonda stima e sincera ammirazione nei confronti di un ragazzo che oggi ho l’onore di poter chiamare “Amico” . Così, un giorno, gli proposi di mettere per iscritto una delle storie che mi aveva raccontato, nella convinzione (condivisa) che una testimonianza diretta potesse avere la potenza necessaria per far conoscere a più gente possibile ciò che lui, ed il suo popolo, sono costretti a vivere da decenni. Lui ha acconsentito con entusiasmo, forse per una sorta di senso del dovere nei confronti di tutti i Palestinesi vittime di una tragedia perenne. Oggi leggendo queste sue parole non posso che esprimere tutta la mia gratitudine a Muhammed e onorare l’impegno di far conoscere le storie delle “persone normali” costrette a vivere la tragedia della guerra nella Striscia di Gaza.
Lorenzo Gagliano
Direttore Area Scientifica di I.Me.S.I.