A cura di:
Prof. Nicola Romana
Docente di Diritto Internazionale all’Università di Palermo
Vice Presidente Comitato Scientifico I.ME.S.I.
Dott. Rosario Fiore
Cultore di Diritto Internazionale all’Università di Palermo
Segretario Generale I.ME.S.I.
Martedì 4 aprile i media internazionali hanno dato enorme diffusione alla notizia che il presidente siriano Assad avrebbe ordinato un raid aereo contro Khan Shayeikhun, città nella provincia nordoccidentale di Idlib, sotto il controllo dei ribelli. L’attacco ha fatto almeno 80 morti, tra i quali secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani ( sulla cui attendibilità sono da tempo stati avanzati dubbi) – almeno una ventina di bambini e molte donne. Secondo molte organizzazioni non governative e gran parte della comunità internazionale, durante l’attacco sarebbero state utilizzate armi chimiche.
Venerdì 7 aprile gli USA, in risposta all’attacco di Assad e per punirlo per avere utilizzato armi chimiche contro le popolazioni civili, hanno attaccato, con lancio di missili da due portaerei che incrociano nel Mediterraneo, la base di Al Shayrat da cui, secondo le autorità militari americane, erano partiti gli aerei che hanno bombardato Khan Shayeikhun.
Questi i fatti. Noi ci limiteremo ad una analisi giuridica dell’accaduto, lasciando agli esperti di relazioni internazionali le opportune analisi geopolitiche.
Ora, volendo anche ammettere che in Siria Assad, non ultimo con i bombardamenti del 4 aprile scorso, abbia commesso crimini contro l’umanità, occorre tuttavia stabilire:
1. a chi spetta, dal punto di vista della legalità internazionale, accertare e punire i crimini contro l’umanità e, più in generale, a chi spetta la tutela dei diritti umani;
2. se e in che misura uno Stato possa, unilateralmente e senza alcun mandato specifico delle Nazioni Unite, punire un altro Stato per avere commesso crimini contro l’umanità;
3. se l’azione degli Stati Uniti sia, per tanto, conforme al diritto internazionale ovvero costituisca un illecito.
I primi due quesiti, essendo intrinsecamente collegati, necessitano di essere affrontati insieme, atteso che, peraltro, la loro soluzione costituisce la premessa logico-giuridica per rispondere al terzo quesito. Partiamo da una domanda: chi è responsabile per la protezione delle persone da gravi violazioni dei diritti umani? Come noto, in occasione del vertice mondiale tenutosi dal 14 al 16 Settembre 2005 per celebrare il 60° anniversario dell’ONU, venne approvato un documento nel quale si faceva strada l’idea che, nell’ambito delle relazioni internazionali, debba esistere un principio in base al quale si possano determinare le condizioni in presenza delle quali sia “giustificato” e quindi moralmente e giuridicamente doveroso intervenire da parte di uno Stato o della Comunità Internazionale in presenza di specifiche violazioni di diritti umani all’interno di uno Stato o in una determinata zona geografica: nello specifico, si tratta di un concetto ampio che prevede l’utilizzo da parte sia dei singoli Stati che della Comunità Internazionale di misure diverse, di natura prevalentemente pacifica, ma senza escludere anche quelle di carattere militare.
Venne quindi definita la nozione di “responsability to protect” o “responsabilità a proteggere” abbreviata con l’acronimo “r2p”, quale possibile “norma emergente” che mira alla protezione della popolazione mondiale da eventi quali il genocidio, la pulizia etnica, i crimini di guerra e più in generale, i crimini contro l’umanità. Questa responsabilità incombe in primo luogo sullo Stato sovrano in riferimento ai propri cittadini; solo se detto Stato non possa o non voglia proteggere i propri cittadini o sia lo stesso Stato che li danneggia, allora la Comunità Internazionale è tenuta ad intervenire e agire di conseguenza per difendere i diritti umani violati.
Nel report del Segretario Generale dell’ONU del 21 Marzo 2005, si evidenzia che la “responsabilità a proteggere” rileva nell’ambito del perseguimento del fine della libertà di vivere in condizioni di dignità quale esplicitazione del più generale principio di “libertà dalla paura” o, se vogliamo, del più ampio concetto della human security. In altri termini, la presunta norma emergente della “responsabilità a proteggere”, strettamente collegata con il più noto principio dell’intervento umanitario, sembrerebbe imporre l’azione militare di uno Stato o di un gruppo di Stati in presenza di gravi, persistenti e sistematiche violazioni dei diritti umani che riguardano appunto situazioni di genocidio, pulizia etnica, crimini contro l’umanità cioè situazioni nelle quali la violazione dei diritti umani fondamentali riguarda il diritto alla vita ed al benessere fisico e mentale.
Occorre tuttavia evidenziare, a nostro avviso, che una siffatta norma deve necessariamente confrontarsi con alcuni principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite, principi conformi peraltro al diritto consuetudinario cogente:
in primo luogo, l’art. 2 par. 7 vieta l’intervento dell’ONU in materie che attengono alla competenza interna degli Stati ( principio del rispetto dell’integrità territoriale degli Stati);
in secondo luogo, l’art. 2 par. 4 pone agli Stati l’obbligo di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza sia contro l’integrità o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.
Non può, inoltre, essere sottaciuto che l’art. 1 par. 1 della Carta sancisce quale fine principale dell’ONU il mantenimento della pace e della sicurezza; ciò si realizza attraverso un sistema di sicurezza fondato da un lato sulla proibizione dell’uso della forza unilaterale e dall’altro sul ruolo del Consiglio di Sicurezza, nell’ambito del cd. sistema di sicurezza collettivo. Ed è la stessa Carta delle Nazioni Unite a stabilire le eccezioni al divieto dell’uso della forza:
in primo luogo, la legittima difesa – che deve essere proporzionata alla violazione subita – di cui all’art. 51, da parte dello Stato che è stato attaccato, fino a quando il Consiglio di Sicurezza non intervenga e decida quindi di agire direttamente contro l’aggressore;
in secondo luogo, le azioni coercitive implicanti l’uso della forza che il Consiglio di Sicurezza può intraprendere, ai sensi del Cap. VII della Carta, che disciplina un sistema di sicurezza collettivo dell’ONU, ed in cui rientrano le famose operazioni di peace keeping svolte da forze militari multinazionali o di una singola Nazione.
Come visto, dunque, la Carta delle Nazioni Unite fissa dei criteri normativi ben precisi attraverso i quali si deve mantenere la pace e nell’ambito dei quali, l’uso della forza, sia per la risoluzione di conflitti tra Stati sia anche per punire uno Stato per avere commesso gravi crimini contro l’umanità, rappresenta non soltanto l’extrema ratio ma deve avvenire sempre e comunque dopo che ogni mezzo di risoluzione pacifica si sia dimostrato inefficace e sempre dopo un espresso deliberato del Consiglio di Sicurezza ONU, non essendo previsto né giustificato un intervento unilaterale da parte di un singolo Stato, se non nei casi della legittima difesa.
A ciò si deve aggiungere che la tutela dei diritti umani, a partire quantomeno dal secondo dopoguerra, ha avuto un notevole sviluppo in termini di produzione di atti e convenzioni – che non è il caso di elencare – che ha spinto Norberto Bobbio a parlare del Novecento come “ l’età dei diritti”: esiste, pertanto, a livello internazionale, un complesso di norme finalizzate alla repressione della violazione dei diritti umani, all’accertamento di gross violations tra cui crimini di guerra e crimini internazionali.
Infatti, oltre al ben noto principio dell’universalità della giurisdizione penale, che consente a ciascuno Stato di potere giudicare un criminale di guerra o un criminale contro l’umanità, a prescindere dal luogo delcommissii delicti, esiste anche un Tribunale Penale Internazionale, istituito con la Convenzione di Roma del 1998 ; in precedenza, inoltre, potevano essere istituiti, inoltre, tribunali ad hoc, come l’esperienza del Ruanda e della Ex Jugoslavia ci insegna.
Insomma, la legalità internazionale, oggi è assicurata o quanto meno devoluta a organismi specifici; è disciplinata da norme ben definite, che escludono l’utilizzo della forza se non nei casi previsti espressamente. Da questo punto di vista, dunque, Assad, se ha commesso crimini contro l’umanità, sarà soggetto alla giusta punizione, secondo le norme del diritto internazionale consuetudinario e pattizio, ossia secondo le procedure della difesa collettiva in ambito ONU ove il Consiglio di Sicurezza decida di intervenire militarmente in Siria con una operazione di peace keeping ovvero facendo ricorso alla giustizia penale internazionale per reprimere e punire suoi eventuali crimini.
In ogni caso, nessuna norma internazionale – neanche l’emergente norma della “ responsabilità a proteggere” – attribuisce questo compito agli Stati Uniti, che ancora una volta si ergono a “superpoliziotto del mondo”, per realizzare il grande ideale della giustizia. Sostiene, acutamente, Danilo Zolo, in un suo articolo dal titolo “L’intervento umanitario armato fra etica e diritto internazionale” pubblicato nella rivista Jura Gentium:
“ Secondo molti autori inglesi e statunitensi un attacco militare contro uno Stato le cui autorità politiche si siano macchiate di gravi violazioni dei diritti umani coinciderebbe senz’altro, salvo rare eccezioni, con il trionfo dei valori universali della comunità internazionale e non con gli interessi particolari dello Stato impegnato nell’azione bellica. Si potrebbe sostenere, come ha scritto il giurista statunitense Michael Glennon, che in questo caso – come è avvenuto nel 1999 nella guerra della Ntao per la questione del Kosovo – l’uso della forza non sarebbe altro che lo strumento per realizzare il “grande ideale della giustizia” ben oltre il formalismo di chi venera i canoni mummificati del diritto internazionale e si oppone all’uso della forza che non sia formalmente legittimato dalle istituzioni internazionali. Se la forza delle armi viene usata per fare giustizia, “il diritto seguirà”, legittimando il fatto compiuto in forme codificate o per via consuetudinaria. Il rispetto della sovranità degli Stati, come ha sostenuto fra gli altri Michael Ignatieff, è problema del tutto secondario rispetto al dovere di tutelare i diritti dell’uomo facendone valere l’universalità anche con l’uso della forza. All’universalità dei diritti umani non può che corrispondere l’universalità degli interventi armati necessari per tutelarli” .
Ed aggiunge, criticamente: “ Le cose non vanno e non possono andare così, ha scritto autorevolmente Thomas Franck , che non tace la sua diffidenza nei confronti di una apologia indiscriminata dell’uso della forza per finalità umanitarie. Franck pensa con saggezza – e, bisogna dire, del tutto ovviamente – che è necessario discriminare fra interventi umanitari “genuini” ed interventi umanitari insinceri e opportunistici. Può accadere che l’emergenza umanitaria sia pura invenzione di una potenza che si propone di interferire nella domestic jurisdiction di un altro Stato per ragioni politiche e/o economiche. Oppure può accadere che una guerra civile di ridotte dimensioni venga gonfiata di proposito da parte di una grande potenza per giustificare l’aggressione contro un paese militarmente debole che essa ha deciso di occupare per ragioni strategiche. A mio parere non si può che concordare con Franck sull’esigenza di un rigoroso accertamento delle motivazioni e delle finalità di chi usa la forza dichiarando la propria generosa vocazione “umanitaria”. Come dimenticare il radicale scetticismo di Carl Schmitt, espresso nella celebre massima: wer Menschheit sagt, will betrügen? Chi cerca di vestire il suo attacco militare con panni umanitari è un impostore: in realtà egli cerca di consacrare la propria guerra come “guerra giusta” e di degradare moralmente il proprio avversario, di isolarlo come nemico dell’umanità e di essergli ostile sino all’estrema disumanità” .
Non vi è dubbio alcuno che negli ultimi decenni gli Stati Uniti – basti ricordare le operazioni militari in Kosovo negli anni Novanta e in Iraq negli anni Duemila – hanno sempre giustificato i loro interventi militari come “umanitari”, e come tali rispettosi del diritto internazionale.
Anche l’attacco in Siria di venerdì scorso ha avuto questa giustificazione: punire Assad per avere, odiosamente, bombardato civili con l’uso di armi chimiche, macchiandosi dunque di un grave crimine contro l’umanità. Spiace, tuttavia, constatare che – e in questo dissentiamo sia da Glennon che da Ignatieff l’universalità dei diritti umani non può giustificare una loro tutela in spregio alle norme del diritto internazionale: la giustizia non può travalicare i limiti del diritto;
La legalità non può essere garantita attraverso un atto illegale, illegittimo, quale è l’attacco statunitense in Siria, che è e rimane un attacco unilaterale, non avvenuto in legittima difesa perchè la Siria non ha attaccato nessuna base americana e soprattutto non autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Se, pertanto, Assad ha violato le norme a tutela dei diritti umani, gli Stati Uniti dall’altro lato hanno commesso un illecito internazionale, violando la Carta delle Nazioni Unite e i relativi principi sul divieto dell’uso della forza e del rispetto dell’integrità territoriale di uno Stato sovrano. E siamo pienamente convinti, assieme a Carlo Focarelli ( “La crisi libica: un punto di svolta nella dottrina della responsabilità di proteggere?” ) , che “non c’è mai stata una norma di diritto internazionale (ne una ‘norma emergente’ come indicato nel Rapporto della ICISS del 2001) che ammetta la responsabilità di proteggere nello specifico senso di giustificare misure unilaterali altrimenti illecite adottate da singoli Stati. Una cosa è interpretare la responsabilità di proteggere come guida per la mediazione politica, altra cosa è usarla come giustificazione per atti internazionali altrimenti illeciti, soprattutto quando si tratta di interventi militari.
Mentre il primo aspetto è pacifico, il secondo è alquanto discutibile e ampiamente dibattuto”. Se, dunque, l’attacco USA in Siria costituisce un illecito internazionale, appare di tutta evidenza che – sia pure nei limiti in cui l’ordinamento internazionale lo consente – una eventuale contromisura siriana contro gli americani, anche di natura militare ( ma in questo caso solo quale misura di contrasto nell’immediatezza di un attacco armato), a nostro giudizio troverebbe il conforto e la legittimazione delle norme internazionali.
Ovviamente, l’auspicio è che tacciano le armi, sempre!