La prima intensa settimana del presidente Trump



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Sono trascorsi pochi giorni dal 20 Gennaio 2017, l’Inauguration Day del 45° presidente degli Stati Uniti d’America, giorno in cui il neoeletto presidente Donald Trump ha recitato il proprio giuramento a Capitol Hill, Washington DC: “La cerimonia di oggi ha un significato molto speciale-ha detto nel corso del suo discorso inaugurale- perché non stiamo solo trasferendo il potere da un’amministrazione a un’altra o da un partito a un altro, ma stiamo trasferendo il potere da Washington DC restituendolo a voi, il popolo […]. L’establishment ha protetto se stesso, ma non i cittadini. Le loro vittorie non sono state le vostre vittorie. E mentre nella capitale festeggiavano, per le nostre famiglie c’era poco da festeggiare”.

Dal discorso è emersa in sostanza la volontà di dare un nuovo impulso al paese partendo dai cittadini. Eppure i fatti dell’ultima settimana hanno mostrato una realtà ben diversa: da subito Trump ha preso infatti provvedimenti e rilasciato dichiarazioni che hanno suscitato forte scalpore presso l’opinione pubblica ma soprattutto sgomento tra i cittadini. I cittadini che dovrebbero divenire protagonisti della scena politica statunitense sono infatti gli stessi che già dall’Inauguration Day, anzi, già dall’elezione di Trump, sono scesi in piazza in massa per manifestare il proprio dissenso nei confronti del neoeletto presidente e della sua politica.

Prenderemo qui brevemente in considerazione alcuni dei suoi provvedimenti della settimana appena trascorsa, per capire in che direzione sta andando o potrebbe andare in futuro la politica statunitense e per fare il punto sulla prima settimana della presidenza Trump.

Fine dell’Obamacare?

Lo aveva nominato spesso nel corso della campagna elettorale, vi aveva fatto più volte riferimento durante i dibattiti presidenziali, e ne aveva fatto uno dei principali strumenti di attacco nei confronti dell’amministrazione Obama: insomma, a Donald Trump l’Affordable Care Act, la riforma del sistema sanitario statunitense varata dal suo predecessore non andava proprio giù. “Obamacare will never work. It’s very bad, very bad health insurance. Far too expensive. And not only expensive for the person that has it, unbelievably expensive for our country. It’s going to be one of the biggest line items very shortly”[1], aveva dichiarato durante il secondo dibattito presidenziale; e il primo atto esecutivo della sua presidenza è stato ideato con l’intento di arginare la riforma al fine di smantellarla pezzo per pezzo e  “creare un mercato di assicurazione sanitaria più libero e aperto”.

L’atto non ha ripercussioni pratiche determinanti, complice anche il riferimento piuttosto vago alle modalità di alleggerimento dei costi per lo Stato, ma assume un valore simbolico da non sottovalutare: ai dipartimenti governativi è infatti concessa la possibilità di “rinunciare, rinviare, concedere deroghe o ritardare l’attuazione di tutte quelle norme che impongono oneri fiscali sugli stati, le società e gli individui”. Immediata conseguenza di ciò è la possibilità per le agenzie federali di far venire meno l’obbligo di possesso di assicurazione sanitaria (il cosiddetto “individual mandate”, uno degli elementi più criticati dell’Obamacare). Resta in ogni caso appannaggio esclusivo del Congresso l’abrogazione della riforma e la maggioranza parlamentare appare divisa sull’argomento, conscia del fatto che fino ad ora il presidente non ha proposto idee chiare o progetti precisi su un’eventuale alternativa.

No all’aborto

Un altro ordine esecutivo firmato in questi giorni da Trump è quello che blocca i finanziamenti del governo federale alle organizzazioni non governative che si occupano o elargiscono informazioni sull’ interruzione di gravidanza a livello internazionale. La “Mexico City policy”, ovvero la regola che ha permesso a Trump di firmare l’ordine, è stata introdotta nel 1985 dall’amministrazione repubblicana Reagan, al fine di legittimare le posizioni tendenzialmente antiabortiste del partito. Attorno all’aborto infatti negli Stati Uniti si è creato un vero e proprio braccio di ferro politico tra partiti: le amministrazioni repubblicane hanno infatti invocato la Mexico City policy a più riprese, mentre la stessa è stata spesso revocata dalle amministrazioni democratiche, in ultima istanza dall’amministrazione Obama.

C’è da dire però che anche durante le amministrazioni democratiche resta proibito il finanziamento diretto ai servizi di interruzione di gravidanza, e questo in virtù dell’emendamento Helms del 1973, che afferma che “nessun fondo di assistenza straniera può essere utilizzato per pagare le prestazioni di aborto come metodo di pianificazione familiare o per motivare o costringere una persona a praticare l’aborto”. I finanziamenti dell’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale potevano però essere elargiti ugualmente per altri importanti scopi come la contraccezione, la prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili o le cure post-operatorie.

Alle dichiarazioni del portavoce della Casa Bianca Sean Spencer, che ha affermato durante l’incontro quotidiano con la stampa che “non è un segreto che il Presidente abbia più volte espresso posizioni pro life e contrarie all’aborto”, sono seguite proteste e rivendicazioni, nelle piazze e sui social. Anche la senatrice del New Hampshire Jeanne Shaheen ha pubblicato un tweet in merito, affermando di voler presentare un disegno di legge che possa abrogare in maniera definitiva la Mexico City Policy. Di segno diametralmente opposto sono state invece le reazioni di gruppi e movimenti anti-abortisti  e religiosi statunitensi e non solo: in un comunicato ufficiale infatti l’arcivescovo di New York, il cardinale Timothy Dolan, si è complimentato con il neoeletto presidente definendo l’ordine esecutivo “un passo positivo verso il ripristino e il rafforzamento di importanti politiche federali che rispettino il diritto umano più fondamentale, quello alla vita”.

Gli oleodotti e le terre sacre dei nativi americani

Il 24 Gennaio il presidente ha firmato altri due ordini esecutivi, relativi, questi ultimi, alla costruzione di due oleodotti, il Keystone e il Dakota Access, siti in North Dakota, nelle terre sacre dei nativi americani. Il progetto del Dakota Access era stato bloccato da Obama in seguito alle rimostranze delle tribù, dei Sioux in particolare, e degli ambientalisti, cui era stato promesso che l’ultimo tratto dell’oleodotto avrebbe deviato il suo percorso, in modo da accontentare entrambe le parti senza perdere l’ingente somma di denaro investita nella costruzione.

Lo United States Army Corps of Engeneers, incaricato di seguire l’evoluzione del progetto, si trova adesso a dover approvare il progetto in tempi brevi, come richiesto nell’ordine esecutivo. Non sorprende più di tanto la decisione di Trump, che già aveva accennato alla questione in campagna elettorale: se infatti le sue dichiarazioni auspicano un nuovo modello energetico per il paese, accompagnato da un forte incremento dei posti di lavoro, non si può ignorare lo stretto legame tra il presidente e la società Energy Transfer Prtner, che ha creato il progetto e di cui Trump deteneva fino ad alcuni mesi fa delle azioni.

 Intanto i Sioux si sono detti pronti a manifestare il proprio dissenso nei confronti di un progetto che, se dovesse andare in porto, potrebbe determinare un altissimo fattore di rischio per le acque del fiume Missouri.


Members of the Standing Rock Sioux Tribe and their supporters opposed to the Dakota Access Pipeline (DAPL) confront bulldozers working on the new oil pipeline in an effort to make them stop, September 3, 2016, near Cannon Ball, North Dakota. / AFP / Robyn BECK / TO GO WITH AFP STORY by Nova SAFO, "Native Americans united by oil pipeline fight" (Photo credit should read ROBYN BECK/AFP/Getty Images)

Members of the Standing Rock Sioux Tribe and their supporters opposed to the Dakota Access Pipeline (DAPL) confront bulldozers working on the new oil pipeline in an effort to make them stop, September 3, 2016, near Cannon Ball, North Dakota. / AFP / Robyn BECK / TO GO WITH AFP STORY by Nova SAFO, “Native Americans united by oil pipeline fight” (Photo credit should read ROBYN BECK/AFP/Getty Images)


Fine dell’accordo di libero scambio transpacifico

Il presidente Trump, negli ultimi giorni, ha voluto prendere una posizione ben precisa anche in merito ai rapporti commerciali tra Stati Uniti ed altri paesi. La prima disposizione, sempre mediante ordine esecutivo, consiste nell’abbandono (mera formalità, in quanto l’accordo non era ancora passato attraverso la ratifica del Congresso) da parte degli Stati Uniti del Tpp, il Partenariato Trans-Pacifico, firmato alla fine del 2015 da dodici paesi e frutto di un lungo e impegnativo sforzo diplomatico che ha tenuto l’amministrazione Obama impegnata per circa due anni.

Lo scopo del Tpp era favorire il commercio tra i paesi aderenti attraverso tagli su dazi e tariffe di innumerevoli prodotti agricoli e industriali; la politica economica e commerciale di Trump invece è tutta rivolta al protezionismo, alla valorizzazione dell’industria statunitense e dei suoi lavoratori. Mentre circolano voci su un’ eventuale entrata della Cina nel Trattato come potenza di spicco da sostituire agli States, l’amministrazione Trump dovrà impegnarsi nella stipula di accordi commerciali bilaterali, soprattutto con le potenze asiatiche.

Rafforzare i confini: è ora di issare il muro

Il confine meridionale va salvaguardato dall’afflusso di criminalità, traffico di stupefacenti e immigrazione illegale: questa è la motivazione addotta dal portavoce della Casa Bianca a supporto dell’ulteriore misura, anch’essa più volte promessa in campagna elettorale, che è stata stabilita in questa prima settimana di presidenza dal presidente Trump e che prevede la costruzione di un muro al confine tra Stati Uniti e Messico. L’ordine di esecuzione prevede innanzitutto uno studio delle caratteristiche geografiche e topografiche della zona in cui il muro dovrebbe sorgere, nonché il reperimento di risorse per assicurare la messa in sicurezza della zona e gli aspetti operativi.

Uno dei punti più controversi, che ha alimentato una querelle tra Stati Uniti e Messico, è il pagamento per la costruzione del muro. Se da un lato, infatti, lo stesso ordine esecutivo prevede il reperimento di fondi federali per mettere in atto il progetto, è anche vero che il presidente ha fatto a più riprese intendere che le spese di costruzione dovrebbero gravare, almeno in parte, sul Messico. Si è anche parlato di finanziare il muro imponendo una tassa del 20% sulle importazioni dal Messico, da cui si ricaverebbero ben 10 miliardi di dollari l’anno.

A queste dichiarazioni è seguita una pronta risposta da parte delle autorità messicane: “Pretendiamo rispetto- ha dichiarato a poche ore dalla firma dell’ordine esecutivo il presidente messicano Enrique Peña Nieto- e comunque non saremo noi a pagare”. Il presidente messicano ha perfino disertato un incontro con Trump previsto per lo scorso Martedì, ad ulteriore riprova della tensione tra i due governi; eppure c’è chi sostiene che dietro la reazione di Peña Nieto si nasconda un tacito accordo con Trump, volto a negoziare l’impunità per scandali di corruzione e violazione dei diritti umani che da tempo aleggiano sulla amministrazione del presidente messicano.

All’annuncio della costruzione del muro è anche seguito il licenziamento di Mark Morgan, capo della United States Border Patrol, agenzia deputata al controllo delle frontiere.

Parola d’ordine “protezione”

La misura più recente del governo Trump riguarda l’afflusso migratorio, in particolare di rifugiati, in entrata negli Stati Uniti. Con l’ordine esecutivo per la “Protezione della nazione dall’ingresso di terroristi stranieri negli Stati Uniti” il presidente ha bloccato il programma di accoglienza per i profughi varato dal suo predecessore, dando “priorità solo ai rifugiati cristiani”, che potranno affluire nel paese in un numero non superiore a 50 mila. Sono stati sospesi a tempo indeterminato gli ingressi di siriani e, per almeno tre mesi, anche di libici, iraniani, iracheni, somali, sudanesi e yemeniti. Al rafforzamento del controllo militare si accompagnerà il cancellamento del rinnovo automatico dei visti per gli stranieri. 

Fight fire with fire: Trump e le dichiarazioni sulla tortura

Non si tratta in questo caso di ordini esecutivi, ma di dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi alla stampa, in particolare alla ABC News, e poi ribadite, anche se con toni meno aspri, durante la conferenza stampa dell’incontro con la premier britannica Theresa May.

“Mi baserò su quello che pensano Pompeo, Mattis e i miei collaboratori: e se loro non vogliono, va bene. Se invece vorranno, allora mi impegnerò anche io Voglio fare tutto quello che mi è consentito nei limiti della legge. Penso che funzioni? Certamente, penso che funzioni”, ha affermato Donald Trump riferendosi alla tortura. Un ritorno al waterboarding o a “qualcosa di peggio” era già stato auspicato dal presidente durante la campagna elettorale e adesso Trump ha ribadito la sua posizione dichiarando di voler tenere il paese al sicuro e di essere disposto a tutto pur di raggiungere questo obiettivo, anche a riaprire le prigioni segrete della Central Intelligence Agency, meglio conosciuti come Black Sites.

“We have to fight fire with fire”, dichiara Trump, affermando che la tortura potrebbe secondo lui divenire uno strumento efficace per la lotta contro gli efferati crimini commessi dallo Stato Islamico.

Alle dichiarazione del neoeletto presidente, dichiaratamente difformi ad ogni norma internazionale e alle Convenzioni di Ginevra, è seguito uno sdegno generalizzato e la condanna da parte di attivisti e capi di governo.

La prima settimana di Donald Trump alla Casa Bianca è appena volta al termine e , benchè non pochi provvedimenti siano stati presi, non è ancora ben chiaro se il suo disegno politico si rivelerà efficace a lungo termine. La caparbietà con cui sta portando avanti le idee già espresse in campagna elettorale ha suscitato reazioni differenti: c’è chi ne apprezza la pragmaticità, e c’è chi, invece, vede nei nuovi provvedimenti una pericolosa inversione di rotta, i cui effetti non vanno in alcun modo sottovalutati. Sarà il tempo a dire se l’era Trump determinerà il successo o l’implosione della potenza americana.

Alessia Girgenti

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