A cura di S.E. Armando Sanguini
25 dicembre 2016: Natale di sangue; 1°gennaio 2017: Capodanno di sangue.
Fra l’una strage, Berlino, e l’altra, Istanbul, altre stragi rimaste in ombra, quasi che le loro vittime fossero meno importanti: il doppio attentato a Baghdad (29 morti) e quello a Damasco (45 morti). E sullo sfondo di queste carneficine un Abu Bakr Al Baghdadi tornato a farsi vedere e a minacciare, obbligando di fatto le grandi Agenzie americane di intelligence a riconoscere pubblicamente che il Califfo è ancora vivo e, molto americanamente, ad aumentare la taglia sulla sua testa. Se mai avessimo avuto bisogno di segnali convincenti circa la persistente capacità dell’ISIS di colpire, sorprendendo anche laddove ha ripetuto schemi già sperimentati, ma evidentemente non metabolizzati là dove serviva – come nel caso del camion di Berlino che ha ricalcato l’attacco di Nizza o come nel caso di Istanbul che ha rieditato la strategia del Bataclan – adesso ne abbiamo in abbondanza. E anche se la rivendicazione dell’attentato è giunta solo il 2 gennaio le impronte di metodo e di merito segnate dal/i terroristi lasciavano pochi dubbi sul mandante. E poi, diciamocelo con franchezza, non sarebbe ben peggio se si fosse trattato di un’operazione, da ultimo quella di Istanbul, concepita e realizzata da qualche gruppo/organizzazione fotocopia? La circostanza inquietante è che i servizi di intelligence dei paesi colpiti non si sono parlati e se lo hanno fatto, non è servito anche se, a rigore, era facilmente immaginabile la ripetibilità del modulo operativo nizzardo e parigino. Non meno inquietante è il fatto che sia a Berlino che a Istanbul il o gli attentatori sono riusciti a far perdere le loro tracce. Che dire poi della provenienza “cinese” del principale indiziato dell’attacco di Istanbul che confermerebbe la vastità della ragnatela dell’ISIS? E se è sbagliato ritenere consolatorio, oltre che liberatorio, che l’uomo di Berlino sia stato ucciso quando ciò è avvenuto non a seguito di un’operazione coordinata tra servizi di sicurezza, ma per mera casualità e in Italia;
merita cautela preventiva ciò che emergerà dall’esito della caccia all’uomo – o agli uomini – in fuga in Turchia visto che Erdogan ha pensato bene di tacitare tutti gli organi di informazione nell’evidente scopo di poter ammannire la “sua” verità al momento opportuno. La sua verità, quella della cinica disinvoltura con la quale è approdato all’intesa con Mosca e Teheran sulla Siria, ragione più che sufficiente perché Erdogan, e dunque la Turchia, sia ormai un primario bersaglio dell’ISIS in quanto traditore della causa sunnita e della pur conclamata lotta ad oltranza contro Bashar al Assad. Per non parlare di quella relativa alla disinvoltura con la quale sta conducendo la spietata guerra contro i curdi siriani che pure sono i più efficaci alleati degli USA e, sulla carta, di Ankara, nella guerra contro lo stesso ISIS. E dello stato di grave coartazione politico-sociale nel quale ha fatto precipitare il paese, terreno ideale per il terrorismo di qualsivoglia matrice. Berlino, Damasco, Baghdad, Istanbul sono stati dunque, in poche ore, gli anelli di una catena che ha stretto assieme il 2016 e il 2017 in una logica di continuità prospettica pesantemente critica.
Logica che vede la “liberazione” di Mosul annunciata per la fine del 2016 rinviata a tempi migliori, auspicabilmente nel primo semestre di quest’anno, ma non è detto. E’ un ISIS ancora battagliero. Un ISIS capace non solo di obbligare Baghdad a coprire più fronti contemporaneamente – gli attentati del 2 gennaio, durante la visita del Presidente Hollande, ne sono ulteriore conferma – ma anche di minare le possibilità di successo della complessa strategia “inclusiva” (sciiti-sunniti) che il Premier Abadi sta faticosamente portando avanti. Ciò che comporta una seria ipoteca sulla futura governance del paese. Logica che vede l’operazione Raqqa, la roccaforte dell’ISIS in Siria, ostaggio dei seguiti politico-negoziali e militari dell’intesa Mosca-Ankara-Teheran soprattutto in relazione ai criteri, alle modalità e ai tempi con i quali questa Troika deciderà di coinvolgervi gli altri Partner finora esclusi, dalle Nazioni Unite (Staffan de Mistura) agli USA, all’Arabia saudita, etc. e, auspicabilmente, all’imbelle Unione europea.
Finora Mosca si è dichiarata aperta alla più larga convergenza in proposito, sapendo di poter capitalizzare a suo favore, quale primus inter pares anche rispetto a Teheran e ad Ankara, la svolta militare di Aleppo (e della cosiddetta “Siria utile”) e mettendo in conto un Trump più voglioso di sventolare la bandiera dell’antiterrorismo che di impelagarsi sui termini della transizione politico-istituzionale del paese; sorte di Bashar al Assad inclusa. Ma resta da vedere se e come le sue aspettative si materializzeranno in termini di convergenza/collaborazione nell’offensiva contro l’ISIS che la coalizione a guida americana sta portando avanti (con il prezioso ausilio delle milizie curde); e se e in quale misura potrebbero esserne escluse le forze militari di Damasco, per non parlare delle milizie iraniane e di Hezbollah. Un garbuglio di non poco conto anche per il Trump più disposto a sacrificare principi e valori pur di sconfiggere l’ISIS.
I primi giorni del 2017 sono stati un monito brutale a non cedere alle lusinghe di quanti indulgono a privilegiare il contrasto ai sintomi più che alle radici di questo cancro globalizzante, a minimizzare la forza del cordone ombelicale che lega Berlino, Parigi, Bruxelles, etc. a Baghdad, Damasco, etc.; e, ancor peggio, a scaricarne di fatto la responsabilità sulle principali vittime del terrorismo. C’è da augurarsi che quest’Europa sappia uscire dalla sua mediocrità e rispondere a questo monito con un colpo di reni concettuale e politico degno di questo nome. Il cuore mi dice che ciò può avvenire; la mente lo smentisce anche se il grande anniversario dell’Unione a Roma il prossimo marzo potrebbe darle torto. Vedremo.
Armando Sanguini è stato Ambasciatore della Repubblica Italiana:
Direttore generale relazioni culturali
Direttore generale Africa
Capo missione in Cile Tunisia e Arabia saudita