A cura di Federico La Mattina
In questi ultimi anni stiamo assistendo a profondi mutamenti geopolitici nello scenario mediorientale (e non solo). Paesi come Siria, Iraq e Libia sono in profonda crisi di statualità, l’ Isis ha scombussolato gli equilibri sia statuali che regionali e – nonostante sia militarmente in difficoltà – non ci è dato sapere quando cesserà di esistere come attore para-statuale. Il “ritorno” della Russia in Medio Oriente ha contribuito a ribaltare la partita siriana ed oggi è difficile pensare ad una soluzione del conflitto senza la partecipazione di al-Assad: ci ha rinunciato anche Erdoğan. Abbiamo chiesto alla prof.ssa Michela Mercuri (docente di Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università di Macerata) di affrontare alcune importanti questioni riguardanti la geopolitica mediorientale.
Prof.ssa Mercuri, quali conseguenze avrà nella geopolitica siriana l’avvenuta riconquista di Aleppo da parte dell’esercito governativo di al-Assad?
Damasco e i suoi alleati escono indubbiamente rafforzati dalla riconquista di Aleppo, per lo meno nella parte occidentale della Siria, oramai quasi totalmente controllata dai governativi. In ogni caso Assad ha vinto una battaglia ma non la guerra. L’intenzione dell’asse Damasco- Mosca- Teheran (e ora anche Ankara) è quella di riprendere il controllo di tutto il paese. Non sappiamo, però, se e quando ciò accadrà. Molto dipenderà dagli investimenti, in termini militari, che Mosca vorrà – o potrà – fare per continuare a supportare il suo alleato e da quanto Trump sarà disposto a “spendere” per sostenere la strategia russa. Con uno sguardo di breve periodo, invece, va detto che il recente accordo russo-turco per il cessate il fuoco non implica certo la fine del conflitto siriano, quanto piuttosto il tentativo bloccare la guerra in alcune zone strategiche sull’asse ovest Aleppo-Damasco. Ora, però, la partita si sposta su Raqqa e prima ancora su Idlib, in cui sono stati concentrarti anche i ribelli evacuati da Aleppo. Dagli esiti di queste battaglie dipenderanno i futuri assetti della Siria. Detta in altri termini, se vi sarà una effettiva riconquista della sola parte occidentale, con uno smembramento più o meno formale del paese o se, come dichiarato da Russia, Iran e Turchia a margine dell’incontro di Mosca, si opereranno tutti gli sforzi per mantenerne l’integrità territoriale.
Il disgelo russo-turco ha rappresentato un punto di svolta nel conflitto siriano. Come giudica il mutamento della geopolitica siriana da parte di Erdoğan (fin dal 2012 in prima linea insieme alle monarchie del Golfo nel dare supporto ai ribelli anti-Assad)?
Seppure sembri in una posizione di forza, Erdogan non ha vinto in Siria, ha piuttosto limitato i possibili danni della sconfitta. Alleandosi con Mosca ha cercato di “salvare il salvabile”. Dall’inizio del conflitto siriano ha sostenuto il fronte anti Assad, anche con l’apertura delle cosiddette autostrade della jihad, per far affluire migliaia di combattenti e armi in Siria dal confine turco. L’obiettivo era quello di approfittare della destabilizzazione del paese per allargare l’influenza sunnita nella regione, ergendosi ad “attore indispensabile” e bloccare la nascita di un embrione di Stato curdo ai suoi confini. Evidentemente confidava in una rapida caduta del regime damasceno. Le cose, come sappiamo, sono andate diversamente. L’ingresso nel teatro siriano della Russia, accanto a Damasco e alle forze sciite, ha fatto pendere l’ago della bilancia dalla parte di Assad. Davanti al fatto compiuto Erdogan ha mutato la sua strategia per cercare di non perdere del tutto la partita siriana. Ha così aiutato i lealisti ad Aleppo, bloccando gli aiuti alle opposizioni armate, per ottenere il via libera di Putin contro i curdi siriani. Da questo punto di vista tra la Russia e la Turchia sembra esserci un rapporto di reciproca indispensabilità. La Turchia di Erdogan, quest’anno vittima di ben 12 attentati, appare sempre più debole da un punto di vista interno ed ha bisogno della Russia, specie ora che ha perso Obama. Putin ha tutto l’interesse a mantenere i buoni rapporti con Ankara per salvaguardare la propria posizione nel Mediterraneo e blindare i fiorenti affari energetici con la Turchia. La Russia potrebbe addirittura sostenere ancor di più il leader turco onde evitare che un suo indebolimento possa mettere a rischio questa partnership.
Della politica estera di Donald Trump conosciamo le intenzioni generali ma non sappiamo ancora con certezza come si relazionerà con importanti attori regionali (Iran, Arabia Saudita e Turchia in primis) e che tipo di accordo raggiungerà con la Russia. Qual è la sua opinione in merito?
Al momento possiamo solo avanzare alcune ipotesi. Trump ha dichiarato una maggiore convergenza con la Russia per la gestione delle aree di conflitto del Nord Africa e del Medio Oriente e questo potrebbe comportare un rafforzamento di Putin e del suo sistema di alleanze regionali. Con Haftar in Libia, con l’Egitto di al Sisi e con Assad in Siria.
In ogni caso, ci sono delle importanti incognite da considerare. In primo luogo, stravolgere totalmente la politica americana, significherebbe toccare rapporti e interessi consolidati in quasi un secolo di guerre e alleanze. Gli Stati Uniti hanno sette basi militari nel Golfo e la Sesta Flotta in Bahrein. L’Arabia Saudita è il terzo paese del mondo per acquisti di armi, comprate per il 90% dagli americani. Trump non potrà non tenerne conto. Altra incognita è l’Iran (alleato di ferro della Russia). Se il nuovo Presidente perseguirà il disegno di ritirarsi dall’accordo sul nucleare, l’Iran potrebbe trasformarsi in un forte intralcio alle possibili intese russo-americane. Per quanto riguarda la Turchia, il maggior peso che Trump potrebbe dare ad Assad potrebbe essere digerito da Erdogan in cambio della già paventata intesa sui curdi. Solo una volta chiariti questi dubbi potremmo avere un quadro più nitido delle relazioni tra la (nuova?) America di Trump e i principali attori regionali del quadrante mediterraneo.
La Russia ha fin da subito manifestato l’opposizione alla riedizione di un “Libia bis” in Siria, opponendosi all’agenda delle potenze occidentali (intenzione ribadita con forza anche da Evenij Primakov, padre geopolitico della Russia attuale). Come giudica il ruolo delle potenze occidentali nell’escalation del conflitto siriano e l’intervento diplomatico-militare della Federazione Russa?
La Russia è intervenuta in modo diretto in Siria per rafforzare la propria posizione strategica nel Mediterraneo orientale e difendere il porto militare russo di Tartus. Gli Stati Uniti, spesso con poca convinzione, hanno offerto una copertura politica e diplomatica agli alleati regionali, per salvaguardare gli interessi comuni. Il dialogo tra Stati Uniti e Russia ha avuto, dunque, un carattere asimmetrico perché Mosca è parte in causa nel conflitto siriano, mentre Washington ha ingaggiato un conflitto diretto, per lo meno sulla carta, solo con l’Isis. La posizione negoziale americana è risultata nettamente indebolita da tre contraddizioni di fondo. In primo luogo gli obbiettivi di Obama e quelli dei suoi partner, Arabia Saudita in primis, sono rimasti divergenti. Per le opposizioni siriane e i loro sponsor regionali l’uscita di scena di Assad è sempre stata la conditio sine qua non, per Washington no. Stare contro Assad ma non agire contro Assad è stato l’handicap dell’azione militare e diplomatica di Obama. In secondo luogo gli Stati Uniti, pur dichiarandosi apertamente contro il terrorismo jihadista, hanno attaccato l’Isis ma non gli altri gruppi jihadisti presenti fra le opposizioni. Infine, hanno mal conciliato il loro disimpegno nella guerra siriana, lasciando mano libera ai loro alleati regionali, col tentativo di mantenere un rapporto costruttivo con la Russia. L’incongruenza di questi diversi obbiettivi ha causato il fallimento della politica americana in Siria. La maggiore convergenza di Trump con Putin, come si è detto, potrebbe cambiare le cose.
Le contese mediorientali hanno una dimensione sia geopolitica (in primo luogo la “guerra fredda” per l’egemonia nel Golfo tra Iran e Arabia Saudita) che settaria (si parla spesso di un “asse sciita” contro un “asse sunnita”). Ritiene preminente la dimensione settaria o quella geopolitica che vede coinvolte grandi e medie potenze, unite spesso da instabili convergenze di interesse?
Le due dimensioni si intersecano. Sia l’Iran che l’Arabia Saudita hanno un chiaro intesse geopolitico per il dominio di un’area al centro d’interessi strategici ed economici. La Siria è emblematica. Per l’Iran è un pivot geostrategico di primo piano che assicura al regime il controllo indiretto verso il Mediterraneo. Una proiezione strategica che neppure lo Shah aveva mai sognato di ottenere. Per i sauditi è un tassello importante per rilanciare l’influenza sunnita nel mondo musulmano e per rinvigorire la propria politica di potenza dopo lo “schiaffo americano” dell’accordo sul nucleare iraniano. Tuttavia, la riemersione della dimensione settaria (o comunque localistica) resta l’elemento chiave per spiegare gli attuali rivolgimenti in Medio Oriente e in Nord Africa e i possibili assetti futuri. La caduta dei dittatori, da Saddam Hussein alle primavere arabe, ha sancito il tramonto dell’era post-coloniale e dello Stato-Nazione che conteneva, con metodi autocratici, i tribalismi e i settarismi. La mancanza di identità nazionali radicate ha portato alla decomposizione delle identità all’interno dei confini statali e alla loro ricomposizione sulle linee pre-esistenti alla creazione degli Stati (tribù, regioni, clan, etnie etc.) dando vita a una ri-strutturazione sociale basata su divisioni localistiche. Non ci si illuda, dunque, che in Siria la fine della guerra, con o senza Bashar al -Assad, ricomporrà il paese, così come lo abbiamo fin qui conosciuto, e non ci si illuda neppure che in Libia la recente sconfitta dello Stato islamico a Sirte potrà essere il preludio per la ricostruzione dell’unità. Ci sarà comunque una ex Siria come c’è già una ex Libia. Probabilmente anche in Iraq verrà il momento di stabilire una qualche spartizione, tarata, come in Libia, sulle ingenti risorse petrolifere. E’ evidente, da questo punto di vista, che l’Isis non è stato la causa della destabilizzazione del Medio Oriente ma solo una conseguenza.
Michela Mercuri è Professoressa di Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università degli Studi di Macerata. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia e la geopolitica dei paesi del Mediterraneo. E’ analista ed esperto di politica estera, si occupa, in particolare, di Libia, Siria, Egitto, Tunisia, dei conflitti nei Territori Occupati e dell’evoluzione dell’area dopo le rivolte arabe.
E’ editorialista per alcuni quotidiani on line, tra cui Huffington post, TPI – The post internazionale, Il sussidiario.net e Affari Internazionali, e commentatrice per Rai Radio 1 sui temi della sicurezza, della politica e dell’economia dei paesi del Nord Africa e Medio Oriente.