Nella poco illuminata e lungimirante avanzata su Mosul, fin troppo infarcita e condizionata dalla prossima tornata elettorale a stelle e strisce, l’intero Occidente sta palesando tutti i limiti politici, militari e strategici che ne hanno cateterizzato l’ultimo decennio. Ma andiamo per gradi.
Sotto il profilo politico l’impegno degli ultimi mesi da parte del Segretario di Stato USA John Kerry, di tessere, almeno sulla carta, una coalizione degna di tale nome tra potenze mondiali (Stati Uniti, UE, Nato e Russia) e regionali (Arabia Saudita, EAU, Turchia, Iran e Kuwait, ma anche curdi e peshmerga a cui spetta il compito dei boot on ground), il tentativo è naufragato sotto le sconcertanti richieste avanzate da più parti per dare supporto, anche meramente logistico, a operazioni di antiterrorismo in MO. Su tutte la pretesa della famiglia reale saudita di porre un veto presidenziale alla possibilità delle famiglie americane, di intentare causa al governo di Riyadh per le evidenti complicità con il massacro dell’11 Settembre 2001. Veto che fu in realtà posto dal Presidente Barack Obama, ma che è stato prontamente aggirato da un Congresso a maggioranza repubblicana, che ha deciso di dare voce a tutti coloro che hanno perso i propri cari in quel funesto giorno di quindici anni fa.O le sempre più costose richieste, in termini geostrategici, dell’Iran di Khomeini. Addirittura quest’ultimo, avendo percepito un nuovo clima internazionale intorno a se è decisamente spaventato dalla forza sempre più evidente delle milizie del Califfato, ha alzato la posta in ballo per dare il proprio contributo alla lotta al terrore. Se prima bastava dare il via libera ad un programma nucleare che porterà tra non molto ad ulteriori tensioni regionali, ora addirittura il governo di Teharan vuole bypassare i principali competitor in materia d’estrazione petrolifera, ed avviare canali privilegiati per la commercializzazione del greggio in Europa e Nord America. Proposta naufragata, manco a dirlo, sotto i ricatti degli Emirati Arabi Uniti e company di ritirarsi dalla sedicente coalizione internazionale, con l’Iran che torna così a strizzare l’occhio al fondamentalismo islamico. O la Turchia che da anni gioca un ruolo a dir poco ambivalente nei confronti dell’Occidente, facendo affari sotto banco con il Califfato e cercando al contempo di diventare membro dell’UE Possiamo perfino permetterci di sorvolare, infine, sull’angoscioso e per certi versi prevedibile, braccio di ferro tra USA e Russia. A quasi trent’anni dal crollo del blocco sovietico, il retaggio culturale da Guerra Fredda che attanaglia entrambe le superpotenze, permane forte e vigoroso. Ed ecco che questa coalizione non ha praticamente visto luce.
L’ambito militare segna un passo che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni delle potenze occidentali. Ovvero, tali Paesi non possono permettersi di fare la guerra, di mettere i “Boots on ground”, per tutta una serie di motivi. I costi esorbitanti ed insostenibili per nazioni con debiti a profusione ed economie stagnanti; eserciti di professione ormai completamente privati del ruolo che storicamente viene loro riservato, ovvero la tutela degli interessi nazionali, ma meramente confinati in compiti di polizia locale o di istruttori di forze di forze armate in Paesi del terzo mondo; ma soprattutto un’opinione pubblica che non ne vuole sapere di perdere un proprio figlio in guerra. È un costo che dalla Guerra del Vietnam in poi, l’Occidente non ha voluto più sostenere, per nessuna ragione al mondo. Si esigono guerre veloci, a tecnologia “stealth”, digitali e sempre più cyber, con poche risorse umane destinate a combatterla a terra e, ovviamente, vittoriose. La Prima Guerra del Golfo ne è un fervido esempio. Ma sappiamo bene che con il terrorismo, un fenomeno combattuto in primis con una prevenzione dai molteplici aspetti e su larga scala, questo ragionamento non funziona.
Infine la sicurezza internazionale e la nostra strategia per il futuro. In questo caso, possibilmente, la situazione è perfino più drammatica. Se fin dagli albori il sedicente Stato Islamico, ha trovato nelle città di Mosul e Raqqa due capitali inviolabili e destinate a rappresentare lo strapotere jihadista nel Medio Oriente del futuro, al contempo i seguaci del Califfo Abu Bakr al Baghdadi hanno sempre sostenuto e valorizzato la flessibilità del nuovo modo di fare terrorismo. Ovvero, se da un lato sono il primo ed unico gruppo terroristico ad essersi proclamato Stato, con tanto di bandiera e lembo di terra da difendere, di converso l’Isis ha sempre dimostrato che la sua forza più grande risiede nel terrorista fai da te che vive nelle banlieu parigine piuttosto che nelle periferie abbandonate di Londra, cooptato sui social media e radicalizzato, ma soprattutto addestrato. mediante delle mere chat online. Ecco quindi l’errore principale e che probabilmente pagheremo a caro prezzo, in un futuro non troppo remoto. Con migliaia di giovani fondamentalisti, le cosiddette seconde generazioni mai realmente integrate ai nostri valori,radicalizzati davanti il monitor di un pc, armati fino ai denti grazie alla facile reperibilità di materiale esplosivo e fucili d’assalto, sfuggevoli e flessibili proprio come l’era postmoderna impone, ma soprattutto pronti ad entrare in azione in qualsiasi momento per inondare di sangue le vie delle nostre città, si direbbe che la presa di Mosul abbia ben poco a che vedere con la sconfitta del terrore. Anzi, direi che potrebbe essere una sponda, un assist formidabile, per tutti i foreign fighters che finalmente riusciranno a tornare in Europa grazie a confini colabrodo e un passaporto che somiglia sempre più ad una licenza di uccidere, in totale impunità, ai quattro angoli della terra.
Sono quasi 30.000 i giovani europei, che hanno imbracciato per periodi più o meno lunghi le armi del Califfato Islamico. Un vero e proprio esercito, che con la presa di Mosul probabilmente farà ritorno nel Vecchio Continente, condurrà una vita apparentemente ineccepibile, grazie a quel processo di mimetizzazione definito “Takkiya”che porta gli occidentali a convivere per anni con cittadini islamiciapparentemente inseriti nel nostro tessuto sociale, ligi al dovere e alle leggi, quasi lontani dal fattore religioso, ma che in realtà sono soltanto in attesa di ordini dall’alto per combattere la loro jihad.
Queste 30.000 mine vaganti saranno l’eredità più drammatica di questa avanzata su Mosul. Perché se da un lato ha una qualche minima valenza, direi poco più che simbolica, la presa di una città semi deserta nel cuore di quella che fu la terra di Saddam Hussein; dall’altro il vero nemico vive con noi nelle nostre città, cammina sui nostri marciapiedi, usufruisce spesso dei nostri diritti e molto meno spesso dei nostri doveri, lavora una vita in maniera silenziosa aspettando il momento opportuno per poter entrare in azione.
Parigi, Bruxelles, Boston, Orlando sono solo alcuni degli esempi, i più lampanti, di una guerra combattuta più tra le nostre strade che nelle polverose mulattiere irachene.
Mosul a breve sarà conquistata dalle truppe dei peshmerga, gli unici che combattono da anni la diffusione del terrore in MO, verrà venduta come un grosso successo dell’inesistente coalizione occidentale ai danni del terrorismo islamico, ci saranno elezioni in America e verrà eletto colui che cavalcherà meglio questo dato.
Ma dal giorno dopo i problemi saranno di nuovo lì, più grandi che mai. Se c’è un dramma che si palesa in maniera subdola ma evidente in questo contesto, è che l’Occidente non ha più lungimiranza, vive di sondaggi ed exit poll, pensa alle prossime elezioni piuttosto che alle prossime generazioni. Ecco perché stiamo perdendo una guerra che mai abbiamo seriamente combattuto. Perché ci rifiutiamo di pensare in modo illuminato, proprio noi che siamo figli dell’Illuminismo. Preferiamo credere che la presa di una città, in una guerra liquida e postmoderna come quella di cui sopra, risolverà i nostri problemi. Nessun idea può essere più errata.
La presa di Mosul sarà soltanto l’inizio di una nuova fase della guerra tra Occidente e terrore, tra Democrazie e Califfati, mondo libero e sharia. In definitiva, tra la vita e la morte.
Stefano De Angelis,