Il 25 settembre 2016 si è tenuto nell’entità della Republika Sprska, in Bosnia-Erzegovina, un referendum per approvare una festività chiamata “il giorno della statualità” il 9 gennaio, commemorando l’omonima data del 1992 in cui la Republika Sprska dichiarò la secessione dall’ex repubblica socialista jugoslava della Bosnia Erzegovina. Il quesito nello specifico era formulato così: volete mantenere o no il la festa del giorno della statualità?. L’esito ha visto una vittoria del sì al 99,79%, con una partecipazione superiore al 60% degli aventi diritto. Il referendum, promosso dall’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) guidati da Milorad Dodik, non ha avuto vita facile e prima ancora di essere celebrato è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale bosniaca; infatti la Corte aveva, già nei mesi precedenti, dichiarato incostituzionale la festività nazionale del 9 gennaio, celebrata solo nella Republika Sprska e che commemorava la secessione della Republika Sprska, che secondo i bosgnacchi portò allo scoppio della guerra civile. La Corte ha motivato la decisione affermando che, tenuto conto del principio di uguaglianza delle nazionalità costitutive, è discriminatoria contro i non-Serbi, in quanto la festività è obbligatoria per tutti (inclusi i bosgnacchi che vivono nell’entità della Republika Sprska) e coincide con una festività religiosa serba ortodossa.
Si potrebbe argomentare che in realtà ogni festa nazionale discrimina contro una minoranza che vive all’interno dei confini dello stato, e che quindi abbia un contenuto politico nel senso che esclude un potenziale nemico all’interno della comunità. Tuttavia è innegabile che il referendum abbia un significato politico molto più ampio di quello sovracitato. Molto del clamore nasce dal timore dei bosgnacchi; infatti i musulmani temono che la vittoria del sì costituisca il prodromo per l’inizio di nuove tensioni etniche nel paese nel migliore dei casi, nonché l’inizio della fine dell’assetto costituzionale che venne creato dagli accordi di Dayton. Questi accordi sono, a più di vent’anni di distanza, estremamente controversi perché da un lato sono riusciti a terminare un conflitto civile che pareva eterno, e dall’altro hanno creato uno stato diviso in due entità a compartimenti stagni (Republika Sprska a maggioranza serba da un lato e Repubblica di Bosnia-Erzegovina a maggioranza musulmana-croata dall’altro), bloccato dai veti reciproci delle varie nazionalità che lo costituiscono, e dal vincolo della logica consensuale che rendono il sistema politico bloccato. Inoltre, vi sono altri effetti collaterali legati al trattato poiché la divisione del paese in repubbliche su base nazionali ha naturalmente favorito i partiti nazionalisti, gli stessi che presentano una forma di continuità con i partiti che contribuirono allo scoppio della guerra civile degli anni ‘90. Infine, le varie nazionalità all’interno delle entità possono dialogare in ogni momento con i paesi che più desiderano, creando così di fatto una frammentazione della politica estera su base nazionale.
In questo senso i bosgnacchi, temendo una secessione della Republika Sprska si sono mossi su due binari. Da un lato il governo federale ha provato in tutti i modi ad ostacolare il referendum legalmente, dichiarandolo incostituzionale, e tecnicamente, rifiutandosi di fornire le liste degli elettori alla Republika Sprska. Dall’altro ha internazionalizzato la questione, chiedendo il supporto diplomatico alla Turchia, all’UE e agli USA. Soprattutto gli ultimi due hanno fornito supporto legato al probabile futuro collasso degli accordi di Dayton ed un possibile conflitto, ma che comunque è stato molto più freddo di quanto ci si poteva attendere. Infatti, sebbene l’UE abbia espresso attraverso il proprio ambasciatore in Bosnia-Erzegovina, Lars-Gunnar Wigemark, la propria contrarietà a un referendum, ritenuto non necessario, e “prova di come le politiche etno-nazionaliste siano usate da persone non interessate a qualsiasi cambiamento positivo”. Ha anche aggiunto che la Bosnia-Erzegovina del 2016 non è quella del 1992, e dunque questo referendum non è da interpretare in chiave di conflitti imminenti, ma piuttosto come un evento organizzato in modo propedeutico alle elezioni locali. Difatti le elezioni municipali nella Republika Sprska si svolgeranno il 2 ottobre, e la vittoria dell’SNSD permetterà di riaffermare a Dodik, per l’ennesima volta, la propria egemonia nell’entità. Oltre a ciò, gli alleati dei bosgnacchi stanno affrontando una serie di questioni che sono ritenute più prioritarie rispetto ad un ulteriore intervento nella regione. Infatti il conflitto siriano imperversa senza che qualcuno riesca a trovare uno sbocco, a parte ironicamente, proporre una nuova Dayton per la Siria, l’UE sta cercando di trovare uno soluzione alla sommatorie di crisi che la affliggono, mentre nel frattempo si attende l’esito delle elezioni presidenziali statunitensi.
Dall’altro lato dello spettro, Dodik è un politico navigato, già primo ministro della Republika Sprska nel 1998 e presidente della Republika dal 2010, il quale ha utilizzato più volte una retorica apertamente secessionista. Rileggendo le sue dichiarazioni è inevitabile non ripensare al progetto della “Grande Serbia”, che fu una delle cause della guerra civile degli anni ‘90, e attraverso cui la Republika Sprska mirava a ricongiungersi alla Serbia. Nelle settimane precedenti lo svolgimento del referendum, apparentemente la posta in gioco era molto più alta che una festa nazionale. Era infatti in gioco la sopravvivenza stessa della Republika Sprska e della possibilità che esistesse un’entità capace di accogliere la travagliata minoranza etnica serba. Dodik, l’SNSD e i suoi sostenitori affermavano che qualora fosse stata impedito alla Republika Sprska di mantenere una festa nazionale, si sarebbe spianata la strada che sul lungo periodo avrebbe portato alla scomparsa stessa della Republika. Analogamente a quanto fatto dai bosgnacchi, anche i serbo-bosniaci hanno provato a internazionalizzare il referendum, ma con esiti solo leggermente più favorevoli, chiedendo aiuto ai tradizionali alleati della Republika Sprska, ossia la Russia e la Serbia. Ma se la prima ha riconosciuto come legittimo il referendum, la seconda non ha fatto altrettanto. In entrambi i casi il comportamento di entrambi non deve sorprendere. Infatti, la Russia non ha negato il suo tradizionale supporto da protettore dei popoli slavi e ha provato a utilizzare il referendum per rafforzare la sua posizione nella regione, mentre Belgrado, almeno da quando il Partito Progressista Serbo governa dal 2012, sta facendo una serie di sforzi per diventare stato membro dell’UE e, sebbene ancora certe richieste dell’UE non siano state ancora soddisfatte, come ad esempio il riconoscimento del Kosovo come stato sovrano, è sulla buona strada. Chiaramente, il supporto esplicito di Belgrado a un referendum che tendenzialmente rischia di danneggiare gli accordi di Dayton non può essere supportato, in particolare tenendo conto della ragione, a mio avviso la più profonda con cui è stata fatto questo referendum, ossia rafforzare le posizioni di Dodik in vista delle elezioni municipali che si terranno il 2 ottobre nella Republika Sprska. Alla vigilia del referendum l’opposizione del Partito Democratico Serbo (SDS) nella Republika Sprska, ha ritenuto il referendum positivo, ma non vitale, ed ha anzi accusato Dodik e l’SNSD di strumentalizzarlo, in modo da permettergli, in caso di vittoria, di guadagnare consensi propedeutici alle elezioni municipali del 2 ottobre, e una vittoria dell’SNSD gli permetterebbe di riaffermare la propria egemonia nell’entità. Curiosamente, la stessa portata del referendum è stata sminuita alla vigilia del referendum stesso. Infatti, il 22 settembre il consiglio della Republika Sprska ha annunciato che modificherà la a sua legge sulle festività nazionali armonizzandola con la sentenza dell’Alta Corte di Sarajevo, e lo stesso Dodik ha sminuito la portata del referendum, definendolo un “sondaggio”. In fondo i plebisciti vengono chiamati tali solo dopo che si sono svolti e hanno avuto esito positivo.
Pertanto viene da sé che la portata effettiva del referendum sarà visibile solo all’indomani delle elezioni del 2 ottobre. Sono possibili due esiti: o Dodik e l’SNSD vincono con un margine risicato o perdono le elezioni, e dunque, in entrambi questi casi, assisteremmo alla fine della carriera politica di Dodik e forse a un nuovo corso della politica dell’SNSD. Nel secondo caso, come è abbastanza probabile, Dodik e l’SNSD vincono le elezioni con un buon margine, e dunque la retorica secessionista continuerà a essere usata, dando la percezione che in generale la sopravvivenza della Bosnia-Erzegovina sia in dubbio. Ma è e resterà appunto una percezione, dato che diversi elementi spingono a pensare che in realtà il referendum sia stato usato come arma di ricatto da parte di un’entità verso il governo federale. Infatti, se prendiamo le motivazioni retoriche usate da Dodik e dai suoi alleati notiamo che essi hanno organizzato il referendum per garantire la sopravvivenza della Republika Sprska all’interno della Bosnia-Erzegovina, e mai si è parlato di fare una secessione per unirsi alla Serbia o per diventare addirittura uno stato indipendente. Del resto, se anche la Republika Sprska facesse una secessione per unirsi alla Serbia, e supponendo che riesca a farla senza colpo ferire, facendo sì collassare la Bosnia-Erzegovina, ma non scatenando alcuna guerra civile, è molto difficile che allo stato attuale si possa verificare uno scenario analogo a quello della Crimea nel 2014, dato che Belgrado, almeno fino a quando il Partito Progressista Serbo resterà al potere, ha messo in secondo piano obiettivi di ingrandimento, provando comunque a entrare nell’UE, come ha già fatto la Croazia. Se dunque Belgrado incorporasse la Republika Sprska secessionista, dovrebbe molto probabilmente rinunciare per sempre a diventare stato membro dell’UE. Dunque, a chi dice che la Bosnia-Erzegovina non sia sufficientemente integrata nella politica europea, viene da dire che questo referendum segue anzi delle dinamiche simili a quelle presenti in altri paesi europei con partiti etno-nazionalisti quali Spagna, Belgio e Regno Unito. In molti di questi casi infatti, i governi sub-nazionali governati da partiti etno-nazionalisti hanno utilizzato la minaccia della secessione per potere ottenere concessioni politiche o per sfruttare una minaccia credibile per rafforzare il proprio potere in vista delle elezioni locali. Naturalmente in questo caso Dodik non ha mai minacciato apertamente la secessione, ma è innegabile che abbia usato una minaccia latente tale per cui qualora Dodik non fosse stato accontentato e non avesse potuto far celebrare il referendum, si sarebbero potute verificare conseguenze inattese e ignote.
Per quanto riguarda il coinvolgimento di potenze estere nella vicenda, possiamo invece dire che tutte sono intervenute relativamente poco, in modo abbastanza marginale e non hanno influito in modo rilevante sull’esito del referendum. Tuttavia, sarebbe sbagliato ridurre la portata del referendum rubricandolo come un mero evento di politica interna di un paese periferico. Infatti da quando esiste la pace di Dayton, non erano mai stati messi in discussione i meccanismi derivanti da questa da parte degli attori della politica interna bosniaca. In un certo senso verrebbe però da dire che tuttavia è stata Dayton a delegittimare sé stessa. Infatti una pace che crea un sistema politico bloccato tramite il congelamento dei conflitti, e che non riconosce e sancisce un mutamento qualitativo dei rapporti di forza rispetto a quelli vigenti rispetto al principio del conflitto non è una pace. Nel migliore dei casi è una tregua. Tuttavia, è altrettanto interessante notare come gli stessi accordi di Dayton, seppure fragilissimi, sono riusciti a creare degli incentivi che spingono le nazionalità e soprattutto le èlite costituenti a restare dentro il sistema politico modellato sull’accordo, nonostante tutti gli stalli e le debolezze di questo sistema politico. Il referendum insomma deve portare a riflettere sui vizi e sulle virtù legati alle paci congelatrici e ai rischi che si corrono imponendoli anche in altri teatri.
Inoltre si può anche affermare che i vincoli esterni hanno avuto un loro peso nella regione per contenere e moderare le potenze regionali della regione, garantendo così un rafforzamento della fragile pace di Dayton. A titolo esemplificativo, la Croazia è parte dell’UE e della NATO, e in particolare il secondo fattore la pone in subordinazione agli USA in cambio di una maggiore sicurezza contro i vicini. O ancora, la Serbia ha moderato molte delle sue politiche aggressive dell’epoca di Milošević, proprio in virtù delle condizionalità dell’UE per garantirle l’accesso.
Infine, il basso coinvolgimento delle potenze straniere nell’area non deve trarre in inganno, in quanto la regione presenta ancora una certa importanza strategica data dal mix etnico e dall’importanza geografica. Ancora oggi, nonostante le attenzioni della maggior parte degli attori siano rivolte altrove, la Bosnia e i Balcani contano, altrimenti non si spiegherebbero i lenti movimenti di allargamento dell’UE e della NATO nell’area, i tentativi russi di controbilanciare le potenze occidentali intervenendo nell’area o ancora gli investimenti turchi in Bosnia.
Insomma, questo referendum costituisce un interessante duplice spunto di riflessione su come fare durare delle paci fragili a livello internazionale, e sulla credibilità delle minacce di partiti etno-nazionalisti verso i governi centrali.
Giovanni Militello
Per saperne di più:
http://www.balkaninsight.com/en/page/bosnia-and-herzegovina-home
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Banja-Luka-si-prepara-al-referendum-174457
http://ec.europa.eu/enlargement/countries/detailed-country-information/serbia/index_en.htm