Il 4 e 5 Settembre hanno visto la Cina protagonista del summit globale, di cui è stata fondatrice nel 1999, comunemente conosciuto come G20. Si tratta dell’undicesimo summit a cui hanno preso parte l’Unione Europea, gli Stati Uniti, Germania, Russia, Regno Unito, Italia, Francia, Canada, Australia, Giappone, Cina, Sud Africa, Argentina, Brasile, India, Indonesia, Messico, Arabia Saudita, Turchia e Corea del Sud, e che si è tenuto presso la città “fortificata”, per l’occasione, di Hangzhou. Per i cinesi è stata una grossa opportunità per ben figurare di fronte ad una platea di stati rappresentante il 90% del prodotto interno lordo globale, l’80% del commercio ed i 2/3 della popolazione mondiale. Ed effettivamente l’evento a livello formale non ha avuto falle, ma data la rilevanza politica di un tale evento, che a seguito della crisi finanziaria del 2008 ha acquisito ancora più rilevanza, le aspettative erano piuttosto alte.
Uno dei “goal” raggiunti dal summit, senza dubbio quello che ha avuto maggiore risonanza, sono gli accordi sul clima sino-statunitensi, rispettivamente i primi due paesi per emissioni di Co2. “Un accordo storico ed uno sforzo fondamentale”, così lo ha definito il presidente Obama. Tali accordi consistono nella ratifica dei negoziati sul clima raggiunti nel dicembre scorso a Parigi durante il summit Cop 21. L’accordo diventerà giuridicamente vincolante per gli stati qualora verrà ratificato da 55 stati produttori del 55% delle emissioni, per cui la firma di Washington e Pechino che insieme producono il 38% delle emissioni globali si attesta come un risultato importante per la lotta al “climate change”. Senza voler però sminuire l’importanza di un tale accordo, che sembrava difficilmente raggiungibile, ad onor del vero diverse personalità nel campo scientifico tra cui Netuatua Palesikoti, direttrice della divisione sul cambiamento climatico della Sprep (Secretariat of the Pacific Regional Enviromental Program), affermano che il contenimento del clima sotto i 2 gradi, così come previsto dai negoziati del Cop21, non sarebbe però sufficiente ad evitare gli irreversibili danni dovuti al cambiamento climatico. Sarebbe invece necessario fin da subito un contenimento sotto gli 1,5 gradi, che significherebbe portare a zero l’asticella delle emissioni di Co2, una prospettiva al momento più che improbabile. Sopratutto perché si andrebbe ad ostacolare l’obiettivo numero uno del summit, il leitmotiv che ha caratterizzato i due giorni di Hangzhou: la crescita economica.
“La crescita economica è stata troppo bassa per troppo tempo”, questo il mantra ripetuto anche dal Direttore Operativo del Fondo Monetario Internazionale (IMF) Christine Lagarde, che è intervenuta sostenendo poi che “è necessario fare in modo che la globalizzazione funzioni a beneficio di tutti”. Per conseguire questi due principali obiettivi, crescita economica e benefici della globalizzazione, che sembrano mettere tutti e venti stati d’accordo, tanto da poter parlare di un “Hangzou Consensus”, non è stato però siglato alcun accordo scritto né sono stati messi in agenda degli impegni precisi. Si è molto genericamente parlato della necessità di una nuova ventata di innovazione che guidi il globo verso una “nuova rivoluzione industriale”, ed un impegno maggiore per combattere l’evasione fiscale internazionale, implementare le misure anti-corruzione, e promuovere il libero commercio e l’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Tutti impegni sottolineati con una forte carica retorica, come la ripetizione di un rituale religioso con la finalità di ricordare ai fedeli quali sono i valori fondanti delle loro vite, ma in fin dei conti ben poca sostanza.
E seppur sia stato riconosciuto, quasi all’unanimità, che questi mantra, che sono poi i valori fondanti dell’unica ideologia rimasta in vita, siano gli stessi che hanno riportato nello scenario politico globale la ribalta dei nazionalismi, che non ha risparmiato nemmeno il paese madre della promozione dei valori globalizzanti, nessuno sembra disposto a rinunciarvici.
Nel corso del meeting c’è stato poi spazio anche per un ennesimo incontro tra Obama e Putin per cercare di arrivare ad una conclusione nel conflitto siriano, a cui purtroppo non crede più nessuno. Un summit definito “costruttivo ma non conclusivo”. Tra i problemi trattati anche l’apertura di un corridoio umanitario per Aleppo. Ma ancora una volta tra i negoziatori russi e quelli americani anche qualora sembri, almeno a parole, esserci una volontà comune poi si fatica ad arrivare ad una formula di reciproco gradimento. Troppe tensioni ed un “gap di fiducia” che porta ancora una volta ad un nulla di fatto.
Allora tanta formalità, un grande show, ma molta poca sostanza a caratterizzare questo G20. Tanto che la scena se la prendono una serie di gaffe capitate al presidente americano, come l’assenza del “red carpet” al suo arrivo e l’intraducibile “son of a whore!”con cui viene appellato dall’esplosivo leader delle Filippine Rodrigo Duterte. Comunque segnali del cambiamento della percezione di Washington nell’immaginario politico globale, e del declino dell’unipolarismo a stelle e strisce.
Giovanni Tranchina