Sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi si è già detto molto, da parte di studiosi del diritto costituzionale, politologi, politici, giornalisti, esponenti della società civile…ognuno ha espresso la propria opinione, chi a favore e chi contro. Per cui, senza addentrarci troppo nel merito della riforma, ci preme solo esprime alcune considerazioni di metodo e di sostanza. Partiamo dal metodo.
La materia delle riforme costituzionali è una materia, per eccellenza, parlamentare, nel senso che, essendo la Costituzione l’atto fondativo e fondamentale dello Stato, un bene che appartiene a tutti e non ad una sola parte politica, si è sempre lasciato alla libera determinazione delle forze politiche presenti in Parlamento la materia della revisione della Costituzione, dovendo mantenere il Governo, che è espressione di una maggioranza politica, una posizione di neutralità. Scriveva, al riguardo, Piero Calamandrei nel 1947: «Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana» ( P. Calamandrei, Come nasce la nuova Costituzione, ne Il Ponte, 1947, 1ss ).
Come noto, la procedura di revisione della Costituzione è disciplinata dall’articolo 138, il quale prevede una doppia lettura di entrambe le Camere del progetto di riforma, con un intervallo di almeno tre mesi ed un referendum confermativo, nel caso in cui la riforma non venga approvata da una maggioranza qualificata corrispondente ai 2/3 dei componenti del Parlamento: la ratio della norma è appunto quella di favorire la più ampia convergenza delle forze parlamentari, atteso che non si tratta di adottare una semplice legge ordinaria ma di modificare la Carta fondamentale della Repubblica. In passato, il Parlamento, in diversi tentativi di riforma dell’impianto istituzionale, anziché usare la procedura ordinaria di revisione di cui al citato art. 138, ha preferito istituire degli organismi ad hoc, ossia delle commissioni parlamentari, a composizione bicamerale, i cui progetti di riforma non hanno mai visto la luce. Dopo il fallimento dell’ultima Bicamerale del 1997, quella presieduta dall’allora segretario del PDS Massimo D’Alema, tuttavia il Parlamento ha abbandonato il ricorso alle commissioni bicamerali, utilizzando invece la procedura ordinaria “secca” di revisione di cui all’articolo 138 citato: ciò è accaduto, ad esempio, con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 e con il progetto di riforma costituzionale del 2006, voluto dal Governo Berlusconi, ma non approvato dal referendum confermativo. Con il tramonto del metodo bicamerale, si è avuto, quindi, un progressivo abbandono della originaria e naturale posizione di neutralità ed un maggiore e più incisivo intervento del Governo nei processi di revisione costituzionale, il quale ha assunto sempre più il ruolo di propulsore principale del procedimento di revisione costituzionale.
L’attuale disegno di riforma costituzionale, per l’appunto, nasce da una proposta del Governo, il cui disegno di legge porta la firma del Presidente del Consiglio Matteo Renzi e del Ministro delle riforme Maria Elena Boschi. Da un un punto di vista costituzionale, nulla da eccepire, atteso che l’iniziativa legislativa del Governo non è esclusa nella procedura di revisione di cui all’art. 138. Tuttavia, la scelta del Governo e dell’attuale Parlamento di farsi carico di riformare la Costituzione lascia parecchio perplessi. In primo luogo, quello attuale non è un Governo con una diretta legittimazione popolare: vero è che il nostro attuale sistema parlamentare consente al Presidente della Repubblica di dare incarico per formare il Governo a chi abbia una maggioranza parlamentare; ma è pur vero, a Costituzione invariata, che nel nostro Paese, a partire dal 1994, le leggi elettorali hanno sempre indirizzato gli elettori a scegliere una coalizione di governo, il cui leader è stato poi chiamato a ricoprire il ruolo di Capo del Governo: il cd. Porcellum prevedeva addirittura che il partito o la coalizione indicassero all’atto di presentazione del simbolo e delle liste il relativo capo, proprio per sottolineare una quasi elezione o investitura popolare del futuro premier. Il Governo Renzi non è il Governo uscito dalle consultazioni politiche del 2013: quelle elezioni furono vinte sì dal centrosinistra, ma senza una maggioranza in Senato, tant’è che la situazione di empasse venne superata dall’allora Presidente Napolitano con la formazione di un governo di “larghe intese” , guidato da Enrico Letta, la cui maggioranza parlamentare era costituita da gran parte delle forze politiche presenti in Parlamento, sia di sinistra che di destra.
Il governo Renzi nacque con la caduta del “governo delle larghe intese” e si sostituì ad esso, con una nuova maggioranza parlamentare, non più ispirata al modello della “grande coalizione”, ma allargata a spezzoni che si erano staccati dalla destra: un Governo costituzionalmente legittimo, per carità, ma privo di una legittimazione popolare, e che nonostante ciò ha deciso di revisionare, stravolgendola, gran parte della Costituzione. Un secondo aspetto, riguarda poi l’attuale Parlamento, figlio di una legge elettorale, il già citato
Porcellum, che con sentenza 1/2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima. Può un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale ergersi a potere costituente? Possiede quella “coscienza costituente ” di cui parlava l’insigne Maestro Costantino Mortati?
Andiamo ora alla sostanza, nei suoi aspetti principali. In primo luogo, la riforma utilizza un linguaggio poco chiaro, eccessivamente tecnico e strapieno di continui rinvii ad altre norme. Basta leggere il nuovo articolo 70 Cost., che disciplina la potestà legislativa, per rendersene conto. Ciò premesso, il fulcro centrale della riforma è il superamento del bicameralismo perfetto, che i Padri costituenti vollero introdurre non per mero capriccio ma come elemento imprescindibile di democraticità di ciascuna legge. Il Governo ha voluto in questo modo tagliare o ridurre i costi della politica: una sola Camera eletta direttamente dai cittadini, mentre il Senato, la cui composizione scende dagli attuali 315 a 100 componenti, non sarà più eletto dai cittadini ma sarà espressione delle autonomie territoriali. Inoltre, esso interverrà nel procedimento legislativo solo per poche e specifiche leggi, indicate per rinvio dall’art. 70 cost., mentre tutte le altre leggi saranno approvate dalla sola Camera. Osserva, al riguardo, Ugo De Siervo, costituzionalista e presidente emerito della Corte Costituzionale: “perché non è stato abolito il Senato, questo deve essere ben chiaro; il Senato è stato depotenziato, è stato ridotto a fare meno cose. Una cosa grossa in meno fa, non da più la fiducia al governo che è un vantaggio per i governi il che non è né diabolico, né nulla, comunque è un vantaggio per i governi. Poi però per tenere in piedi questo organo gli hanno dato tanti altri pezzi di funzioni; un organo per avere legittimazione da una parte deve avere una rappresentatività e dall’altra delle funzioni; ecco, qui le funzioni erano debolucce; intanto c’era la revisione della Costituzione che è una cosa importantissima, e poi gli hanno aggiunto un po’ di competenze legislative piene, sedici materie. Dunque il Senato può votare leggi, queste sedici leggi possono passare solo con il consenso di Camera e Senato. Ma in questa riforma queste materie sono, come dire, un pot pourri, cioè prese un po’ da una parte un po’ dall’altra, soprattutto non toccano il punto decisivo; il punto decisivo sarebbe che il Senato dovrebbe avere più potere laddove si discute di articolazione periferica dello Stato, dove si parla di autonomie regionali e locali e invece quelle competenze non gli sono state date, tutto ciò che il Parlamento dovrà decidere sulle regioni viene deciso dalla Camera dei deputati con solo un parere del Senato. Il Senato decide sui trattati con l’Unione Europea, sulla legislazione fondamentale sugli enti locali, su Roma capitale e quant’altro, cioè su cose marginali relativamente meno importanti, soprattutto poco significative, se il Senato dovesse davvero garantire le regioni, che sono state al contempo molto depotenziate. Poi avrebbe delle fantastiche funzioni di controllo sul governo; però è strano un Senato che non dà più la fiducia al governo ma ne controlla l’operato. E qui c’è un po’ una scissione, una contraddizione”. ( intervista di Giovanni Floris al prof. Ugo De Siervo nel programma “Di Martedì” de “La 7” del 7 giugno 2016).
Se la ratio della riforma del bicameralismo perfetto era un risparmio economico, lo stesso risultato, e forse ancora meglio, si poteva ottenere mantenendo l’attuale bicameralismo perfetto, con alcuni correttivi limitativi della cd. navicella, ma riducendo i componenti della Camera dei deputati a 400 e i componenti del Senato a 100, per un totale di 500 parlamentari, a fronte degli attuali 730 previsti dalla riforma. Il superamento del bicameralismo perfetto prevede inoltre che il rapporto di fiducia esista solo tra la Camera dei Deputati ed il Governo. E fin qui, nulla di strano, rispetto anche ad altre esperienze costituzionali straniere. Solo che, in Italia, la legge elettorale della Camera dei Deputati, il cd. Italicum entrato in vigore il 1 luglio di quest’anno, prevede un sistema in cui i capilista sono bloccati e al partito vincitore, anche nell’eventuale turno di ballottaggio, è assicurato un premio di maggioranza tale da avere 340 deputati: in buona sostanza, il segretario del partito che vincerà le elezioni e che con elevata probabilità sarà chiamato a svolgere il ruolo di Capo del Governo, avrà scelto i capilista e quindi si ritroverà con una maggioranza parlamentare di suoi nominati, che difficilmente potranno sfiduciarlo.
L’impianto istituzionale che viene fuori dalla riforma, pertanto, rischia di creare un disequilibrio tra i poteri dello Stato, con un Governo in posizione di supremazia nei confronti del Parlamento e senza che sia stato previsto un controbilanciamento, ad esempio, delle garanzia costituzionali, attraverso il sistema del ricorso diretto alla Corte Costituzionale, così come accade in Germania o, ancora meglio, in Spagna attraverso l’istituto del ricorso d’amparo. Con l’ulteriore gravissima aggravante che i cittadini, che a novembre saranno chiamati ad esprimersi con il referendum confermativo, si troveranno davanti un quesito referendario che farà riferimento ad una legge di riforma titolata sul superamento del bicameralismo paritario e sui tagli dei costi della politica, quando, invece, la riforma inciderà pesantemente sull’attuale forma di governo, introducendo, nel silenzio dei più ma soprattutto senza dirlo chiaramente ai cittadini, un surrettizio premierato forte.
Infine, un aspetto curioso che riguarda la ratifica dei trattati internazionali: la riforma, infatti, crea una distinzione tra i trattati in generale ed in trattati che riguardano l’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea. Per i primi, la ratifica è autorizzata dalla sola Camera dei Deputati, mentre per i secondi la ratifica dovrà essere autorizzata da entrambe le Camere. Tale discrasia appare incomprensibile, soprattutto se si considera che le Regioni, di cui il Senato riformato dovrebbe essere la massima espressione di rappresentanza e coordinamento, a norma dell’art. 117 Cost,, anche nel testo novellato, provvedono a dare esecuzione ed attuazione non solo ai vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea ma anche ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
A cura di
Dott. Rosario Fiore, Cultore di diritto pubblico comparato e diritto internazionale all’Università degli Studi di Palermo
Dott. Gabriele Messina, Presidente IMESI