L’alleato statunitense e la ridefinizione del ruolo di Roma nell’arena internazionale
“Noi abbiamo bisogno di considerare che la parola guerra fredda non può stare nel vocabolario del terzo millennio. E’ fuori dalla storia, fuori dalla realtà ed è inutile. Noi abbiamo bisogno che Unione Europea e Federazione Russa tornino ad essere buoni vicini di casa. Russia e Europa condividono gli stessi valori”.
In questi termini si pronunciava il Presidente del Consiglio Matteo Renzi durante una visita di Stato a San Pietroburgo nella Russia di Putin il 17 Giugno 2016. Neanche un mese dopo, in occasione della “due giorni” del Consiglio Atlantico tenutosi a Varsavia l’8 e il 9 Luglio, lo stesso Premier italiano annuncia il dispiego di 150 militari che si uniranno alle unità già presenti di Germania, Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti ai confini dell’Alleanza Atlantica, vale a dire tra Polonia e Paesi Baltici, proprio in funzione anti-russa, dopo che Varsavia, Riga, Vilnius e Tallin, ormai da tempo, esprimono in coro forti preoccupazioni per le periodiche esercitazioni Russe al ridosso dei loro confini e le denunce relative ai continui sforamenti nei loro spazi aerei da parte di aerei da guerra di Mosca. Dal punto di vista militare la notizia non gode di elevata rilevanza, infatti l’invio di 150 militari in una zona strategicamente poco rilevante per gli interessi geopolitici italiani non desta preoccupazioni di sorta, ma dal punto di vista politico, in particolare riguardo ai rapporti tra il nostro paese e la Russia e tra il nostro paese e gli Stati Uniti, l’annuncio del Premier italiano diventa molto interessante e la mossa potrebbe avere ripercussioni politico-diplomatiche nei rapporti tra Roma e Mosca già adesso non certo idilliaci dopo l’imposizione delle sanzioni alla Russia (le cui conseguenze si sono rivelate opposte all’interesse nazionale italiano) all’indomani dell’annessione della Crimea nel Marzo 2014. Ad essere maliziosi, confrontando le parole con i fatti, verrebbe da pensare ad una storica tendenza tutta italica di voler stare con “due piedi in una scarpa”. Quello che sembra sempre più evidente è la completa adesione politico-militare dell’Italia agli interessi strategici degli Stati Uniti. Dopo la Guerra Fredda è successo in Iraq nel 2003, in Afghanistan dal 2001 in poi, in Libia nel 2011, fino ad arrivare all’invio di militari in una delle zone più calde e pericolose del pianeta: la diga di Mosul, o ancora, la possibilità di utilizzare la Sicilia come Portaerei fissa nel Mediterraneo per il decollo di Droni da guerra (gli aeroporti di Birgi, Sigonella e il Muos di Niscemi), oppure si pensi la recente decisione del Governo (10 luglio 2016) di accettare Fayiz Ahmad Yahia Suleiman all’interno dei confini nazionali.
Il caso merita un breve approfondimento
Suleiman è un presunto terrorista combattente catturato in Pakistan e trasferito negli USA, il quale figura come n°55 nella struttura di comando di Al-Qaeda, e per questo motivo proveniente direttamente dal campo di prigionia di Guantànamo, dove è stato prigioniero per 14 anni. La decisione è stata presa per facilitare il processo di chiusura della famosa struttura carceraria di massima sicurezza, promessa da Obama all’inizio della suo primo mandato alla Casa Bianca. Da Washington, infatti, arrivano parole di estrema gratitudine nei confronti del Governo italiano, che ufficialmente ha accettato di accogliere l’ex prigioniero per “motivi umanitari”. Ma pochi si sono soffermati sulla figura di Fayiz Ahmad Yahia Suleiman. Scavando più a fondo ben si comprendono i motivi della soddisfazione espressa oltre oceano nei confronti del nostro Paese, infatti Suleiman figura nelle schede segrete dei prigionieri di Guantànamo, poi rese pubbliche da WikiLeaks nel 2011, come soggetto altamente pericoloso, si legge infatti: «Valutiamo che il detenuto sia ad alto rischio», scriveva nel 2008 la Task Force incaricata di riesaminare la situazione dei singoli prigionieri, «perché è probabile che rappresenti una minaccia per gli Stati Uniti, per i loro interessi e per i loro alleati», ma mai appare il motivo per cui quest’uomo sia stato imprigionato: «Il file del detenuto», recita la scheda segreta, «non indica la ragione per cui è stato inviato a Guantanamo». Quindi non sembrano saperlo neanche le autorità statunitensi che infatti, nel 2009, hanno decretato il rilascio del detenuto ma per ben 7 anni non sono riuscite a trovare un Paese disposto ad accoglierlo; Ed è qui che troviamo le ragioni “umanitarie” dell’accoglienza dell’Italia: Suleiman infatti è un cittadino dello Yemen, paese attualmente devastato da una sanguinosa guerra civile e per questo motivo sarebbe illegale farlo tornare nel suo paese d’appartenenza. Ma siamo sicuri che questa decisione sia priva di rischi?
Cosa ci guadagna l’Italia dal totale allineamento alle politiche strategico-militari statunitensi?
Nel 2014 il Segretario di Stato USA John Kerry ha dichiarato: “Penso di poter riaffermare con chiarezza che l’Italia è uno dei più importanti alleati degli Stati Uniti. Possiamo dire sicuramente che la nostra alleanza non è mai stata più forte di come è in questo momento”, e lo diceva proprio nel periodo in cui l’Italia aveva offerto il Porto di Gioia Tauro come location per svolgere le pericolose operazioni di trasferimento delle armi nucleari siriane sulla nave Cape Ray. Dopo la recessione globale del 2008 l’Italia ha perso insieme alla stabilità economica e politica anche il proprio piccolo ruolo in campo internazionale. Oggi (negli ultimi anni) è evidente il tentativo di Roma di riaffacciarsi nell’arena politica globale seguendo una strategia a basso rischio (ma non per questo a basso costo), appoggiarsi all’alleato Statunitense, “il più forte” e (quindi) alla NATO e all’ONU. L’Italia infatti figura al 7° posto nella graduatoria dei contributori ONU con una spesa di 120.699.353 dollari, preceduta da Cina, Regno Unito, Francia, Germania, Giappone e al primo posto ovviamente gli Stati Uniti. Questi Paesi pagano in denaro ciò che non vogliono “pagare” mettendo a disposizione le vite dei propri soldati, ma non il nostro Paese che invece è il primo contributore di “caschi blu” tra i Paesi WEOG (Western European and Others Group) alle missioni di pace dell’Onu, ed è al settimo posto anche per i contributi al bilancio del peacekeeping con 105.561.525 milioni di dollari. In concomitanza con tutto ciò (non si intende di certo che il tutto sia correlato da una concatenazione diretta di causa-effetto), Roma può rivendicare dal 1° Novembre 2014, seppur indirettamente, la passata appartenenza dell’attuale Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini al Governo attualmente in Carica (Governo Renzi); l’Ufficiale comandante della Missione “EU NAVFOR MED” targata UE/NATO nel Mediterraneo è l’Ammiraglio italiano Enrico Credendino; inoltre Palazzo Chigi ha avuto l’opportunità di partecipare al tavolo di negoziazione per la Siria, rivelatosi quasi inutile, e tutt’ora mantiene una certa posizione di rilievo per quanto riguarda il futuro (sempre più incerto) della Libia, Paese in cui l’Italia ha fortissimi interessi economici in aperta concorrenza con Francesi ed Inglesi. Inoltre il Bel Paese si appresta anche a rientrare all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU come seggio non permanente dopo 8 anni di assenza e una intensa campagna elettorale condotta dal 2009 ad oggi proprio in virtù dei grandi contributi elargiti all’ONU, del grande impegno in teatri di peace keeping in tutto il mondo e della situazione contingente che l’Italia sta vivendo, per forza di cose, nel Mediterraneo delle guerre civili, dell’emergenza rifugiati e dei grandi flussi migratori con lo scopo di prevalere sugli altri due candidati, Svezia e Olanda, e per poter partecipare alla scrittura delle risoluzioni e acquisire quindi potere negoziale. Purtroppo però anche questa volta si tratta di una “vittoria incompleta”, infatti dei due anni che spetterebbero al vincitore delle elezioni, all’Italia ne spetterà solo uno (il 2017), mentre l’altro (il 2018) sarà ricoperto dall’Olanda, grazie ad un accordo tra i due paesi in virtù, si dice, dello spirito di cooperazione europea.
Conclusioni
Innegabilmente questi sono aspetti positivi che mettono l’Italia in una posizione, se non centrale, di sostanziale vicinanza a quelle che sono le arene della diplomazia internazionale dove si prendono le decisioni più importanti e dove si ha maggiore possibilità di far sentire la propria voce. Tuttavia non bisogna dimenticare dei prezzi che si pagano per certi “privilegi” e pensare che non sempre è oro tutto ciò che luccica. L’Italia ha sì una maggiore influenza nel Mediterraneo rispetto a qualche anno fa, ma di quale Mediterraneo parliamo? Oggi i Paesi del Sud che si affacciano sul Mare Nostrum formano una zona fortemente depressa, in cui alle difficoltà croniche causate da secoli di sfruttamento coloniale, si aggiunge oggi un’instabilità politica ed economica indotta dalle guerre e dalle azioni irresponsabili di molti paesi occidentali (le due cause spesso coincidono), annichilisce le grandi opportunità di crescita economica e culturale che sono storicamente e naturalmente appartenenti ai popoli che da secoli abitano le sponde del Mediterraneo. Non può e non deve abbandonarci l’idea e la convinzione che un’Italia protagonista in un Mediterraneo pacificato e politicamente stabile avrebbe un peso specifico completamente diverso rispetto ad un’Italia protagonista in un Mediterraneo di guerra, morte e distruzione.
Lorenzo Gagliano
Fonti:
Onuitalia.com
Public Library of US Diplomacy – WikiLeaks
Nuovi venti di guerra in Libia: il ruolo dell’Ue e dell’Italia – IMESI
Background – Italia-Usa, un rapporto speciale? – ISPI