Pochi giorni fa, il governo israeliano ha approvato all’unanimità la nomina di Avigdor Lieberman come nuovo Ministro della Difesa. Il voto è passato poi al parlamento, che nel tardo pomeriggio ha ratificato senza colpi di scena la scelta del premier Benjamin Netanyahu. Fino a pochi giorni prima, però, l’esito di questa partita politica sembrava tutt’altro che scontato. Venti di crisi all’interno della coalizione minacciavano le ennesime elezioni anticipate dopo poco più di un anno dall’ultima chiamata alle urne, nel marzo del 2015. L’accordo in extremis tra Bibi e Naftali Bennett, leader del partito di estrema destra HaBayit HaYehudi (“La Casa Ebraica”) e attuale Ministro dell’Educazione, ha scongiurato momentaneamente la caduta dell’esecutivo. Netanyahu può tirare un sospiro di sollievo, soprattutto dato che, con Lieberman alla Difesa, la maggioranza di governo si allarga da 61 a 66 seggi su un totale di 120. Ma come si è giunti alla nomina del leader di Yisrael Beitenu (“Israele, la nostra casa”, destra nazionalista e laica), uno dei più controversi personaggi dello spettro politico israeliano, già noto per le accuse di frode e abuso di potere che hanno portato alle sue dimissioni come capo della diplomazia di Tel Aviv nel 2012?
Lieberman, nato nell’attuale Moldavia e residente a Nokdim, una delle innumerevoli colonie della “Giudea” considerate illegali nel diritto internazionale, è famoso per le sue posizioni provocatorie nei confronti dei palestinesi e dei cittadini israeliani di etnia araba. La sua mediocre carriera militare – congedato con il grado di caporale dopo il periodo di leva obbligatoria – non può di certo averlo aiutato ad ottenere il Ministero più importante di tutta Israele. Saranno state forse la condanna per aver picchiato un ragazzino dodicenne, le affermazioni secondo le quali i cittadini che tradiscono lo stato ebraico dovrebbero essere decapitati, la proposta di una soluzione due stati con annesso scambio di villaggi e popolazione araba israeliana ad aver fatto colpo su Netanyahu?
Per dare risposta a un quesito pressoché incomprensibile, è necessario fare un vistoso passo indietro e cominciare dal principio. Il sistema politico israeliano, infatti, è uno dei più instabili al mondo, nei libri di testo spesso affiancato alla Quarta Repubblica Francese e all’Italia della Prima Repubblica. La breve parentesi neoparlamentare degli anni ’90 non ha risolto i problemi e nel 2001 la vecchia formula è stata ripristinata. L’ingovernabilità è in buona parte da attribuirsi al sistema elettorale proporzionale con il quale vengono ripartiti a livello nazionale i 120 seggi della Knesset, il parlamento unicamerale israeliano, in base a un’esigua soglia di sbarramento del 3.25%, alzata provvidenzialmente dal precedente 2% con l’obiettivo di ostacolare i partiti arabi. Pur garantendo rappresentanza alle tendenze politiche della complessa società israeliana, questa formula elettorale genera un risultato altrettanto complicato: maggioranze di governo risicate, ampie coalizioni di convenienza, potere di ricatto alle ali più estreme, etc. Non c’è da sorprendersi se, dopo essersi visto chiudere ogni possibilità di accordo con il centrosinistra dell’Unione Sionista, Netanyahu abbia cercato di allargare il suo sostegno a Yisrael Beitenu, riempiendo immediatamente il vuoto lasciato dal dimissionario Ministro della Difesa Moshe Ya’alon.
Nonostante Bibi sia il primo ministro con più anni di mandato dopo Ben Gurion, in effetti, la sua vita politica non è esente da traumi e terremoti. Negli ultimi mesi, l’insofferenza dell’establishment militare per il governo in carica è emersa con tutta la sua forza, tanto da costringere quotidiani e riviste come il New York Times e Foreign Affairs a dedicare articoli al nuovo ruolo di “moderatore“ ricoperto dalle IDF (Israel Defense Forces), che hanno iniziato ad agire come freno dei sentimenti populisti e guerrafondai incarnati da molti esponenti del governo, Netanyahu incluso, eccetto Ya’alon. Le divergenze con i militari sembrano in realtà avere avuto origine molto tempo fa, quando già nel 2012 Bibi fu scoraggiato dall’avviare qualsiasi campagna aerea contro gli stabilimenti nucleari iraniani. Nella calda estate del 2014 furono proprio lo Shabak e il Mossad (rispettivamente, i servizi di sicurezza interni e esterni) a opporsi alla guerra contro Hamas a Gaza. La rottura definitiva è arrivata infine nelle scorse settimane, quando il diciannovenne Sergente Elor Azaria ha freddato un giovane palestinese che aveva accoltellato un soldato poco prima mentre si trovava già a terra, neutralizzato. Le condanne dei vertici militari non hanno trovato eco nei rappresentanti dei partiti di maggioranza, che hanno invece espresso pubblicamente il loro supporto incondizionato al soldato e alla famiglia. Di lì in poi, la guerra di parole, interviste e dichiarazioni non si è interrotta: dapprima il vice capo di stato maggiore Yair Golan ha affermato di vedere alcune tendenze della Germania nazista nella Israele odierna, suscitando suscitando lo scalpore della destra. L’ormai ex Ministro della Difesa Ya’alon, sceso in campo per difendere la libertà di opinione anche per i militari, si è dimesso pochi giorni dopo. Nel suo discorso di addio, Ya’alon, uomo dell’IDF, ha citato la sfiducia nei confronti di Netanyahu e il rischio di “estremismi emergenti”. Anche l’ex primo ministro Ehud Barak è intervenuto nel dibattito sulla stessa lunghezza d’onda: “Israele è stata infettata dai semi del fascismo”, ha detto al quotidiano nazionale Haaretz.
È difficile capire come l’esercito riuscirà a digerire la nomina di Lieberman alla Difesa ed è difficile (e inutile) proporre previsioni sul futuro del conflitto con i palestinesi. È probabile che nei prossimi anni non ci siano svolte significative nella protratta storia di occupazione israeliana dei territori, indipendentemente da Lieberman. È comunque preoccupante che Netanyahu ceda al ricatto della destra ultranazionalista e le affidi il principale ministero pur di rimanere al potere. Quale sarà il prossimo passo, la premiership?