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TTIP e libero scambio: qual è il vero obiettivo del patto?
Continua la fase negoziale fra USA e Europa per concludere il TTIP. Le Trattative, iniziate nel giugno 2013, sembrano ora arenarsi. Obama ne sollecita l’approvazione ma non mancano le resistenze della Commissione europea: senza un’intesa entro la fine della presidenza Obama è destinato a slittare al 2020.
 
Ma andiamo per ordine: cos’è il TTIP? Il TTIP – “Transatlantic Trade and Investment Partnership”
mira al compimento di un’area di libero scambio tra i due blocchi daperseguire tramite la riduzione dei dazi doganali e la rimozione di talune “barriere non tariffarie”, « realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali».
Sulle tariffe è stato raggiunto un accordo per la liberalizzazione del 97% dei prodotti, lo stesso vale per i servizi. L’integrazione delle due economie creerebbe la più ampia area commerciale esistente (insieme rappresenterebbero circa un terzo del commercio globale). Inoltre,  secondo i dati del FMI, la somma del PIL di Stati Uniti e Unione Europea corrisponde al45 per cento circa del PIL mondiale. Tuttavia, si stima, in conseguenza della ratifica del patto, solo un aumento di circa lo 0,5 del PIL. Già più di due milioni di cittadini europei hanno firmato una petizione che chiede di bloccare le trattative.
La preoccupazione primaria è che il Ttpi abbassi gli standard di sicurezza, indebolendo norme sanitarie e ambientali previsti in Europa per venire incontro alle richieste degli Stati Uniti. Il governo statunitense, per esempio, chiede la rimozione del “principio di precauzione”, in virtù del quale un prodotto potenzialmente pericoloso può essere ritirato dal mercato se non è provato scientificamente che è sicuro (negli Usa vale il principio dell’evidenza scientifica: il
prodotto può essere venduto senza problemi fino a quando qualcuno, a proprie spese, non dia la dimostrazione scientifica della sua nocività). Ancora, si pensa di dare il via libera alle colture OGM. Appare chiaro che tutto ciò si configurerebbe come l’effetto di un compromesso che vede come controparte una potenza mondiale che è meno rigida su certi temi.
Unitarietà sui contenuti dell’accordo non vi è nemmeno da parte dei  governi europei: la Francia, che aveva ottenuto l’esclusione del settore audiovisivo dal trattato in nome dell’eccezione culturale, continua a mostrarsi diffidente. L’Italia, sebbene si dichiari favorevole all’intesa, invoca più precise condizioni di reciprocità, trasparenza, sicurezza alimentare e libero accesso al mercato pubblico. Ad oggi è comunque improbabile che si revochi o modifichi il mandato di trattare assegnato alla Commissione. Altra questione  irrisolta è il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (Investor-state dispute settlement, Isds). Il Trattato subordinerebbe gli stati democratici alle decisioni prese da tribunali privati, con la possibilità nell’ipotesi di condanna di un paese di ritirare la normativa in questione. Insomma, questo sistema non esclude possibili ricorsi pretestuosi da parte delle grandi multinazionali che obblighino i governi a rivedere le proprie normative in loro favore.
Greenpeace Olanda, proprio nei giorni scorsi,  ha pubblicato 240 pagine di documenti della trattativa (fino ad allora avvolta nella segretezza), rinnovando l’allarme sui pericoli per i consumatori delle due sponde dell’Atlantico. Il candidato presidente Bernie Sanders ha affermato che queste rivelazioni “dimostrano che l’accordo commerciale è diretto ad aumentare il potere delle banche di Wall Street. Il commercio è una cosa buona ma deve essere onesto”. L’idea di arrivare a una conclusione del Trattato entro il 2016 sembra quasi sfumata e le elezioni presidenziali USA ne rendono i confini ancora più incerti. Le parti prendono tempo, intanto l’opinione pubblica si mobilita.
Antonio Alfonso

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