La resistenza taciuta delle donne


La resistenza taciuta delle donne

Il 25 Aprile di ogni anno l’Italia ricorda uno dei momenti più importanti della sua storia, il momento in cui riuscì a liberarsi dall’occupazione straniera e dal giogo nazi-fascista nel contesto del secondo conflitto mondiale. La “Festa della Liberazione”, dichiarata festa nazionale con la legge 260/49, assume un valore fortemente simbolico: essa è festa del popolo italiano, un popolo che ha lottato strenuamente per difendere e riscattare la propria terra e che per questo si autocelebra. La liberazione rappresentò infatti l’acme dell’azione delle forze partigiane d’Italia, forze nate dal basso e forse per questo ancor più dirompenti. Proprio perché ne rappresenta l’acme, la liberazione non fu che una delle tappe di un lungo processo, un processo che continuò anche dopo la data, puramente convenzionale, del 25 Aprile, ma che soprattutto nacque assai prima di quel giorno, quando ancora un’Italia libera era solo un miraggio.
Non è un caso che si parli di guerra di liberazione o persino di “secondo risorgimento”, i cui protagonisti furono, come già accennato, i partigiani. Questa è la resistenza di cui tutti parlano, quella che viene ricordata costantemente e che assurge a esempio di valore e amor di patria; esiste tuttavia un’altra resistenza, una “resistenza taciuta”, una resistenza tutta al femminile. Oggi, a distanza di molti anni e in seguito ad una più attenta riflessione sul tema delle pari opportunità, il ruolo delle donne italiane nella lotta al nazi-fascismo è stato notevolmente rivalutato, alla luce anche delle innumerevoli testimonianze dirette raccolte da alcuni studiosi di questo periodo storico. Proprio su questo tema, inoltre, sono incentrati molti degli eventi di stampo culturale che si svolgeranno in tutta Italia nella giornata del 25: di questo si parlerà, ad esempio e in primis, a Torino, una delle città che, insieme a Milano, fu liberata proprio il 25 Aprile del 1945 e a Varallo Sesia, cittadina piemontese insignita della medaglia d’oro al valor militare, dove si recherà in visita il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che qui terrà peraltro il suo discorso ufficiale ai cittadini italiani. Di politica al femminile e lotta per i pari diritti si parla anche in vista dell’ormai vicino settantesimo anniversario dell’istituzione in Italia del suffragio universale, atto che consentì anche alle donne italiane, per la prima volta, di andare alle urne.
Parlare della resistenza come fenomeno anche femminile non vuole essere una manifestazione femminista fine a sé stessa, né vuole in qualche modo sminuire le azioni di tutti quegli uomini che difesero con valore la propria patria; può invece rivelarsi estremamente interessante capire come un evento storico di tale portata abbia fatto emergere chiaramente le differenze di genere secondo modalità assolutamente nuove e particolari. Per comprendere le prime iniziative delle donne in questo contesto non si può affatto prescindere dalla concezione, qui estremamente esemplificata, che della donna aveva reso manifesta la propaganda fascista: la donna, forte e sana, deve assicurare il rinnovo generazionale, dedicarsi alla cura della casa e della famiglia e rimettere il potere decisionale al proprio marito, il capofamiglia. A tal fine tra l’instaurazione del Fascismo e lo scoppio della guerra furono promulgate una serie di leggi assai limitanti della libertà femminile, prima fra tutte quella che riduceva al 10% le assunzioni femminili da parte dei datori di lavoro, senza che peraltro questa esigua percentuale di impiegate potesse accedere a ruoli dirigenziali, riservati unicamente agli impiegati di sesso maschile.
Dagli anni 40 in poi tuttavia, allo scoppio del conflitto, il regime dovette fare i conti con l’esodo maschile, che dalle proprie case condusse gli uomini al fronte e costrinse per forza di cose le donne a prendersi carico di responsabilità nuove, ora a livello familiare, ora a livello lavorativo: i provvedimenti legislativi varati fino a quel momento furono momentaneamente, e in via del tutto provvisoria, sospesi. Se da un lato dunque nuove libertà erano state concesse alle donne in linea teorica, la realtà offriva un’immagine assai triste della società, una società infiacchita e impoverita dalla guerra. Fu proprio la fame a creare le prime proteste, tutte femminili: gruppi di donne assaltavano, infatti, i camion del pane per dare da mangiare alle proprie famiglie o scendevano in piazza per protestare, come avvenne a Parma nell’Ottobre del 1941. Le prime iniziative politiche o pseudo tali della compagine femminile della popolazione italiana non nacquero dunque in virtù di rivendicazioni ideologiche, bensì per forza di cose, per far fronte a necessità pratiche.
Quando poi nel 1943 venne firmato l’armistizio le cause di forza maggiore rivelarono ancora una volta il volto femminile del processo di liberazione: alla sua firma infatti una folla di prigionieri e militari si riversò in Italia, trovando accoglienza presso le donne italiane, che aprirono loro le proprie case, offrendo alloggio e rifugio. L’aspetto forse più interessante di questi avvenimenti è la capacità propria di queste donne di rielaborare un modello educativo, loro imposto dal Fascismo, che le vedeva madri e mogli devote nonché regine del focolare, per asservirlo al contesto storico di necessità. Non a caso proprio a tal proposito, la storica Anna Bravo parlerà di “Maternage di massa”: le donne, infatti, si presero cura dei prigionieri come si sarebbero prese cura dei propri mariti e figli. Da qui il concetto, tanto caro agli storici, di Resistenza civile, la resistenza di chi combatte pur senza imbracciare il fucile.
La vera svolta, di tipo politico, avverrà via via negli anni successivi: dallo sciopero e i boicottaggi della produzione bellica nelle fabbriche, alla partecipazione attiva con i ruoli più disparati, dalla staffetta al capo di unità, tra le fila partigiane, all’adesione ai Gruppi di Azione partigiana o alle Squadre d’Azione partigiana, tutto farebbe pensare alla nascita di una sorta di “politica al femminile”, definita tale perché fatta da e per le donne. Conferma questa teoria l’intensa attività politica svolta dai Gruppi di difesa della donna fin dal 1943, in seno ai quali si discusse animatamente di progetti politici futuri, che permettessero alle donne di mantenere i diritti acquisiti anche dopo la fine della guerra. Eppure questo progetto restò in buona parte lettera morta; è vero che le donne ottennero una nuova consapevolezza della propria posizione all’interno della società, consapevolezza che peraltro permise loro di ottenere il diritto di voto solo qualche anno dopo, eppure per molto tempo il ribaltamento delle gerarchie verificatosi nel periodo bellico rimase ad esso strettamente confinato.
Alle fine dell’Aprile del 1945, infatti, quando tutto sembrava indicare l’inizio di un lento ma inesorabile ritorno alla normalità, con il Comitato di Liberazione Nazionale al potere in seguito alla resa tedesca e i partigiani che sfilavano acclamati per le principali strade delle città italiane, nessuna o quasi delle donne che avevano avuto un ruolo attivo nel periodo della resistenza fu vista sfilare per le strade. Erano presenti, è vero, ma la maggior parte di esse restò ai lati della strada, di nuovo mogli, madri, figlie e sorelle devote pronte ad acclamare i loro uomini vittoriosi. Perché, viene da chiedersi? Perché rischiare la vita, sopportando in alcuni casi torture atroci da parte del nemico, senza prendersene il merito? Non si tratta certo di virtù o di modestia. Semplicemente il Comitato di Liberazione Nazionale ritenne poco decoroso lasciare che le donne sfilassero insieme agli uomini, che ammettessero pubblicamente di aver passato tanto tempo con uomini combattenti, molti dei quali estranei o di aver accolto uomini che non fossero i propri mariti nelle loro case per proteggerli. E così dei circa due milioni di donne che ebbero un ruolo attivo nel processo di liberazione, solo uno sparuto gruppo poté prendersene i meriti. Eppure il circolo virtuoso dell’emancipazione era stato avviato, e non si è più fermato, sino ad oggi, 25 Aprile 2016, data in cui possiamo liberamente ricordare che la Liberazione è anche un po’ donna, donna come quelle che l’hanno resa possibile.
Alessia Girgenti

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