Perù: i riverberi del fujimorismo sull’esito delle elezioni
Il nome di Fujimori, in Perù, va pronunciato con circospezione. E la vittoria di Keiko al primo turno delle presidenziali, ha riesumato lo spettro del decennio (1990-2000) di democrazia pencolante, durante il mandato del padre Alberto. Alle elezioni del 10 Aprile, ad insidiare la candidatura della leader di Fuerza Popular, c’erano, tra tutti, i liberali del PKK di Pedro Pablo Kuczinski (con cui il duello si rinnoverà al ballottaggio del 5 Giugno), e il Frente amplio -coalizione dei partiti di sinistra- di Veronica Mendoza. Una campagna elettorale piuttosto sismica, ha preceduto il verdetto parziale delle urne. A tenere banco, sono state soprattutto tre questioni: la legge elettorale, parecchio ondivaga; l’esclusione di due candidati dalla corsa alla presidenza; la firma del ‘Compromiso de Honor’ di Keiko Fujimori.
Secondo la delegazione dell’Osservatorio elettorale dell’UE, nel primo caso l’anomalia è riconducibile alla modifica tardiva della legge sui criteri di accesso agli scranni parlamentari, promulgata a competizione elettorale già inoltrata. Nondimeno, carente di regolamenti attuativi, la norma ha dovuto essere applicata con ampi margini di discrezionalità dal ‘Jurado Nacional de las Elecciones’, il comitato istituzionale incaricato di vigilare sulla regolarità delle elezioni. Attenendosi ai dettami della Costituzione, tra il diritto di ogni partito di presentarsi alle elezioni e l’obbligo di rispettare le procedure democratiche per la selezione interna, questi ha dato rilevanza al secondo criterio. Da qui l’esclusione di Julio Guzman, e del partito “Todos por el Perù”.
L’accusa di voto di scambio, al contrario, è costata la candidatura a la “Aleancia para el progreso” di Cesar Acuña. Quanto al ‘Compromiso de Honor’, esso ha rappresentato il tentativo di schiodare l’elettorato più bigio, e dunque, di snellire il partito dell’astensionismo. Nello specifico, si tratta di un decalogo che la candidata si è impegnata a sottoscrivere. Il fine è di fugare ogni timore, solcando una linea di cesura tra la deriva autoritaria della decade di governo paterno e il suo potenziale mandato. Tra i punti: il rispetto della libertà di stampa e dei diritti umani, dell’ordine democratico e l’impegno per un’austera lotta alla corruzione. Mossa del tutto pantomimica secondo i più, per altri il documento funge da maquillage ad un programma politico piuttosto scarno. Tra i critici, difatti, alberga la convinzione che il documento abbia poco di suggestivo, e che glissi su questioni salienti. Non vi è alcun cenno, per esempio, ad un possibile divieto di concessione dell’amnistia al padre ex caudillo. D’altro canto, la marcia del 5 Aprile, anniversario della svolta golpista, rammenta che l’antifujimorismo è ben instillato nella coscienza civica. Non a torto. Lo stesso giorno di ventiquattro anni prima, nel 1992, Alberto Fujimori, attraverso una serie di misure legislative, divelleva via via le fondamenta democratiche della nazione.
Lo scenario politico, rievoca quello del Cile degli anni ‘70 di Pinochet, solo sfalsato di vent’anni. La minaccia dei gruppi guerriglieri di sinistra, l’autogolpe e la violazione sistematica dei diritti umani costituiscono l’esecrabile trait d’union tra i due contesti. Eletto nel 1990, sconfiggendo al ballottaggio lo scrittore Mario Vargas Llosa, Alberto Fujimori riuscì, pagando ingenti costi sociali, a ridurre l’iperinflazione che angariava il paese. Con risolutezza inusitata, mirò a neutralizzare il raggio d’azione del gruppo maoista ‘Sendero Luminoso’, promuovendo l’azione di gruppi paramilitari. La strage di la Cantuta, ed i massacri di Barrios Altos e di Santa perpetrati dal ‘Grupo Colina’, propaggine del servizio di intelligence nazionale, rientrano nella ratio del conflitto a bassa intensità. Scontratosi con l’opposizione del Congresso, l’allora presidente realizzò un autogolpe (o fujigolpe ), di fatto dissolvendolo, e sospendendo le attività della magistratura. Instaurò un ‘Governo di emergenza e ricostruzione nazionale’ per la lotta ai gruppi armati, erodendo, così, parte delle libertà civili garantite costituzionalmente.
L’anno successivo, nel 1993, promulgò una nuova Costituzione, che successivamente nel 1996 tentò di manomettere con la ‘Legge di Interpetazione Autentica’: un escamotage per rimuovere l’unica pastoia giuridica alla sua terza candidatura alle elezioni del 2000: il limite dei due mandati presidenziali. Sottoposto alla gogna dall’opinione pubblica per uno scandalo di corruttela, diede le dimissioni in circostanze inusuali. Dopo aver preso parte alla riunione della ‘Asia-Pacific Economic cooperation’, decise di non fare ritorno in Perù. La cortina di fumo attorno alle stragi andava dissolvendosi, e temeva responsabilità penali. Si trasferì dunque in Giappone, da dove rassegnò le dimissioni via fax. Su pressione anche di molte ONG, (Amnesty International nel 2001 pubblicò un reportage, richiedendone il riconoscimento delle responsabilità penali), l’ex capo di governo, nel 2009, venne condannato a 25 anni di prigione dalla Corte Suprema di Giustizia di Lima, una volta accertato il legame con il ‘Grupo Colina’. E dunque la connivenza ai massacri. La portata storica della sentenza è data dall’unicità dell’evento: per la prima volta un capo di stato venne processato dal proprio paese per violazione dei diritti umani. Come per la prima volta, ora, l’acrimonia verso la famiglia potrebbe essere sopita. Appuntamento al ballottaggio.
Federico Mazzara