Srebrenica, un sacrificio necessario
«Quante volte piangendo abbiamo detto le nostre ardenti preghiere per la pace? Se ne infischia la Morte della lacrima della ragazza, se ne infischia la Morte delle preghiere dell’uomo».
(Abdulah Sidran, Pianeta Sarajevo)
Alla fine il verdetto ha deluso sia le vittime che i carnefici. Radovan Karadžić è stato riconosciuto e condannato a 40 anni per almeno 10 capi d’accusa tra cui genocidio, persecuzione e sterminio per il massacro di Srebrenica. “Vergognosa e offensiva la condanna a 40 anni e non all’ergastolo” questa la dichiarazione di Vasvija Kadić, dell’associazione Madri di Srebrenica. Il presidente dell’Associazione dei veterani della Repubblica Serba, Milomir Savičić, ha invece definito il verdetto “ingiusto”. Oltre a Karadžić, ormai condannato, sono sotto processo anche il generale serbobosniaco Ratko Mladić, e i due principali responsabili dei servizi segreti serbi, Jovica Stanišić e Franko Simatović, per i quali la procura del Tpij ha richiesto la riapertura del procedimento dopo una prima sentenza di assoluzione. Ma cerchiamo di capire attraverso un’analisi, nei limiti del possibile, dettagliata i motivi di questa apparentemente ovvia polarizzazione, che in questi anni non ha fatto altro che allontanare le diverse narrazioni sugli anni ’90 in un paese in cui tutto è diviso. Durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina, nel ’95, la popolazione dell’enclave di Srebrenica era cresciuta in seguito all’afflusso di rifugiati che, per sfuggire alla “pulizia etnica” in corso in Bosnia orientale, erano giunti lì poiché la città era stata designata “zona protetta” dalle Nazioni Unite.
I caschi blu olandesi presiedevano la zona, quando le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Mladić, con l’appoggio del gruppo paramilitare degli “Scorpioni”, dopo un’assedio all’enclave durato tre anni entrarono a Srebrenica. I caschi blu olandesi decisero di non voler rischiare la vita per dei civili inermi. Uomini e ragazzi tra i 15 e i 77 anni vennero allora separati dalle donne e dai bambini, con “l’ausilio” delle truppe Onu, portati fuori città, fucilati e sepolti con delle ruspe in fosse comuni. Ci vollero 5 giorni per ucciderli tutti. « In Bosnia ed Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, poiché vi sono implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali e sulla Bosnia ed Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio. » (Kofi Annan, Report of the Secretary-General, p 503) Come è potuto succedere? Perché gli squadroni della morte serbobosniaci riuscirono ad uccidere più di ottomila persone in pochi giorni senza che nessuno li fermasse, e sotto il naso dei soldati delle Nazioni Unite ufficialmente tenuti a proteggere quelle vittime? Chi consegnò la “zona di sicurezza” di Srebrenica agli squadroni, e perché? Le critiche alla comunità internazionale incaricata di proteggere Srebrenica, sono state mosse principalmente nei confronti del generale Bernard Janvier, comandante delle forze delle Nazioni Unite nella regione, perché non ordinò i raid aerei che avrebbero potuto fermare l’avanzata serbobosniaca, mentre i caschi blu olandesi non solo stavano a guardare ma cacciavano via i civili che cercavano rifugio nel loro quartier generale. Da una ricerca su una gigantesca quantità di documenti, prove e testimonianze è emerso che la perdita di Srebrenica era prevista. Le tre potenze – Regno Unito, Stati Uniti e Francia – erano d’accordo nel raggiungimento di una pace a qualsiasi costo, la così detta endgame strategy. Sicuramente le tre potenze non erano consapevoli della portata del massacro, ma erano a conoscenza dell’intenzione dichiarata da Mladić di far “sparire completamente” la popolazione bosniaca musulmana dalla regione.
La Bosnia Erzegovina è stata una delle repubbliche federali della Jugoslavia socialista dal ’45 al ’92, abitata da bosniaci musulmani (44%) serbi (31%) e croati (17%) secondo l’ultimo censimento prima della guerra, che risale al 1991. Nella primavera del 1992, dopo che la Bosnia multietnica aveva votato per l’indipendenza dalla Jugoslavia, nel tentativo di costruire un mini stato etnicamente puro, le truppe serbobosniache scatenarono un’ondata di violenza infierendo particolarmente sulla Bosnia orientale. All’inizio di aprile scoppiò la guerra, che nelle prime fasi vide croati e musulmani combattere insieme contro i serbi. Il 5 aprile cominciò l’assedio di Sarajevo (appoggiato dal presidente jugoslavo Slobodan Milošević). Nell’ambito di quella che Karadzić chiamava “pulizia etnica” distrussero e incendiarono interi villaggi e uccisero o misero in fuga un’intera popolazione verso le tre enclave orientali in cui l’esercito repubblicano bosniaco riuscì a resistere: Srebrenica, Gorazde e Zepa. La popolazione di Srebrenica, a causa delle persecuzioni, era cresciuta da novemila a 42mila. L’ONU dichiarò “Siete sotto la protezione delle Nazioni Unite. Non vi abbandoneremo mai”. Una risoluzione approvata dalle Nazioni Unite nell’aprile del ’93 avrebbe dovuto “prevedere il ritiro dai territori occupati con l’uso della forza e attraverso la pulizia etnica” pena la “possibilità di un massacro che potrebbe costare 25mila vittime”, mentre Karadzić promise, e purtroppo mantenne, “sangue fino alle ginocchia”. Nel ’95 mentre l’ONU, l’Unione europea e i cinque paesi del gruppo di contatto (Francia, Regno Unito, Russia, Germania, Stati Uniti) contrattavano la pace, Srebrenica era ancora sotto assedio. Nello stesso anno il gruppo di contatto abbandonava la risoluzione contro la pulizia etnica, intanto Mladić, emetteva la Direttiva 7 che oltre a inasprire il “lento soffocamento delle enclave” ordinava azioni di combattimento per “incutere terrore”. In una nota della CIA, nel frattempo desecretata, le zone di sicurezza orientali erano definite “una spina di pesce nella gola dei serbi”.
Vent’anni dopo la fine della guerra
I serbi non accetteranno mai l’uso della parola “genocidio” come si vede dalle dichiarazioni del presidente dell’associazione serba dei veterani, Savičić. Eppure è questo il nome con il quale i bosniaci musulmani vogliono chiamare il massacro dei loro fratelli. Ed è proprio questo il motivo per cui, durante la cerimonia di commemorazione per il ventennale dalla strage, nel luglio 2015, alcuni musulmani bosniaci hanno cominciato a tirare sassi costringendo il servizio di sicurezza a trascinare via in fretta e furia il premier serbo Aleksandar Vucić. Si è trattato di un atto vergognoso quanto indicativo, per il quale le autorità musulmane bosniache si sono comunque scusate. Il conflitto si concluse con gli accordi presi a Dayton, in Ohio, e firmati a Parigi il 14 dicembre 1995. L’ordine politico costituzionale dello Stato di Bosnia ed Erzegovina, uscito fuori dall’Accordo di Dayton, si presenta come una bizzarra commistione tra stato unitario e decentramento amministrativo. Il paese è a sua volta diviso in due principali entità: la Federazione croatomusulmana e la Repubblica serba. Le criticità che lo Stato così istituzionalizzato presenta sono molteplici. Secondo la costituzione di Dayton il concetto di stato-nazione attribuito alla Bosnia ed Erzegovina è da considerarsi sotto un profilo “civico”. Se dovessimo però considerare il concetto di nazione nella sua interpretazione “classica” come una comunità di individui che condividono alcune caratteristiche comuni (lingua, territorio, storia tradizioni, etnia…), la Bosnia-Erzegovina non poteva e non doveva essere costituzionalmente concepita come una nazione, bensì come un aggregato di “etno-nazioni”. L’ipotesi delle etno-nazioni, nel lungo termine, avrebbero potuto evitare l’attuale critica alla Federazione nonché all’Accordo stesso. Movimenti nazionalisti croati criticano la Federazione, in quanto L’Accordo consentì ai serbi la costituzione di un’Entità-Stato Nazione, costringendo loro alla convivenza con i bosniaci musulmani.
La nuova costituzione bosniaca prevede che l’assegnazione della carica di presidente è valida solamente nel caso in cui “l’eletto” faccia parte dei “tre popoli costitutivi”: croati-cattolici, serbiortodossi e bosniaci-musulmani. Chi non fa parte di questi tre gruppi ( ebrei, rom, gli “jugoslavi” del censimento del 1991, gli appartenenti a matrimoni misti, ormai scomparsi assorbiti dalle etnie maggioritarie ecc) è escluso dalla politica attiva, salvo rinnegando la propria appartenenza etnico-religiosa. Dervo Sejdić, presidente della comunità rom, dichiara che i rom di Bosnia sono più di 100mila su 4 milioni di abitanti e per costituzione non posso essere rappresentati politicamente né a livello locale né nazionale, pur essendo presenti da secoli nella regione, anche prima dei popoli costitutivi. “Vogliamo solo le stesse opportunità” dichiara. Proprio alla luce di questi fatti, Dervo Sejdić (Rom) e Jakob Finci (Ebreo) fanno ricorso alla corte europea dei diritti dell’uomo. Nel 2009 il tribunale di Strasburgo, condanna la Bosnia per violazione dei principi di non discriminazione dei popoli. Secondo alcuni l’applicazione di tale sentenza potrebbe portare a nuove violenze nella regione. L’ultimo censimento (pilota) risale al 2013 e rivela che il 35% dei bosniaci si è dichiarato “altro”, né croato, né musulmano, né serbo. I risultati ufficiali non sono ancora stati pubblicati. Dopo la guerra si decise che i popoli costitutivi dovessero corrispondere alle etnie più numerose del paese, in base però al censimento del ’91, l’ultimo prima di quello del 2013. Pubblicare i dati del censimento “pilota” sarebbe come scoperchiare un vaso di Pandora. Saneva Besić, membro dell’Associazione di tutela dei diritti dei rom dichiara a TVSvizzera: “la separazione tra serbi, croati e musulmani è considerata normale da queste parti” e aggiunge, “a Mostar c’è una scuola in cui, nello stesso edificio, ci sono classi e ingressi separati per musulmani e croati”.
Anche il sistema scolastico è diviso, agli scolari è stata imposta la segregazione etnica, dei tre gruppi maggioritari, con un insegnamento altrettanto diversificato. Ed è chiaro quanto questo avveleni le nuove generazioni, negando a priori la possibilità di sviluppo del pensiero critico. Sembra di stare a parlare delle due Coree. Nazionalismo, cittadini discriminati, corruzione a tutti i livelli, disoccupazione giovanile al 60%. Dalle rivolte del febbraio 2014, questo è il cocktail socioeconomico ancora in voga. Si potrebbe pensare, data l’attuale situazione in Europa, che questa violenza “dormiente” possa essere tranquillamente sfruttata dal fondamentalismo islamico. Durante la guerra migliaia di mujahidin da Arabia Saudita, Afghanistan e Cecenia, hanno combattuto a fianco dei musulmani di Bosnia. Molti si sono stabiliti adottando un Islam radicale (wahabita), diverso dalla tradizione islamica locale. Ci sono comunità wahabite “chiuse”: Gornja Maocha, Potocanski, Kalesija, Znenica, Dubnica. Da qui, uomini e donne di tutte le età, per la maggior parte giovanissimi, partono per andare a combattere in Siria o i Iraq. Non vedono speranza per il loro futuro e il biglietto aereo viene acquistato per loro direttamente dalla Siria. Vogliamo abbandonarli un’altra volta al loro destino? I risultati, come hanno dimostrato Parigi prima e Bruxelles poi, non sembrano tanto promettenti.
Daniele Minore