Guantanamo: fine della storia?


Guantanamo: fine della storia?

 

Il 22 Febbraio, durante una conferenza stampa, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dichiarato di disporre di un piano, concordato con il Pentagono, per la chiusura definitiva della prigione di Guantanamo. La proposta non costituisce di certo una novità: già nel 2008, in piena campagna elettorale, e poi durante il primo mandato presidenziale, Obama aveva più volte affermato di voler prendere provvedimenti seri a riguardo e voci su questo piano circolavano già da quest’estate e si erano notevolmente intensificate con l’inizio del nuovo anno; alla chiusura della struttura, già auspicata anche da Bush e McCain, si è sempre opposto e continua tuttora ad opporsi il Congresso degli Stati Uniti, a maggioranza repubblicana, senza il consenso del quale non sarebbe possibile procedere. Forte di questa consapevolezza, Obama ha cercato di aggirare l’ostacolo cercando di ridurre, per quanto possibile, il numero dei detenuti, molti dei quali sono stati trasferiti in strutture detentive di altri paesi. Eppure, anche in questo caso, è stato necessario fare i conti con la volontà del Congresso che, nel 2010, ha votato affinché i detenuti trasferiti non potessero entrare negli Stati Uniti. Anche oggi, quindi, la chiusura di Guantanamo è pericolosamente vincolata dalle intenzioni del Congresso. I detenuti ancora presenti nella struttura, ad oggi 91, dovrebbero infatti essere smistati in strutture di altri paesi, tra cui anche gli Stati Uniti. (Il Pentagono avrebbe peraltro già segnalato una quindicina di strutture, alcune in Colorado, Kansas e South Carolina, altre all’interno di basi militari, che potrebbero accogliere i detenuti). Eppure se il divieto imposto nel 2010 non dovesse essere revocato, nulla di quanto proposto potrebbe andare a buon fine, a meno che Obama non decida di scavalcare il Congresso e procedere ad un trasferimento per decreto presidenziale, possibilità prevista dalla stessa Costituzione degli Stati Uniti. Oggi più che mai, giunto agli sgoccioli del suo secondo e ultimo mandato, il Presidente sembra risoluto nei propri propositi e convinto di dover agire: “Per molti anni è stato chiaro-ha affermato durante la conferenza stampa- che il centro di detenzione a Guantanamo non ha migliorato la sicurezza nazionale, al contrario l’ha indebolita. […] È controproducente per i nostri interessi nazionali perché viene usato dai jihadisti come propaganda per reclutare nuove forze”. Il timore di infiltrazioni jihadiste è però solo una delle ragioni che stanno alla base dell’iniziativa; altro fattore da non sottovalutare è quello economico: il mantenimento di Guantanamo costerebbe infatti, secondo quanto affermato da Obama, circa 445 milioni di dollari all’anno e il trasferimento dei detenuti in altre strutture statunitensi permetterebbe di risparmiare annualmente tra i 65 e gli 85 milioni di dollari. “Si tratta di chiudere un capitolo della nostra storia- ha poi aggiunto il Presidente-Rispecchia le lezioni che abbiamo imparato dall’ 11 Settembre, lezioni che devono guidare la nostra nazione in avanti”. Che oggi gli Stati Uniti siano in grado di trarre una lezione dall’11 Settembre è ancora tutto da vedere, considerato che è proprio in seguito ai fatti di quel tragico giorno, durante la presidenza Bush, che si decise di istituire il carcere di massima sicurezza di Guantanamo. Sorto in una base navale statunitense a Cuba, esso fu subito diviso in tre campi, finalizzati a raccogliere numerosi detenuti catturati durante il conflitto in Afghanistan o ritenuti collegati, più o meno direttamente, ad attività terroristiche. Fin dai primi anni di attività, i metodi detentivi operati a Guantanamo furono aspramente criticati, sia dagli attivisti in favore della tutela dei diritti umani che dalle autorità internazionali. Già nel 2002, infatti, l’alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Mary Robinson, aveva denunciato gravi violazioni perpetrate a danno dei detenuti; le critiche e le denunce sono state numerose nel corso degli anni e molte testimonianze sono state raccolte per cercare di far luce sui metodi di interrogatorio e detenzione. Ne è emerso un quadro desolante e degradante, caratterizzato da violenze fisiche e soprusi psicologici. Assai discusso è stato poi il caso, particolarmente spiacevole, dell’ex detenuto Mustafa al Aziz al Shamiri, recluso a Guantanamo per ben tredici anni perché confuso con un omonimo leader di Al Qaeda. Uno scambio di persona, quindi, un equivoco che, forse, tramite un giusto processo sarebbe venuto fuori molto prima; ma per i detenuti di Guantanamo la giustizia segue un iter ben diverso, che non prevede un giusto processo. I reclusi infatti non godono dello status di prigioniero di guerra e pertanto non possono godere delle tutele contenute nella Convenzione di Ginevra del 49. Neanche Cuba ha alcuna voce in capitolo su quanto avviene nella struttura detentiva: benché collocata in territorio cubano essa, in virtù dell’“Accordo tra gli Stati Uniti e Cuba per l’affitto di basi navali o per il rifornimento di carbone”, sorge in una zona, la Guantanamo Bay, la cui sovranità ultima spetta a Cuba, ma la cui giurisdizione e controllo spettano interamente agli Stati Uniti dal lontano 1903, data di inizio dell’occupazione statunitense. Neanche la giurisdizione ordinaria degli Stati Uniti però trova applicazionenella struttura detentiva di Guantanamo: con un’ordinanza presidenziale è stato  infatti stabilito che a giudicare i detenuti di Guantanamo dovessero essere delle particolari commissioni militari e non i tribunali ordinari, poiché i reclusi non potevano neanche essere considerati al pari dei detenuti per reati ordinari. Si è pertanto venuto a creare un percorso giudiziario parallelo, ma che si discosta quasi totalmente da quello ordinario e che quindi non tiene conto di quanto stabilito dalla Costituzione degli Stati Uniti o dalle norme di diritto internazionale. Lord Steyn parlò addirittura di un vero e proprio “buco nero legale”. A fare un po’ di chiarezza ha contribuito recentemente la Corte Suprema, che nel 2006 ha istituito la violazione alla Convenzione di Ginevra, e nel 2008 ha infine consentito ai detenuti di poter ricorrere dinanzi ai tribunali civili statunitensi per contestare la propria detenzione, dando vita a un’inversione di rotta importante rispetto al passato. La vicenda sembra essersi evoluta, nel corso degli anni, in una direzione ragionevolmente positiva. Adesso non si attende che l’ultimo atto, la chiusura definitiva di una struttura che incarna perfettamente tutta l’ambiguità della politica statunitense. Per il Presidente Obama sarebbe un importante traguardo, raggiunto peraltro proprio sul finire della sua permanenza alla Casa Bianca.
Alessia Girgenti 
Riferimenti bibliografici:

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