#Pensatopervoi
La rubrica settimanale con le nostre proposte
Attentato alla Storia
La storia è quanto di
più prezioso un popolo possa possedere; la storia conferisce identità, e per
questo trasmette un senso di profonda sicurezza, sicurezza nel fatto che,
benché all’uomo si possa togliere tutto, i beni materiali, la dignità, persino
la vita, la storia non cesserà mai di esistere. Proprio per ricordarsi
costantemente di avere un passato, e quindi una storia, gli uomini hanno dato
vita alla scrittura, all’arte, all’architettura, all’urbanistica; cosa sono
tutte queste discipline se non l’espressione del puro desiderio dell’uomo di
lasciare una traccia di sé, di lasciare una traccia nella storia? L’uomo ha un
immenso potere sulla storia e può accadere che intere città, dozzine di opere
d’arte, monumenti, libri vengano completamente distrutti perché, laddove la
morte dell’uomo non è sufficiente, deve subentrare la morte della storia. È
possibile dunque affermare che sia questo uno degli obiettivi dello Stato
Islamico? Le notizie di cronaca dell’ultimo periodo ci hanno mostrato
sanguinosi attentati, in cui hanno perso la vita o subito profonde ferite,
fisiche e non, numerosissimi civili. Non bisogna però dimenticare che,
parallelamente agli spargimenti di sangue, lo Stato Islamico sta mettendo
lentamente e inesorabilmente in atto un altro processo di distruzione, che ha
colpito numerosi monumenti, baluardi di una storia antichissima. Uno degli
ultimi eventi, che ha profondamente sconvolto gli archeologi, risale a non più
di un paio di mesi fa, quando l’Arco di trionfo romano di Palmira, la cui costruzione
viene fatta risalire all’incirca a duemila anni fa, è stato bombardato e raso
al suolo quasi completamente (il corpo centrale e i due archi laterali sono
andati irrimediabilmente distrutti). Già da diversi mesi la città di Palmira
era finita sul mirino dello Stato Islamico. Dopo essere stata occupata, nel
Maggio del 2015, la città era stata protagonista di numerosi attacchi, diretti
alla distruzione dell’intera area archeologica: dal tempio di Bel, alle tombe a
torre edificate nel primo secolo d.C., alle antiche torri funerarie dove
riposavano i resti delle famiglie più ricche dell’antica città. Tutto
distrutto, o quasi. Ciò che non è stato distrutto, come l’anfiteatro romano, è
divenuto luogo di sanguinose esecuzioni, prima fra tutte quella di Khaled
Assad, archeologo ottantaduenne, ormai ex responsabile del sito archeologico
della città, decapitato in pubblico e appeso a una colonna in una piazza nei
pressi delle rovine. Seppur in pensione da ormai una decina d’anni l’archeologo
si era personalmente impegnato nella tutela dei beni archeologici di Palmira,
arrivando persino a nascondere manufatti e altri oggetti per evitare che quella
parte di storia andasse irrimediabilmente distrutta. Eppure questo non è
bastato, e a Palmira, come a molte altre città vittime della stessa distruzione
(prima fra tutte Nimrud), viene sottratto ogni giorno un pezzo sempre più
importante di storia. “Palmira potrebbe scomparire- afferma Màmum Abdelkarim,
direttore generale siriano dell’Antichità e dei musei di Damasco- nel giro di
tre o quattro mesi se lo Stato Islamico continuerà la sua distruzione”. Al
momento della fondazione dello Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi era stato
molto chiaro sui principi che avrebbero fatto da pilastro all’azione dello stesso,
a cominciare dalla volontà di distruggere tutto ciò che potesse rappresentare
il periodo precedente alla rivelazione di Maometto, monumenti archeologici
compresi. Ancora una volta un richiamo a Maometto, da cui molti hanno tratto la
conclusione che un tale scempio potesse essere giustificato alla luce dell’iconoclastia;
e ancora una volta un’interpretazione assolutamente fuorviante dei principi
della religione islamica. “L’Islam è cultura, non barbarie.- ha affermato
l’autorevole studioso Nabil el Fattah- E l’arte ne è una parte fondamentale. I
criminali che hanno distrutto le statue al museo di Mosul e distrutto siti di
valore archeologico inestimabile in Iraq e Siria, non sono propugnatori di uno
scontro di civiltà, ma nemici della civiltà tout court, di quella islamica
innanzitutto”. Più che culturale o
religioso il movente si rivela fortemente strategico, indirizzato non solo a
una cancellazione totale del passato, ma anche all’esercizio di una forte
pressione di tipo psicologico sulle popolazioni locali che, oltre che della
propria storia, si vedono privati di una risorsa di guadagno come può essere un
sito archeologico celebre fra i turisti di tutto il mondo. Lo Stato Islamico,
d’altra parte, non è nuovo alle manipolazioni: dai messaggi nei social network,
alle esecuzioni filmate secondo una complessa regia, alla strumentalizzazione
dell’industria musicale, tutto pur di fare proselitismo. A monte di ogni
possibile motivazione, sta tuttavia un’abitudine, un’abitudine storica radicata
nell’uomo per cui la guerra comporta anche questo tipo di distruzione. La
storia, soprattutto quella moderna e contemporanea, è piena di esempi simili, a
partire dai grandi roghi di libri e opere d’arte allestiti nelle piazze di
tutte le città europee da parte dei nazisti, continuando con lo scempio da
parte di militari polacchi e americani nel sito archeologico di Babilonia, che
divenne ben presto una base militare, o l’assalto dei talebani ai Buddah di
Bamiyan in Afghanistan, fino ad arrivare a dei presunti raid russi sulla stessa
Palmira agli inizi di Novembre per scongiurare l’avanzata dello stato islamico.
La distruzione di un monumento passa
sempre troppo sotto silenzio, in parte perché la perdita di vite umane risulta
molto più grave e dolorosa e in parte perché il patrimonio culturale è
interesse di pochi e per gli altri non rappresenta una priorità. Una città come
Palmira, ad esempio, benchè dichiarata Bene protetto e Patrimonio dell’Umanità
dall’Unesco, non è riuscita a sfuggire alla distruzione, poiché la bellezza del
sito, pur essendo stata ampiamente riconosciuta, non è stata sottoposta ad
alcun tipo di tutela. Proprio l’Unesco, nata nel 1972 per tutelare il
patrimonio culturale e esaltare il valore di scienza e cultura, mostra in pieno
tutta l’ambiguità del rapporto tra cultura e istituzioni: essa si fonda infatti
su due principi fondamentali, ovvero la responsabilizzazione dello stato
territoriale da una parte, e la complementarietà dell’azione della comunità
internazionale dall’altra. Le due azioni, compenetrandosi, dovrebbero
assicurare una tutela effettiva ed efficace che però viene totalmente a mancare
dal momento che la Convenzione del 72 non prevede possibilità di intervento
attivo di tutela se non con il benestare dello stato territoriale, da cui
dipende in parte anche l’erogazione dei fondi necessari ad eventuali lavori di
recupero in casi di emergenza. Sicuramente da un punto di vista meramente
giuridico la strada da percorrere affinché il patrimonio culturale sia
sottoposto a una salvaguardia effettiva è ancora lunga; ma ancor più lunga da
percorrere è la strada che prevede la presa di coscienza, da parte degli
individui, della necessità di rispettare il patrimonio culturale in quanto
espressione diretta della storia dei popoli.
più prezioso un popolo possa possedere; la storia conferisce identità, e per
questo trasmette un senso di profonda sicurezza, sicurezza nel fatto che,
benché all’uomo si possa togliere tutto, i beni materiali, la dignità, persino
la vita, la storia non cesserà mai di esistere. Proprio per ricordarsi
costantemente di avere un passato, e quindi una storia, gli uomini hanno dato
vita alla scrittura, all’arte, all’architettura, all’urbanistica; cosa sono
tutte queste discipline se non l’espressione del puro desiderio dell’uomo di
lasciare una traccia di sé, di lasciare una traccia nella storia? L’uomo ha un
immenso potere sulla storia e può accadere che intere città, dozzine di opere
d’arte, monumenti, libri vengano completamente distrutti perché, laddove la
morte dell’uomo non è sufficiente, deve subentrare la morte della storia. È
possibile dunque affermare che sia questo uno degli obiettivi dello Stato
Islamico? Le notizie di cronaca dell’ultimo periodo ci hanno mostrato
sanguinosi attentati, in cui hanno perso la vita o subito profonde ferite,
fisiche e non, numerosissimi civili. Non bisogna però dimenticare che,
parallelamente agli spargimenti di sangue, lo Stato Islamico sta mettendo
lentamente e inesorabilmente in atto un altro processo di distruzione, che ha
colpito numerosi monumenti, baluardi di una storia antichissima. Uno degli
ultimi eventi, che ha profondamente sconvolto gli archeologi, risale a non più
di un paio di mesi fa, quando l’Arco di trionfo romano di Palmira, la cui costruzione
viene fatta risalire all’incirca a duemila anni fa, è stato bombardato e raso
al suolo quasi completamente (il corpo centrale e i due archi laterali sono
andati irrimediabilmente distrutti). Già da diversi mesi la città di Palmira
era finita sul mirino dello Stato Islamico. Dopo essere stata occupata, nel
Maggio del 2015, la città era stata protagonista di numerosi attacchi, diretti
alla distruzione dell’intera area archeologica: dal tempio di Bel, alle tombe a
torre edificate nel primo secolo d.C., alle antiche torri funerarie dove
riposavano i resti delle famiglie più ricche dell’antica città. Tutto
distrutto, o quasi. Ciò che non è stato distrutto, come l’anfiteatro romano, è
divenuto luogo di sanguinose esecuzioni, prima fra tutte quella di Khaled
Assad, archeologo ottantaduenne, ormai ex responsabile del sito archeologico
della città, decapitato in pubblico e appeso a una colonna in una piazza nei
pressi delle rovine. Seppur in pensione da ormai una decina d’anni l’archeologo
si era personalmente impegnato nella tutela dei beni archeologici di Palmira,
arrivando persino a nascondere manufatti e altri oggetti per evitare che quella
parte di storia andasse irrimediabilmente distrutta. Eppure questo non è
bastato, e a Palmira, come a molte altre città vittime della stessa distruzione
(prima fra tutte Nimrud), viene sottratto ogni giorno un pezzo sempre più
importante di storia. “Palmira potrebbe scomparire- afferma Màmum Abdelkarim,
direttore generale siriano dell’Antichità e dei musei di Damasco- nel giro di
tre o quattro mesi se lo Stato Islamico continuerà la sua distruzione”. Al
momento della fondazione dello Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi era stato
molto chiaro sui principi che avrebbero fatto da pilastro all’azione dello stesso,
a cominciare dalla volontà di distruggere tutto ciò che potesse rappresentare
il periodo precedente alla rivelazione di Maometto, monumenti archeologici
compresi. Ancora una volta un richiamo a Maometto, da cui molti hanno tratto la
conclusione che un tale scempio potesse essere giustificato alla luce dell’iconoclastia;
e ancora una volta un’interpretazione assolutamente fuorviante dei principi
della religione islamica. “L’Islam è cultura, non barbarie.- ha affermato
l’autorevole studioso Nabil el Fattah- E l’arte ne è una parte fondamentale. I
criminali che hanno distrutto le statue al museo di Mosul e distrutto siti di
valore archeologico inestimabile in Iraq e Siria, non sono propugnatori di uno
scontro di civiltà, ma nemici della civiltà tout court, di quella islamica
innanzitutto”. Più che culturale o
religioso il movente si rivela fortemente strategico, indirizzato non solo a
una cancellazione totale del passato, ma anche all’esercizio di una forte
pressione di tipo psicologico sulle popolazioni locali che, oltre che della
propria storia, si vedono privati di una risorsa di guadagno come può essere un
sito archeologico celebre fra i turisti di tutto il mondo. Lo Stato Islamico,
d’altra parte, non è nuovo alle manipolazioni: dai messaggi nei social network,
alle esecuzioni filmate secondo una complessa regia, alla strumentalizzazione
dell’industria musicale, tutto pur di fare proselitismo. A monte di ogni
possibile motivazione, sta tuttavia un’abitudine, un’abitudine storica radicata
nell’uomo per cui la guerra comporta anche questo tipo di distruzione. La
storia, soprattutto quella moderna e contemporanea, è piena di esempi simili, a
partire dai grandi roghi di libri e opere d’arte allestiti nelle piazze di
tutte le città europee da parte dei nazisti, continuando con lo scempio da
parte di militari polacchi e americani nel sito archeologico di Babilonia, che
divenne ben presto una base militare, o l’assalto dei talebani ai Buddah di
Bamiyan in Afghanistan, fino ad arrivare a dei presunti raid russi sulla stessa
Palmira agli inizi di Novembre per scongiurare l’avanzata dello stato islamico.
La distruzione di un monumento passa
sempre troppo sotto silenzio, in parte perché la perdita di vite umane risulta
molto più grave e dolorosa e in parte perché il patrimonio culturale è
interesse di pochi e per gli altri non rappresenta una priorità. Una città come
Palmira, ad esempio, benchè dichiarata Bene protetto e Patrimonio dell’Umanità
dall’Unesco, non è riuscita a sfuggire alla distruzione, poiché la bellezza del
sito, pur essendo stata ampiamente riconosciuta, non è stata sottoposta ad
alcun tipo di tutela. Proprio l’Unesco, nata nel 1972 per tutelare il
patrimonio culturale e esaltare il valore di scienza e cultura, mostra in pieno
tutta l’ambiguità del rapporto tra cultura e istituzioni: essa si fonda infatti
su due principi fondamentali, ovvero la responsabilizzazione dello stato
territoriale da una parte, e la complementarietà dell’azione della comunità
internazionale dall’altra. Le due azioni, compenetrandosi, dovrebbero
assicurare una tutela effettiva ed efficace che però viene totalmente a mancare
dal momento che la Convenzione del 72 non prevede possibilità di intervento
attivo di tutela se non con il benestare dello stato territoriale, da cui
dipende in parte anche l’erogazione dei fondi necessari ad eventuali lavori di
recupero in casi di emergenza. Sicuramente da un punto di vista meramente
giuridico la strada da percorrere affinché il patrimonio culturale sia
sottoposto a una salvaguardia effettiva è ancora lunga; ma ancor più lunga da
percorrere è la strada che prevede la presa di coscienza, da parte degli
individui, della necessità di rispettare il patrimonio culturale in quanto
espressione diretta della storia dei popoli.
Alessia Girgenti