Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni
solo in questi giorni la notizia della nomina dell’ambasciatore saudita Faisal bin Hassan Trad come presidente del Gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle
Nazioni Unite (Unhrc)
dopo un silenzio generale durato mesi, giustificato probabilmente dal
prevedibile imbarazzo derivante dalla presenza del regno Saudita in un organo
di primo piano nella difesa dei diritti umani. La nomina, in realtà, risale al
giugno scorso ma la notizia è stata divulgata solo
grazie all’ Ong indipendente UN Watch, che
ha individuato in un report dello scorso 17 settembre la nomina alla presidenza dell’ambasciatore
saudita.
Le ragioni dello scandalo:
Da quando la notizia è stata resa
di pubblico dominio, molte Ong hanno gridato allo scandalo denunciando il
palese conflitto d’interessi nella presidenza dell’Arabia Saudita all’interno
di un organo composto da soli cinque membri, il cui principale compito è la
nomina degli esperti incaricati di sorvegliare il rispetto dei diritti umani in
svariati paesi del mondo. Il Regno Saudita, infatti, è ultimo in tutte le classifiche sulla tutela dei diritti umani, eppure
oggi controlla ruoli chiave nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni
Unite.
Freedom House, organizzazione non governativa internazionale che conduce attività di
ricerca e sensibilizzazione su democrazia, libertà
politiche,
e diritti
umani,
nel suo report annuale dal titolo Freedom in the world, che
misura il grado di libertà civili e diritti politici garantiti in ciascun
paese, assegna all’Arabia Saudita il peggior punteggio possibile nelle varie categorie di valutazione
assegnandole lo Status di ‘’Paese non libero’’, classificandola nei grafici
sulle libertà nel mondo come il ‘’Peggio del Peggio’’.
in Arabia Saudita centinaia
di persone sono state condannate a
morte al termine di processi irregolari celebrati nell’ambito di un
sistema giudiziario profondamente carente, basato sulla shari’a e che
non prevede un codice penale. In
questo modo, la definizione dei reati e delle pene relative rimane vaga e
ampiamente lasciata all’interpretazione dei giudici. Il sistema concede
proprio a questi ultimi di usare il potere discrezionale nello stabilire le pene, col risultato
che si hanno sentenze contraddittorie e talvolta arbitrarie. Tra agosto 2014 e giugno
2015 sono state messe a morte almeno
175 persone, una media di un’esecuzione ogni due giorni. Lapidazione, impiccagione e decapitazione in pubblico sono i metodi di esecuzione più utilizzati.
La teoria del compromesso politico:
questa nomina densa di contraddizioni, è la volontà, da parte del blocco Occidentale
capeggiato dagli Stati Uniti, di assicurarsi l’appoggio incondizionato di Riyad
nell’instabile scenario mediorientale. Soprattutto dopo la distensione dei rapporti
tra gli USA e l’Iran (eterno rivale della Monarchia Saudita) sancita dagli
accordi sul nucleare del luglio scorso. Il regno Saudita è infatti per
l’Occidente non solo uno dei principali partner economici, ma anche un alleato
prezioso sul piano strategico per la gestione di crisi belliche come quelle in
Siria e in Yemen. Queste sono ipotesi verosimili che hanno come fine l’assetto
del delicato bilanciamento dei poteri nello scacchiere mediorientale e che
spiegano l’assordante silenzio di tutti quegli stati che pongono ai vertici
delle proprie agende politiche la difesa e la promozione delle libertà e dei
diritti degli esseri umani. Ma ciò che sicuramente si evince da questa vicenda
è il danno di immagine e di credibilità per un’istituzione come le Nazioni
Unite e i suoi organi che dovrebbero essere votati ai principi di garanzia e
imparzialità.