La riforma dell’esercito giapponese e la fine del pacifismo costituzionale


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 La riforma dell’esercito giapponese e la fine del pacifismo costituzionale

La delicatissima
questione della riforma delle Forze Armate giapponesi ha fatto si che la
comunità internazionale puntasse i riflettori sul Paese del Sol Levante. In un’esposizione
agli osservatori che dura fin dalla fine dello scorso giugno[1], il
Giappone ha lasciato presagire una svolta epocale, che è finalemnte arrivata
qualche ora prima dell’alba del 19 settembre, quando la Dieta ha approvato un
pacchetto di leggi che permettono all’esercito nipponico di operare all’estero.
È stato necessario un
iter legislativo lungo quattro mesi[2]
perché il Primo Ministro Shinzo Abe vedesse approvato tale pacchetto di leggi:
pur avendo una solida maggioranza nelle due Camere, il Primo Ministro ha dovuto
fronteggiare un ampio dissenso, manifestato non soltanto da parte
dell’opposizione, ma anche da parte di diverse associazioni di cittadini, le
quali, affermando la propria condanna della riforma, hanno dato voce alle  preoccupazioni 
per  il rischio  di un eccessivo coinvolgimento del proprio
Paese in futuri conflitti internazionali, 
ricordando le devastazioni causate dalla sconfitta durante la Seconda
Guerra Mondiale.  Dal canto suo, Abe ha
dichiarato che tale riforma sarebbe stata indispensabile per poter affrontare
possibili minacce provenienti dalla “nemesi” giapponese, la Cina.
Il pacifismo
costituzionale giapponese

A
prescindere dalle paure, più o meno fondate, del popolo giapponese, queste
norme sono tacciate di incostituzionalità in quanto violano l’articolo 9 della Nihonkoku
Kenpō,
la
Carta costituzionale giapponese. Il primo comma di tale articolo dichiara che
il Giappone rinuncia all’utilizzo della forza come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali, mentre il secondo, sancisce l’abolizione formale
delle forze armate e la perdita del diritto di belligeranza. L’articolo in
questione ha da sempre presentato notevoli problemi di interpretazione in
quanto in contrasto persino con i principi generali del diritto internazionale,
che consentono a qualunque Stato sovrano il diritto all’autodifesa; questi
dubbi crebbero nel 1951, quando Giappone e Stati Uniti ratificarono il Trattato
di Pace, attraverso cui veniva consentito agli Americani lo stazionamento di
alcune truppe e basi militari sul territorio nipponico, con l’espediente di
esercitare, a favore del Giappone, il diritto di autodifesa in caso di
aggressione. Inoltre, nel 1954, con un provvedimento della Dieta, vennero
istituite delle Forze di autodifesa giapponesi le quali, in buona sostanza,
presentavano una struttura tipica delle forze armate tradizionali, poiché
disponevano di truppe di terra, marina ed aviazione. Già in merito all’illegittimità
costituzionale di tali Forze vi era stato un primo dibattito, in cui alcuni
giuristi obiettarono che l’art. 9 non comportava affatto una rinuncia totale
alla guerra, bensì solo agli eventi bellici di aggressione[3].
La
svolta di Shinzo Abe: “L’autodifesa collettiva”
Nella
notte tra il 18 e il 19 settembre la Dieta ha approvato delle norme che
consentono la partecipazione dell’Esercito Nipponico a missioni militari in
territorio straniero e non semplicemente entro i confini nazionali, a supporto
degli alleati  (soprattutto
statunitensi), andando ben al di là, come abbiamo visto, dei limiti del dettato
costituzionale. Sarà possibile, dunque, una partecipazione diretta alle
missioni di pace dell’Onu più rischiose (e non solo con un ruolo marginale come
era avvenuto nel 2003 durante il conflitto iracheno), utilizzare propri mezzi
per intercettare missili balistici diretti contro alleati, nonché una
partecipazione a missioni per la liberazione di ostaggi di nazionalità
giapponese o alleata e persino intervenire in conflitti bellici in aiuto di
Paesi alleati qualora vi fossero implicazioni per la sicurezza nazionale. Del
resto Shinzo Abe già nel 2012 aveva promesso che sarebbe intervenuto per
modificare la Carta costituzionale nipponica, che come è noto fu imposta al suo
popolo dallo SCAP (Supreme Commander of
Allied Powers
) guidato dal generale statunitense MacArthur durante
l’occupazione del Giappone, all’indomani della sconfitta nella Seconda guerra
Mondiale.
In
questi settant’anni, però, i rapporti tra il Paese del Sol Levante e gli U.S.A.
sono mutati radicalmente: paese occupato e paese occupante sono diventati
strettissimi alleati, soprattutto nel mantenere l’egemonia nel continente
asiatico e fronteggiare le potenze “rosse”, Russia e Cina. Ed è proprio contro
la Repubblica Popolare Cinese che il Giappone ha in atto un lungo conflitto in
merito alla sovranità di alcune minuscole isole, ma dall’enorme valore
strategico, le isole Senkaku/Diaoyu.
E
siffatta scelta belligerante del premier Shinzo Abe sancirà sicuramente una svolta
nella politica estera del Paese nei confronti del colosso cinese, ma, come
ritengono i suoi stessi connazionali, si tratterà di una svolta verso il
conflitto armato?

Francesco Sasso


[1] Japan’s
Proposed National Security Legislation — Will This Be the End of Article 9? 国家安全保障基本法案 九条の終焉か in “The
Asia-Pacific Journal, Vol. 13, Issue. 24, No. 3, June 22, 2015”.

[2] Il Gabinetto del Governo Abe
sottoscrisse questo pacchetto di legge da presentare alle due camere il 15
Maggio.
[3] Gianmaria Ajani, Andrea
Serafino, Marina Timoteo, Diritto
dell’Asia orientale
, Utet Giuridica, Torino, 2007,
pp.161-164.

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