Dove va il mondo arabo?


LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Dove va il mondo arabo?

a cura del Prof. Paolo Branca, Università Cattolica del Sacro Cuore




Se Eric Hobsbawm ha potuto definire il XX° come un secolo
‘breve’ per l’Occidente – ridotto dal 1914 (inizio della I Guerra Mondiale) al
1991 (crollo del sistema sovietico) – un’analoga e ancor più drastica
compressione temporale potrebbe essere ipotizzata per il Mondo Arabo, tra la
firma del trattato Sykes-Picot (1916) e la bruciante sconfitta nella Guerra dei
Sei giorni (1967). Come ogni periodizzazione, si tratta ovviamente di qualcosa
di discutibile, e in questo caso forse persino di paradossale, se non altro per
il dimezzamento del tempo storico. Ma il ciclo del nazionalismo arabo e delle
sue immediate propaggini post-coloniali e ‘rivoluzionarie’ ha compiuto
effettivamente un arco significativo tra queste due date e gli eventi ad esse
collegati, in entrambi  i casi
negativi  e legati alla sua natura
‘retorica’.  Il ‘tradimento’ delle
aspettative degli alleati Arabi da parte anglo-francese fu reso possibile da
una situazione sul campo assai distante dalle ancora immature rivendicazioni
‘nazionali’ delle aree interessate, mentre la disfatta contro Israele è andata
di pari passo con l’ipertrofia di un discorso altisonante ma scarsamente
radicato nella realtà socio-istituzionale. Allargando tuttavia lo spettro
temporale per ricomprendervi la straordinaria rinascita (Nahda) culturale Araba
prodottasi tra ‘800 e ‘900 e giungendo fino alle recenti Primavere Arabe, sia
dal punto di vista intellettuale che da quello popolare, il bilancio delle
realizzazioni compiute e delle energie in campo muta radicalmente e si emancipa
dalle ristrettezze della fase inevitabilmente più ideologica del fenomeno. Il
cosiddetto ‘Islam politico’, estraneo sia allo spirito della Nahda che a quella
delle Primavere, non a caso mostra proprio ora tutti i suoi limiti, perché
incapace di ricollegare almeno idealmente, ma soprattutto in prospettiva, due
momenti salienti – uno più progettuale e l’altro più vitalistico o, se si
vuole, un contenuto e le sue possibili forme – della storia moderna di
quest’area: immensa orchestra che ancora attende di poter eseguire la propria
Opera magistrale.
IL RISVEGLIO
Nell’800 e
nella prima parte del ‘900, come gran parte dei paesi dell’Asia e dell’Africa,
anche quelli arabo-islamici hanno vissuto l’intensa stagione della loro
emancipazione politica. Il concetto stesso di nazionalismo, oltre alle forme
assunte nella maggior parte dei casi dai movimenti che se ne fecero portavoce,
era un prodotto del pensiero occidentale moderno. La sua affermazione presso
popoli abituati a concepire i rapporti tra etnia, lingua e stato in altri
termini non fu quindi del tutto priva di problemi. Nel mondo musulmano in
particolare, dove l’appartenenza all’unica Umma
si fondava essenzialmente su basi religiose, per un certo periodo l’ideale
panislamico costituì un’alternativa alla penetrazione del nazionalismo. Non a
caso i maggiori esponenti del radicalismo islamico hanno spesso richiamato la
sostanziale incompatibilità tra nazionalismo e islam: “Il musulmano non ha
altra patria che quella in cui vige la Legge di Dio (sharî`a) e dove i
legami tra lui e gli altri sono fondati sulla base della dipendenza da Dio,
egli non ha altra nazionalità che la sua fede, la quale lo rende membro della Umma
musulmana, all’interno della Dimora dell’islam (Dâr al-Islâm) ed egli
non ha parentela che quella che deriva dalla fede e che rende lui e i suoi
parte di un’unica famiglia in Dio”[1]. Nonostante
ciò il nazionalismo finì per avere fortuna anche nei paesi islamici per diverse
ragioni. Intere aree avevano infatti conservato nel corso dei secoli una
propria specificità nella quale sussistevano molti elementi che potevano essere
interpretati come costitutivi di una peculiare identità nazionale. Inoltre, con
il progressivo indebolimento del potere centrale si era assistito alla
rinascita di tradizioni letterarie e culturali locali che, pur non mettendo in
discussione l’adesione alla Umma, rappresentavano la manifestazione più
recente dell’antica insofferenza nei confronti vuoi di un’arabizzazione mai
definitivamente compiuta (come nel caso dei persiani o dei berberi), vuoi
dell’egemonia di una determinata etnia all’interno della Umma stessa (come nel caso degli arabi nei confronti dei turchi).
Essendo infine parte integrante della cultura di quei paesi europei che stavano
progressivamente mostrando la loro potenza e imponendo la propria egemonia sul
resto del mondo, il nazionalismo sembrava il mezzo più adatto sia per mettersi
alla scuola dell’Occidente nella speranza di colmare il distacco accumulato
negli ultimi secoli, sia per affrontarlo in prospettiva sul suo stesso terreno.
Le concezioni e gli ideali propri del nazionalismo hanno così fatto il loro
ingresso anche nel mondo arabo e musulmano e sono stati paradossalmente tanto
più assimilati da ciascun paese quanto maggiormente esso ha dovuto penare per
vederli riconosciuti e realizzati grazie a un’aspra lotta per ottenere
l’indipendenza proprio da quanti avevano contribuito a far conoscere e a
diffondere quegli stessi concetti e ideali. L’ambiguità del rapporto con
l’Occidente, ritenuto nello stesso tempo un modello e un ostacolo, ha origine
appunto in questo paradosso, pur essendosi arricchita di altri fattori nel
corso delle fasi successive. Queste ultime a loro volta non sarebbero
comprensibili se non si tenesse conto del fatto che, per quanto innovativi, gli
elementi provenienti dalla cultura occidentale non furono in grado di scalzare
del tutto quelli tradizionali, né seppero amalgamarsi con essi in una sintesi
compiuta, sovrapponendovisi piuttosto come un’ulteriore stratificazione tutto
sommato piuttosto precaria.
La priorità
dell’obiettivo della conquista dell’indipendenza fece sì che comunque la
contraddizione restasse latente per un certo periodo, ma preso o tardi sarebbe
risultato evidente che il nazionalismo comportava necessariamente anche una
certa dose di laicizzazione: “poiché rappresenta un tentativo di separare
l’islam dalla politica, escludendolo dalle questioni temporali. Esso postula la
separazione tra religione e politica, tra religione e stato, o comunque nega
all’islam la centralità del suo ruolo nella gestione degli affari politici
terreni dei musulmani”[2]. Il fatto
che tanti arabi cristiani abbiano contribuito alla fortuna di questo movimento
parrebbe dimostrare che, almeno ai loro occhi, le nuove opportunità offerte da
una comunità nazionale basata su criteri non confessionali non doveva sfuggire.
Anche i movimenti islamici aderirono alla lotta anticoloniale, ma non avrebbero
tardato a prendere le distanze dalle classi dirigenti che, all’indomani
dell’indipendenza, dimostrarono il carattere laico dell’ideologia che le aveva
portate alla vittoria. Si deve inoltre tener conto che, per quanto epica ed
esaltante, la lotta di liberazione nazionale aveva ottenuto risultati soltanto
parziali. Occorreva infatti renderla sostanziale con scelte che garantissero
l’emancipazione economica, senza la quale quella politica sarebbe restata
puramente formale, così come restavano irrisolte altre delicatissime questioni:
il nazionalismo che aveva avuto ragione dei colonialisti non aveva paradossalmente
allo stesso tempo legittimato proprio quelle entità territoriali che essi
avevano creato spartendosi le spoglie dell’Impero Ottomano in vista dei loro
interessi? Quali istanze avrebbero dovuto avere la precedenza nella politica
dei nuovi stati indipendenti? Quelle che miravano al superamento di una
condizione di frammentazione giudicata comunque innaturale con opzioni in
chiave panarabista o addirittura panislamica? Oppure ulteriori autonomie
avrebbero dovuto essere concesse a quei raggruppamenti che non avevano ancora
goduto dei benefici della battaglia indipendentista (etnie, come berberi e
curdi, o comunità religiose come drusi e maroniti)? In tal modo, come i
movimenti islamici non avevano potuto non aderire alle campagne nazionaliste
pur rifiutandone l’ideologia, dopo l’indipendenza i governi dei nuovi stati,
nonostante la loro più o meno esplicitamente dichiarata laicità, si trovarono a
fare appello all’islam come fattore di legittimazione e di coesione più
efficace e sicuro di altri di fronte alla complessità e alla delicatezza della
situazione che dovevano affrontare. Tra le numerose ed annose questioni che
travagliano questa parte del mondo alcune sono veramente emblematiche: le
incertezze e le incoerenze dell’appoggio fornito ai palestinesi dai loro
“fratelli” arabi, ad esempio, sono forse la dimostrazione più
dolorosa e lampante delle contraddizioni irrisolte dell’ideologia nazionalista
la quale non a caso sarebbe entrata definitivamente in crisi proprio dopo la
cocente sconfitta del ’67. Mentre accumulava insuccessi e manteneva ambiguità
irrisolte il nazionalismo perdeva progressivamente anche la sua maggior fonte
di legittimazione: il prestigio di aver conquistato l’indipendenza. Se per gli
adulti infatti quest’ultimo restava intatto, le nuove generazioni, non avendo
memoria diretta di quegli eventi, avrebbero sentito maggiormente la delusione
per le loro speranze disattese che la soddisfazione per i successi riportati,
ormai troppo lontani nel tempo. L’importanza della stagione nazionalista non va
però troppo ridimensionata, poiché sembra conservare comunque un valore non del
tutto svilito. Non a caso gli esponenti dell’attuale radicalismo islamico si
affannano molto di più nel contestare il valore del nazionalismo che non nel
criticare le concezioni più tipiche della fase successiva, ossia quella
rivoluzionaria. Quest’ultima infatti non ha interessato tutti i paesi
arabo-musulmani, ma soltanto una parte di essi, è stata inoltre più breve e ha
avuto un carattere più intellettuale ed elitario. D’altra parte, come l’ultimo
scorcio del XX secolo sembra aver dimostrato con fin troppa evidenza anche in
altre aree del mondo, tra le ideologie che lo hanno caratterizzato quella
nazionalista non sembra la più indebolita, ma anzi quella capace di trarre alimento
dalla crisi delle altre che appare molto più rovinosa e inarrestabile.
UNA
RINASCITA ‘ABORTITA’
Le tendenze
che ancor oggi si manifestano all’interno del mondo arabo non sono che le
espressioni più recenti di un vasto processo di rinascita che si è prodotto
negli ultimi due secoli. Tale Risorgimento (Nahda)
sta alla base di tutte le correnti che si sono successivamente sviluppate,
anche di quelle che, a un primo esame, sembrerebbero escludersi a vicenda.
Proprio nelle ambiguità e nella polivalenza delle premesse poste durante la
prima fase di questo “risveglio”, trovano infatti un’unica origine
tanto le posizioni di quanti sostengono la necessità di un sostanziale
rinnovamento mediante l’emancipazione dalla tradizione anche su punti delicati
ed essenziali, quanto quelle di coloro che, al contrario, di quella stessa
tradizione intendono riproporre contenuti e forme, rifiutando ogni altro
modello e concependo la “riforma” più come un “ripristino”
di quanto è stato accantonato o inadeguatamente applicato che come un effettivo
cambiamento, ambivalenza peraltro riscontrabile in ogni movimento modernista. La stagione
più dinamica e creativa del pensiero musulmano coincise con i primi secoli del
Califfato quando, in concomitanza con la sua grande espansione militare,
l’islam seppe creare sintesi di ampio respiro tra i suoi valori e l’eredità
delle tradizioni culturali che andava via via inglobando. Terminata questa
fase, già prima dell’abbattimento degli Abbasidi da parte dei Mongoli nel 1258,
si era assistito a un progressivo impoverimento ed irrigidimento dottrinale che
accompagnò l’islam fino alle soglie dell’era moderna, con uno sviluppo inverso
rispetto a quello conosciuto dall’Occidente cristiano.I primi segnali di
rinnovamento si possono rintracciare già nel XVIII secolo, con l’anticipazione
di alcune tematiche che sarebbero state riproposte sistematicamente dal
successivo riformismo islamico. Ricordiamo a questo proposito il movimento dei
Wahhabiti, fondato in Arabia da Muhammad ibn `Abd al-Wahhâb (1703-1792),
esponente di un puritanesimo intransigente teso a riportare l’islam alla sua
formulazione originaria, liberandolo da principi e pratiche di origine spuria
che ne avevano alterato la purezza e indebolito la forza. La fortuna
del Wahhabismo si deve alla sua alleanza con l’emergente dinastia saudita, ma
al di fuori dell’Arabia la sua influenza fu assai limitata. La necessità di
riformare l’islam riportandolo alle origini e la contestazione di alcune parti
delle dottrine e delle pratiche tradizionali anticiparono comunque alcune tesi
che successivamente avrebbero avuto grande fortuna. Qualcosa di analogo avvenne
più o meno nello stesso periodo in Cirenaica, con il movimento dei Senussi.
All’opposto dei Wahhabiti costoro non erano ostili alle pratiche mistiche, ma
si organizzarono addirittura come una specie di confraternita. Il loro fine era
tuttavia simile a quello dei puritani d’Arabia: essi infatti si proponevano di
riprendere lo stile di vita austero e devoto dei primi credenti e rifuggivano
l’esempio dei musulmani occidentalizzati che avevano abbandonato le antiche
tradizioni e l’autentica dottrina islamica. Una
trasformazione più profonda e generalizzata in grado di investire formulazioni
dottrinali classiche e radicate tradizioni si ebbe però soltanto quando il più
diretto confronto e scontro con l’Occidente, non più limitato soltanto o
principalmente alla sfera politico-militare, condusse a una drammatica svolta.
Si prese coscienza della necessità di acquisire nuove conoscenze e tecniche
moderne, di rinnovare apparati e istituzioni e di sollevarsi dalla
“stagnazione” (jumûd) che
caratterizzava la vita culturale, ma ciò avvenne come d’improvviso e non al
termine di un graduale processo evolutivo, quando la decadenza dell’Impero
Ottomano e la politica espansionista delle potenze europee costrinsero i paesi
arabo-musulmani a prender coscienza del loro “ritardo” in molti
settori e dell’urgenza di porvi rimedio. La data che viene solitamente indicata
come punto di partenza di questo processo è quella del 1798, corrispondente
alla campagna di Bonaparte in Egitto. In realtà già l’Impero Ottomano aveva
introdotto significative novità (come la stampa, nel 1727, e – a metà dello
stesso secolo – la riforma dell’esercito) ma non si può negare che tale
processo fu stimolato ed accelerato dalla presenza francese in Egitto e che
esso continuò ad opera dei governanti e degli intellettuali locali anche dopo
che quella ebbe fine. Il desiderio
di acquisire le conoscenze e le tecniche che assicuravano ai paesi europei la
superiorità determinò, negli anni successivi, l’invio da parte dei governatori
d’Egitto a cominciare dal celebre Muhammad `Alî (1769-1849) di apposite
missioni di studio che non limitarono il proprio interesse alle scienze, ma si
appassionarono all’insieme della cultura occidentale e, una volta tornate in
patria, furono determinati nella promozione di innovativi istituti di
formazione, destinati a creare la futura classe dirigente alla quale furono
offerti in arabo non soltanto manuali di studio, ma anche opere filosofiche e
letterarie dei maggiori autori europei. Inestimabile fu il contributo dato in
questo senso da un’apposita commissione presieduta da Rifâ`a al-Tahtâwî
(1801-1873) il quale tradusse dal francese autori come Voltaire, Montesquieu e
Fénelon e che ci ha lasciato un interessantissimo diario del suo lungo
soggiorno parigino (1826-1831). In particolare egli si pose il problema della
lingua, che doveva adeguarsi alla funzione di strumento di comunicazione di
massa e dotarsi di un lessico rinnovato e di una struttura più elastica per
poter esprimere nuove realtà. Il problema linguistico non si limitava alla pur
centrale questione della diglossia (vale a dire la differenza tra la lingua
scritta, rimasta fedele alle regole dell’arabo classico, e quella parlata) ma
investiva altri importanti temi quali quello dell’evoluzione lessicale,
avvertito con particolare acutezza da intellettuali di doppia formazione, come
Salâma Mûsâ (1887-1958) che scrisse: “Non so come indicare in arabo i
mobili che arredano la mia stanza, mentre non ho difficoltà a farlo in
inglese”[3]. L’argomento
non era del tutto nuovo, già al-Tahtâwî ne aveva trattato, sollevando anche
delicati interrogativi sugli aspetti strutturali della lingua come veicolo
efficace di trasmissione e di sviluppo del pensiero. Dalla
consapevolezza teorica del problema si passò in seguito a nuove esperienze nel
campo letterario. Ben lungi dal ridursi a un mero problema di aggiornamento
lessicale, la questione metteva in discussione le stesse modalità tradizionali
dell’argomentare: “L’incontro con l’Occidente moderno non ha determinato
solamente un indispensabile arricchimento della terminologia nell’arabo e nelle
lingue circostanti; era lo stesso modo canonico di esprimere il pensiero –
affidato alla concatenazione di proposizioni scarsamente subordinate e mal
disciplinato all’infuori della speculazione teologica e filosofica – che
necessitava terribilmente di una riorganizzazione interna e di una sintassi più
stringente per poter riflettere il mondo delle idee dell’Occidente moderno. Le
difficoltà nel tradurre opere storiche o sociologiche in arabo non sono per
esempio ancora state risolte, e ciò è dovuto non tanto a lacune lessicali
quanto ad aspetti stilistici propri delle lingue occidentali che tendono a
sfuggire alla sintassi araba”[4]. Così, una
lingua famosa per la ricchezza dei sinonimi e che ne vanterebbe 500 per ‘leone’
e addirittura 1000 per ‘spada’ si trovò improvvisamente “povera” di fronte a
nuove realtà. Tale aggettivo fu adoperato per qualificarla dal libanese Ibrâhîm
al-Yâzijî sulle colonne di Hadîqat al-akhbâr (2/12/1858), dove si
premurò di aggiungere: “Se qualcuno trovasse tale definizione saccente od
offensiva verso l’intelligenza degli arabi, provi a prendersi la briga di
tradurre il discorso di un membro del Parlamento britannico o ancor meglio
provi a rendere in arabo il resoconto di una seduta, un pezzo sul teatro
europeo, un saggio politico, una relazione commerciale e così via. Si troverebbe
ad ogni frase come di fronte a una voragine dalla quale non potrebbe risalire
se non con acrobazie linguistiche che lascerebbero sconcertato e in dubbio ogni
lettore”. Si posero
così le basi per la nascita di quell’arabo letterario “medio” che
ancora oggi è utilizzato nella stampa quotidiana, nei libri e nelle riviste. Il
ruolo dei giornali e della pubblicistica fu fondamentale nella sua genesi e
nella sua evoluzionealla quale diedero un contributo inestimabile anche alcuni
intellettuali cristiani, quali il linguista e lessicografo Butrus al-Bustânî
(1819-1883) del Syrian Protestant College (fondato nel 1866 e divenuto nel 1919
l’American University di Beirut), il poligrafo Jurjî Zaydân (1861-1914), il
poeta e pittore Khalîl Jubrân (1883-1931) (il Kahlil Gibran noto in occidente
soprattutto per la celebre opera in versi Il Profeta, composta però in
lingua inglese), lo scrittore Mikha’îl Nu`ayma (1889-1988) che, grazie al
rapporto privilegiato che univa la Chiesa ortodossa libanese alla Russia, poté
attingere anche alla tradizione slava, oltre che a quella anglosassone, e gli
scientisti libanesi, tra i quali Farah Antûn (1874-1922), influenzato da autori
quali B. de Saint-Pierre o A. Comte e traduttore di E. Renan e F. Nietzsche. Non meno significative
furono le trasformazioni nel settore giuridico, dove modelli di stampo
occidentale cominciarono a influire sulla codificazione del diritto,
emancipandolo largamente dalle forme e dalle disposizioni tradizionali mediante
un “processo di acculturazione che nel campo del diritto si è
prevalentemente manifestato con la ricezione di modelli normativi
stranieri”[5] già evidente
nelle riforme avviate da Adbul Majîd I (1839-1861) nell’Impero Ottomano, le
celebri Tanzîmât. Nel Maghreb, e più precisamente in Tunisia, si adoperò
in tal senso particolarmente lo statista Khayr al-Dîn (1820-1889) il quale si
avvide che l’acquisizione di tecniche e strumenti di guerra più aggiornati e
perfezionati non avrebbe potuto garantire alla lunga l’indipendenza e lo
sviluppo dei paesi arabo-musulmani se non fosse andata di pari passo con una
radicale revisione del potere autocratico dei loro principi e con l’evoluzione
delle istituzioni e delle finanze pubbliche sul modello dei moderni stati
europei[6]. L’apertura
alle suggestioni del pensiero europeo, in questi e in altri settori, fu in un
primo tempo entusiastica e incondizionata, ma la fase ricettiva non poteva
durare a lungo in modo acritico, non soltanto a motivo del rischio di perdita
d’identità che un simile processo comportava, ma anche a causa degli
avvenimenti politici che vedevano nella politica di aggressione coloniale
dell’Occidente il principale ostacolo sulla strada della realizzazione di
quegli stessi ideali che il contatto con la cultura europea aveva contribuito a
diffondere. Le tematiche del risveglio culturale, il recupero della propria
tradizione, nella quale l’islam giocava un ruolo di primo piano, e l’anelito al
riscatto politico presero dunque a muoversi di pari passo. Ciò è
evidente già in Jamâl al-Dîn al-Afghânî (1838-1897), ispiratore di gran parte
delle correnti innovative del pensiero musulmano moderno. Il grave stato di
decadenza in cui versavano i paesi musulmani – a suo parere – non soltanto non
era degno del loro glorioso passato, ma neppure conforme allo spirito genuino
dell’islam che vede nel successo anche temporale un segno della propria
autenticità e della benevolenza divina. Riprendendo una celebre affermazione
coranica secondo la quale “Iddio non cambia il favore di cui ha favorito
un popolo fin quando essi non cambiano quel che hanno in cuore” (VIII, 53;
XIII, 11) al-Afghânî si fece impietoso censore di quegli atteggiamenti che avevano
reso i musulmani corresponsabili della crisi che li affliggeva. L’ignoranza e
la pedissequa imitazione della tradizione nelle sue formulazioni più tarde e
decadenti; le divisioni interne alla Comunità che opponevano le une alle altre
sette ed etnie chiamate invece ad essere solidali in nome della fede comune; il
carattere dispotico del potere della maggior parte dei principi musulmani e la
loro inclinazione verso le più opportunistiche alleanze furono oggetto della
sua critica; ma non meno deciso e combattivo egli si dimostrò nel prendere le
difese dell’islam nei confronti dei suoi detrattori. Ribattendo alla tesi
espressa da Ernest Renan nella celebre conferenza tenuta alla Sorbona nel 1883
secondo la quale l’islam sarebbe “la negazione della scienza”
al-Afghânî diede l’avvio a un filone apologetico destinato a svilupparsi
enormemente negli anni successivi e che tenderà a dimostrare non soltanto la
perfetta compatibilità tra scienza e fede, ma addirittura la superiorità
dell’islam rispetto alle altre religioni quanto ad apertura verso le esigenze
della razionalità, imputando i mali di cui il mondo musulmano soffriva
anzitutto a un’incompleta o non corretta adesione agli ideali della propria
fede da parte dei suoi stessi seguaci. Se da un lato
si avvertiva dunque la necessità di svincolarsi dagli aspetti statici del
pensiero religioso tradizionale e di una più generale maturazione, dall’altro
cresceva la consapevolezza che proprio esso – benché diversamente interpretato
– poteva fornire quegli elementi di continuità che garantissero la
conservazione della propria identità in un momento di tanto vaste e radicali
trasformazioni. Qualcosa di simile allo spirito della Riforma protestante si
può rintracciare nel pensiero di al-Afghânî, il quale sosteneva la necessità di
un contatto diretto con l’autorità della Scrittura (il Corano), senza fermarsi
all’interpretazione tradizionale. Di qui la condanna dello spirito di
“imitazione” (taqlîd) e
l’invito a riaprire la “porta dell’ijtihâd“,
cioè dello “sforzo interpretativo” indebitamente interrotto ormai da
molti secoli. Alcuni temi teologici, come quello del rapporto fede-opere e
quindi la questione della predestinazione, così come fenomeni religiosi di
rilevo, quali quello delle confraternite mistiche molto diffuse a livello popolare,
venivano implicitamente messi in discussione da questo nuovo modo di vedere le
cose. Chi sviluppò
in tal senso lo spirito del riformismo musulmano fu soprattutto il dotto
egiziano Muhammad `Abduh (1849-1905). Dopo una formazione tradizionale e il fondamentale
incontro con al-Afghânî, di cui fu stretto collaboratore durante un breve
esilio parigino, `Abduh si dedicò completamente agli studi e all’insegnamento.
Ebbe così occasione di dare un importante contributo al rinnovamento del
pensiero religioso islamico. Soprattutto nel suo celebre trattato teologico Risâlat
al-tawhîd
(Epistola sull’unicità divina) egli riprese lo spirito
dell’antica scuola mu`tazilita (IX secolo) che si era adoperata per armonizzare
su basi razionali il sapere scientifico – allora rappresentato dall’eredità
della filosofia classica – e quello religioso. Nel pensiero di `Abduh l’accordo
tra ragione e fede, lungi dal ridursi a un semplice argomento apologetico, sta
alla base di un nuovo rapporto tra natura e rivelazione, con importanti
conseguenze sul piano etico. Accordando all’uomo la capacità di conoscere da sé
alcune fondamentali verità, prima che la rivelazione venga a completarle, egli
ammetteva l’esistenza di una morale naturale, indispensabile alla rivalutazione
della responsabilità individuale e contraria a ogni tendenza fatalista. Anche
sul piano pratico `Abduh si distinse per iniziative coraggiose, come le riforme
che propose per la moschea-università di al-Azhar relativamente sia ai
contenuti degli insegnamenti (introduzione dello studio delle lingue straniere
e di materie scientifiche) sia all’organizzazione della vita degli studenti
(didattica, sussidi, alloggi…), e contribuendo coi suoi insegnamenti alla
formazione di una nuova generazione di intellettuali destinati a giocare un
ruolo di rilievo nelle future vicende del mondo arabo musulmano. Dopo la sua
scomparsa, il movimento che a lui si rifaceva venne guidato dal siriano Rashîd
Ridâ (1865-1935) e prese il nome di Salafiyya[7], con
riferimento alle “prime generazioni” (salaf) di seguaci del
Profeta che più fedelmente ne avevano seguito l’esempio attuando gli
insegnamenti dell’islam. Questa stessa ambigua denominazione rivela come
progressivamente, all’impulso realmente innovativo, si andava affiancando e
talvolta sostituendo la tendenza a ripristinare l’islam nelle sue forme
originarie, privilegiando il filone apologetico e revivalista che fu proprio
anche dei primi movimenti islamici radicali, sorti appunto in quegli stessi
anni, come quello dei Fratelli Musulmani.
LA RIVINCITA
DI ALLAH
Da quanto si
è detto fin qui emerge con chiarezza che sarebbe indebito considerare la
religione un elemento ininfluente o marginale nel confronto in atto, benché si
debba tener conto della complessità e della contraddittorietà delle motivazioni
che portano il “discorso religioso” ad imporsi prepotentemente sulla
scena.
I paesi arabi
e, più in generale, l’intero mondo musulmano sembrano interessati da una
progressiva crescita e affermazione di correnti e movimenti che puntano
decisamente all’islamizzazione integrale della società, proponendo questa
opzione come l’unica in grado si risolvere, insieme ai molti problemi che
affliggono questa parte del mondo, la sua stessa crisi di identità e di
rispondere all’ansia di riscatto che la pervade. Così facendo essi pretendono
di riproporre semplicemente il giusto rapporto tra religione e politica che
l’islam implicherebbe necessariamente e che sarebbe stato alla base della
straordinaria espansione e fioritura dei secoli d’oro della civiltà musulmana.
Fino a che punto questa ideologia si riallaccia effettivamente alla tradizione
islamica e in che misura è invece una sua reinterpretazione funzionale a
situazioni recenti e contingenti? Parole d’ordine e strategie dei gruppi che se
ne fanno promotori appartengono veramente a un presunto modello islamico
originario o riproducono in chiave religiosa qualcosa di analogo a quanto fino
a poco tempo fa apparteneva ai movimenti di tipo nazionalista o rivoluzionario?
Perché queste due ultime impostazioni, sino a ieri prevalenti, sembrano
inesorabilmente entrate in crisi e quali sono i motivi della grande fortuna
incontrata dal radicalismo musulmano che ne ha preso il posto? L’opzione
islamica radicale è solamente una tra le varie possibili. Se così non fosse, dovremmo
accettare l’idea che i musulmani siano “per loro natura” e “necessariamente”
aggressivi e intolleranti, il che contrasta con il modus vivendi che essi hanno saputo quasi sempre – e in tempi non
sospetti – trovare con altre fedi e culture, come è riconosciuto anche dagli
studiosi solitamente meno ‘teneri’ nei confronti dell’islam: “Nella storia
islamica non c’è nulla di paragonabile all’emancipazione, accettazione e
integrazione di dei credenti di altre fedi e dei non credenti avvenuta in
Occidente; ma parimenti non c’è nulla di paragonabile all’espulsione degli
ebrei e dei musulmani dalla Spagna, all’Inquisizione, agli autodafé, alle
guerre di religione, per non parlare di più recenti crimini commessi o lasciati
commettere. Ci furono casi di persecuzione, ma rari ed eccezionali. Entro certi
limiti e a certe condizioni, i governi islamici erano disposti a tollerare
l’osservanza, anche se non la diffusione, di altre religioni monoteistiche
rivelate. Hanno superato anche una prova più difficile, quella di tollerare
forme devianti della loro stessa religione. Perfino i politeisti, benché in
teoria condannati dalla legge a scegliere fra conversione e schiavitù, furono
in pratica tollerati quando il dominio islamico si estese alla maggior parte
dell’India. Solo i miscredenti totali – gli agnostici o gli atei – erano al di
là dei limiti della tolleranza, ma anche la loro espulsione veniva imposta solo
quando il reato diventava pubblico e motivo di scandalo. Lo stesso criterio era
applicato nel tollerare le forme devianti dell’Islam”[8]. E’
soprattutto oggi che, con il crescente numero di musulmani che il fenomeno
delle migrazioni sta portando tra noi, essi sono percepiti con timore, come
portatori di una visione del mondo antitetica e incompatibile rispetto a quella
che siamo abituati a considerare tipica della modernità e universalmente
valida. Dietro questa
posizione si cela un insidioso rischio dal quale, se non altro per motivi di
convenienza, sarebbe bene guardarsi. Considerare infatti i musulmani un blocco
monolitico sotto il vessillo del fondamentalismo significherebbe dare a
quest’ultimo l’immeritato titolo di rappresentante legittimo e ufficiale
dell’intero islam. E’ esattamente ciò a cui punta, e in ciò potrebbero
favorirlo proprio contrapposizioni frontali che finirebbero per indurre un
compattamento del fronte musulmano. Che l’opzione
islamica radicale sia presente, abbia numerosi esponenti o simpatizzanti e che
sia per molti aspetti temibile non lo si può certo negare ed lo riconoscono
anzi anche alcuni autori musulmani: “In effetti, oggi l’islam fa paura. E’
innegabile. […] Ma si tratta di qualcosa di fatale, di un destino
ineluttabile? […] Il problema che sta di fronte al musulmano non è facile.
Alle note difficoltà legate allo sviluppo si aggiunge il peso della tradizione
e la pervasività della religione. Per superare o evitare l’ostacolo, molte
formule sono state proposte e tentate. Alcune ammettono come postulato che
l’islam sia un universo chiuso. Altre implicano l’inevitabilità dello
sradicamento culturale. Lo sforzo maggiore è quello di coloro che rifiutano
tali posizioni estreme tentando, da oltre un secolo, di realizzare una
modernizzazione che non comporti né uno sradicamento, né l’isolamento dai
propri simili. Se l’islam può darsi oggi un senso, di che altro si tratterà se
non quello di realizzare una più ampia comunicazione tra gli uomini? Ogni
autentico musulmano crede infatti che la sua religione si rivolge all’intero
genere umano e che vale per ogni tempo e per ogni luogo. La sfida che gli
lancia il mondo moderno è semplicemente quella di provarlo”. [9] Non
apprezzare la peculiarità del presente momento storico e delle espressioni
dell’islam che in esso si producono potrebbe condurre sia a una loro inadeguata
o errata comprensione sia alla diffusione di una visione distorta dell’islam in
quanto tale. Contro quest’ultima tendenza vanno in particolare gli sforzi di
quanti, all’interno e all’esterno dell’islam, sottolineano le profonde
differenze tra le attuali manifestazioni di questa religione e la sua Grande
Tradizione[10]. Se tuttavia
la pretesa che i movimenti musulmani radicali non siano altro che l’espressione
diretta e quasi inevitabile dei presupposti stessi della fede islamica va
rifiutata, il problema non può essere liquidato semplicemente rifugiandosi
nella facile e illusoria consolazione offerta dall’immagine di un islam
“classico” aperto e tollerante. Anche coloro che quest’ultimo
giustamente evocano e ripropongono, notano opportunamente che uno scivolamento
verso posizioni radicali non si è avuto soltanto in alcuni movimenti, ma nelle
stesse istituzioni islamiche tradizionali: O. Carré parla espressamente di una
“orthodossia deviante”[11] e N. H. Abû
Zayd denuncia la sostanziale identità del “discorso religioso”
sostenuto dai cosiddetti moderati (mu`tadilûn) non meno che dagli estremisti
(mutatarrifûn). In conclusione si può constatare che le entità nazionali
costituitesi dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano hanno progressivamente
sempre più dovuto misurarsi con una ‘legittimazione religiosa’, mentre
accumulavano ritardi e fallimenti sul piano politico e sociale, anche e forse
soprattutto perché il soffocamento di ogni dibattito interno imposto da regimi
dittatoriali prevalentemente ‘laici’ ha paradossalmente favorito la
contestazione islamista come unica possibilità di opposizione efficace, per
quanto demagogica, al proprio assolutismo.
A VOLTE
RITORNANO
Nel 1924,
dopo la sconfitta nella I guerra mondiale e la nascita della repubblica di
Turchia, sia il Sultanato che il Califfato vennero aboliti anche e
definitivamente ‘de iure’. I tempi erano infatti maturi per sanzionare ciò che
di fatto era ormai una realtà, tant’è vero che già l’anno successivo usciva in
Egitto un pamphlet destinato a far scalpore.  Si tratta di al-Islâm wa usûl al-hukm (L’islam e le basi del potere) di `Alî
`Abd al-Râziq nel quale si sosteneva la necessità di introdurre una netta
distinzione tra religione e politica poiché, secondo l’autore, la confusione
tra i due campi è stata voluta dai detentori del potere soltanto in funzione
dei loro propri interessi. Nel Corano e nell’insegnamento del Profeta non vi
sarebbero infatti elementi sufficienti per sostenere che l’Islam porti
necessariamente con sé una determinata organizzazione della società con una
specifica forma di potere. L’opera, accanto a qualche consenso, suscitò
soprattutto violente critiche e compromise la carriera dell’autore. Seguiva a
ruota il corposo saggio di A. Sanhouri, Le Califat. Son Evolution vers une
Societé des Nations Orientale
, (Paris, Librairie Orientaliste P. Geuthner
1926) che rimproverava l’autore precedente di aver confuso la legittimità
dell’istituto califfale con l’indegnità di chi l’ha talvolta assunto, ma
soprattutto di pretendere di applicare al passato le concezioni contemporanee
di ‘religione’ e ‘stato’, limitandosi a cercare nella storia ciò che potesse
sostenere le sue tesi piuttosto che studiarla per com’è realmente stata e da
tale analisi ricavare conclusioni fondate. A sua volta, tuttavia, Sanhouri
terminava con una meno velleitaria proposta di restaurare l’appena defunta
istituzione come una specie di Società delle Nazioni musulmane con una vena di
panislamismo desinato a essere invece travolto dai nuovi e robusti movimenti
nazionalistici. Qualcosa di simile era del resto apparso sulla rivista cairota
al-Manàr già nel 1922 ad opera del direttore, il siriano Rashid Rida (trad.
franc. H. Laoust, Le Califat dans la docrtine de Rashid Rida, Mémoires
del l’Institut Français de Damas, 1938) il quale si mosse in una linea
riformista assai più prudente rispetto al suo maestro Muhammad ‘Abduh (m. 1905)
e non esitò a esprimersi sul tema in questi termini: “La situazione è talmente
stravolta che molti uomini di stato, leaders militari e politici, pensano che
le istituzioni islamiche, fra cui il Califfato, son responsabili dell’attuale
decadenza e che i musulmani che le conservassero non potrebbero diventare una
nazione ricca e potente, mentre è vero esattamente il contrario” (p. 116).  Non a caso anche la nascita del movimento dei
Fratelli Musulmani (1928) risale al medesimo periodo, benché in parte
l’ideologia e la prassi da esso seguite non possono essere ridotte a una
semplice rivendicazione del Califfato. Lo shock della venuta meno di
quest’ultimo non mancò probabilmente di affrettarne e favorirne l’espansione,
ma ormai in un’agenda che aveva ben altre priorità, prima fra tutte la
liberazione dal colonialismo. Una volta
raggiunto tale obiettivo, tuttavia, emerse prepotentemente il conflitto fra le
visioni di altri che vi avevano contribuito e quella di coloro che più meno
esplicitamente miravano all’istituzione do uno Stato islamico. Per un certo
periodo la querelle si incentrò sull’applicazione della sharî’a, anche
se ben presto alcuni importanti teorici giunsero a definire indispensabile la
presa del potere come condizione imprescindibile per la realizzazione di tale
scopo. Come, dunque,
e perché si sia giunti solo ora a pretendere la restaurazione del Califfato,
forse non assente tra quanto a lungo vagheggiato, ma mai individuato almeno
come obiettivo programmatico realizzabile a breve termine resta un problema da
chiarire. Anzitutto va
tenuto conto che il fenomeno del terrorismo di matrice islamica, benché abbia
scelto bersagli simbolici anche in Occidente, non è tanto ingenuo da poter
pretendere di sconfiggere direttamente la superpotenza americana né Israele, ma
ha sempre mirato piuttosto a una destabilizzazione a danno dei vari regimi
arabi e islamici. L’acuirsi della tensione fra sunniti e sciiti e la
degenerazione della situazione irachena e siriana verso una vera e propria
guerra civile ne sono la più eloquente dimostrazione. Il caos seguito al
periodo delle cosiddette ‘primavere arabe’ ha interessato proprio
principalmente questi due paesi che da un lato sono stati le sedi storiche del
Califfato omayyade di Damasco e di quello abbaside di Baghdad e dall’altro sono
emersi come entità statuali proprio un secolo fa con la I Guerra Mondiale, il
dissolvimento dell’Impero Ottomano e l’iniqua spartizione dei territori arabi
tra Francia e Gran Bretagna in forza degli accordi segreti Sykes-Picot,
concordati proprio mentre Lawrence d’Arabia ne convinceva i governanti
all’alleanza coi futuri vincitori a danno dei turchi e dello schieramento di
cui questi ultimi facevano parte. L’instabilità
della regione, in cui si sono accumulate ed esasperate tensioni d’ogni genere –
quasi fosse una valvola di sfogo di più ampi conflitti geo-strategici -, con il
collasso repentino di molti regimi e proprio all’approssimarsi del primo
centenario della Grande Guerra che ne ha prodotto una partizione in stati
nazionali moderni spesso male impostati e ancor peggio digeriti, vede in attori
locali improvvisati, e forse in qualche apprendista stregone della politica
internazionale, gli impresari di una velleitaria ristrutturazione nella quale
le identità etnico-religiose tornino a rappresentare i nuclei attorno ai quali
coagulare forme di lealtà e di legittimazione che altre ricette non  hanno saputo garantire.
Un’occasione
troppo ghiotta per ottenere in un sol colpo numerosi vantaggi:
–   a.
La liquidazione del nazionalismo arabo, o di quel che ne resta, nonostante i
suoi meriti nell’ottenimento dell’indipendenza dalle potenze coloniali,
denunciandone l’origine allogena e quindi illegittima, se non addirittura
perniciosa per aver favorito uno spezzettamento della grande Umma in entità
fragili e litigiose;
–  b.
La messa in stato d’accusa di tutti i regimi che si sono da allora succeduti,
collusi con le potenze straniere e responsabili della svendita della causa
araba e dell’orgoglio islamico cui sarebbe stato impedito scientemente e
sistematicamente di ritornare agli antichi splendori;
–  c.
Lo scavalcamento di tutta la galassia di movimenti islamisti che negli ultimi
decenni hanno in vari modi ‘accettato’ di intraprendere una sorta di lunga
marcia nelle istituzioni, rinunciando alla lotta armata o comunque riducendola,
colpevoli di tradimento anche e forse soprattutto per esser scesi a patti con
il ‘sistema’ almeno formalmente e gradualmente indirizzato verso una
pluralizzazione delle forze politiche e sociali chiamate a confrontarsi
all’interno di una competizione politica ispirata ai modelli dell’odiato
Occidente;
– d.
L’intercettazione di un certo numero di militanti delusi e scoraggiati in forza
sia di un programma di mobilitazione senza tentennamenti, sia del collegamento
con simboli forse arcaici ma appunto per questo meno usurati dalla
globalizzazione e dalla crisi economica che han tolto smalto a tutte le
ideologie più recenti, sia infine ad un abile e spregiudicata campagna
mediatica che unisce l’utilizzo degli strumenti tecnologici più raffinati al
recupero di antichissime attese messianiche che parlano degli stendardi neri
dei combattenti musulmani provenienti da est prima della fine dei tempi e
dell’avvento dell’atteso Mahdi, la versione musulmana del Messia. 
Ogni forma di
governo che non dipenda direttamente dalle norme islamiche sarebbe priva di
qualsiasi legittimità. Non si tratta certamente di un argomento nuovo, basti
pensare (oltre ai già ciati kharijiti) che persino il Califfato Omayyade di
Damasco (terminato del 750 d.C.) fu accusato di essere solo una forma di potere
(mulk) e di essersi distaccato dalla prassi corretta improntata alla
religione (dīn) dei primi quattro Califfi ‘ben diretti’. Ma è soltanto
nell’epoca più recente che l’anatema (takfīr) rivolto all’intera società
ritenuta ‘non più musulmana’ o ‘apostata’ ha cercato di giustificare il ricorso
al terrorismo che colpisce indiscriminatamente anche innumerevoli civili
innocenti. Nessun compromesso sembra pertanto possibile, come del resto è stato
ribadito dal portavoce dell’IS Abu Muhammad al-Adnani al-Shami nella lettera
aperta resa nota all’inizio del mese di Ramadan 2014 (https://sites.google.com/site/islam201407260145/miscellaneous-files/archive-for-al-hayat-media-center/translated-official-speeches/-this-is-the-promise-of-allah—sh-abu-muhammad-al–adnani) nella quale
ogni autorità salvo quella califfale sarebbe “un semplice regno, frutto di
conquista e di conseguenza foriero di distruzione, corruzione, ingiustizia,
terrore e riduzione dell’essere umano al livello animale”. Nella stessa missiva
si annunciava tra l’altro la modifica dell’acronimo ISIS semplicemente in IS,
unica forma di Stato ammissibile per i credenti non fuorviati da “democrazia,
laicità o nazionalismo”, perciò invitati a riconoscersi in esso e a schierarsi
dalla sua parte. Con le
recenti sollevazioni che in molti paesi arabi hanno condotto alla fine di
regimi autoritari e corrotti abbiamo visto grandi masse mobilitarsi in nome di
princìpi e valori che ritenevamo estranei o comunque lontani dalla sensibilità
di popolazioni in gran parte musulmane. Anche l’assenza di slogan
anti-occidentali od ostili all’imperialismo, al neocolonialismo e al sionismo
hanno sorpreso non pochi osservatori, e chi ha potuto seguire più da vicino e
in lingua originale il dibattito che si è aperto in quei giorni ha avuto
occasione di constatare che esso verteva anche su neologismi altamente
significativi. Il concetto di laicità, infatti, comunemente espresso in arabo
col termine ‘ilmāniyya (da ‘ilm, ‘scienza’, o da ‘ālam, ‘mondo’), fortemente dipendente
da concezioni appunto razionaliste o secolariste tipicamente europee e un po’
‘datate’, è stato sostituito dal temine madaniyya
(unito a dawla, cioè ‘stato’) che
significa ‘civile’, non soltanto contrapposto a ‘militare’, ma anche a
‘clericale’ o ‘religioso’ in senso confessionale. Ciò spiega, tra l’altro,
anche la decisa partecipazione alle proteste sia di cristiani arabi sia di
musulmani non radicali. Il fatto che,
specialmente in Tunisia e in Egitto, si sia passati alla vittoria di movimenti
islamisti alla prima tornata elettorale sembrerebbe contraddittorio, ma era in
parte inevitabile che ne approfittassero inizialmente quei movimenti già
esistenti e radicati nel territorio che hanno a lungo  rappresentato l’unica forza di opposizione
organizzata in quei Paesi. Il processo di trasformazione iniziatosi con le
‘primavere arabe’  ha dunque contribuito
a un’emersione ancor più evidente di molti nodi irrisolti piuttosto che alla
loro soluzione. Si sono manifestate così dinamiche finora represse o sottostimate
che potrebbero ancora dar frutto nel medio periodo. Ne sono una
prova alcune provocazioni che esponenti dei gruppi più tradizionalisti hanno
osato manifestare e che, pur nel loro carattere paradossale o forse proprio
grazie ad esso, pongono in questione alcuni punti cruciali e dirimenti rispetto
alla posizione dei singoli e dei gruppi circa uno stato moderno e rispettoso
dei diritti umani dei suoi stessi cittadini. Il presunto ritorno
all’applicazione integrale e intransigente della cosiddetta legge islamica, che
mai è stata codificata e si è configurata piuttosto come una giurisprudenza che
come un diritto positivo, ha rappresentato il pretesto per qualcuno non solo di
proporre il ripristino (come ad es. in Tunisia dov’era vietata) della
poligamia, ma addirittura del concubinato. Il Corano, come del resto la Bibbia,
registrano infatti  la schiavitù come una
prassi che tentano di moderare nelle sue manifestazioni estreme, ma non vietano
esplicitamente. E’ chiaro che lo status di ‘non mogli’ legalmente ammissibili
dipenderebbe da una reintroduzione della schiavitù, cosa non immediatamente
percepibile né apertamente rivendicata dai sostenitori di questa restaurazione,
in quanto improponibile anche alla sensibilità dei loro stessi sostenitori…
Analogamente, quando si giunge a proporre di ritornare alla tassa di
sottomissione da parte delle minoranze cristiane o d’altra fede, è implicita
una regressione verso epoche e stili di vita di carattere feudale, dove la
mancanza di uno stato di diritto poteva far concepire come legittimo uno status di cittadinanza di serie B per i
seguaci di religioni diverse da quella dominante, dispensati dal servizio
militare ad esempio, e proprio per questo tenuti a compensare tale ‘privilegio’
con uno speciale tributo. Quando certa
propaganda si ostina a considerare l’Islam in se stesso incompatibile con la
democrazia in quanto ‘teocratico’, commette due errori fondamentali: il primo è
quello appunto di usare un termine errato, in quanto il vero rischio in ambito
musulmano non è quello della teocrazia ma del cesaropapismo, essendo il potere
politico a strumentalizzare la religione e non viceversa (almeno in campo
sunnita, che rappresenta circa il 90% del mondo islamico), il secondo è quello
di dare per scontato che tutti i musulmani ritengano giusto se non
indispensabile reintrodurre le norme mutuate dalle fonti tradizionali,
ignorando che molto probabilmente gran parte di loro riterrebbe inconcepibile
tornare alla schiavitù o alla discriminazione delle minoranze religiose una volta
posta chiaramente di fronte a tale prospettiva. Resta
tuttavia evidente che la gestione piuttosto fallimentare del consenso ottenuto
dai gruppi islamici radicali ‘storici’ in casi come quello dell’Egitto possono
aver contribuito a un ritorno di fiamma favorevole ai movimenti oltranzisti ed
eversivi quali appunto l’IS. Infine, ma
non meno importante, è l’atmosfera apocalittica che si è rafforzata: il caos
dominante quasi ovunque e la consapevolezza di vivere un periodo di profonda
crisi porta fatalmente alla ribalta simboli e slogan da ‘fine del mondo’. Lo
stesso stendardo nero del neo-Califfato è collegato nella lettera poco fa
menzionata a quello che i veri credenti innalzeranno in prossimità del Giudizio
finale per ‘passarlo al Messia’ nello scontro decisivo fra le forze del bene e
del male. Quanto tale
amalgama di catastrofismo e di attese epocali possa attrarre militanti sia
dall’interno del mondo islamico sia da altrove è intuibile, benché forse il
fenomeno dei foreing fighters abbia una rilevanza più simbolica e
mediatica che effettiva. Il 19
settembre 2014 oltre centoventi sapienti musulmani hanno reso nota una ‘lettera
aperta’ indirizzata al neo auto-dichiarato Califfo, significativamente nota con
un titolo che non vi appare You Don’t Understand Islam. Il testo tenta
di confutare le argomentazioni del ‘discorso d’insediamento’ di al-Baghdadi con
ampio ricorso a versetti coranici e detti profetici. Se da un lato ciò è stato
in qualche misura inevitabile, dall’altro mostra quanto lo pseudo-Califfo abbia
costretto i suoi avversari a confrontarsi con lui sul medesimo terreno, il che
è già di per sé emblematico. Un conflitto sull’interpretazione delle Fonti
rivela infatti da un lato quanto esse siano ancora potenti, ma dall’altro
manifesta anche una spaventosa carenza di elaborazione di un discorso politico
alternativo, esito di una stagnazione e perfino di una regressione
intellettuale quanto mai perniciosa. E’ tuttavia
rilevante che molte prassi dell’IS siano state condannate proprio in forza di
quelle fonti, come l’uccisione di civili innocenti e disarmati o di emissari
diplomatici, l’inammissibile ‘scomunica’ di altri musulmani, il mancato
rispetto per le minoranze religiose, le conversioni forzate, l’indiscriminata
applicazione di pene corporali e la distruzione di luoghi cari alla pietà
popolare. Sul versante politico, tuttavia, si ammette che il Califfato sia
un’istituzione che i musulmani dovrebbero restaurare, senza però riconoscere ad
al-Baghdadi l’autorità necessaria per poterlo pretendere. Molto meno chiaro
sembra chi e a quali condizioni potrebbe farlo. L’amore per la propria patria,
intesa non come la Umma araba o quella islamica, viene difeso, così come si
reputa assurda la richiesta che i musulmani emigrino per vivere finalmente
sotto tutela di un vero stato islamico e tantomeno per supportarlo e
difenderlo. Le ragioni storiche e soprattutto l’esperienza dei milioni di
credenti che da secoli ormai conducono un’esistenza perfettamente in linea coi
principii e i precetti dell’Islam in condizioni socio-politiche svariatissime
non è purtroppo in grado di mettere in crisi un modello mitico che sembra
resistere a ogni contestualizzazione e analisi critica articolata.
     
CONCLUSIONI
Alcune
problematiche ‘classiche’ del rapporto tra religione e politica in ambito
islamico tornano dunque a ripresentarsi, anche se con spirito e in forme
inediti. Si tratta di una questione che per sua stessa natura è destinata a non
essere mai definitivamente risolta, ma costantemente riletta e reinterpretata
alla luce sia dei suoi presupposti più antichi sia delle esigenze e delle
inquietudini del presente. Ma la realtà degli stati nazionali moderni che si
sono via via costituiti in tutta l’area musulmana difficilmente potrà esser
rimessa in discussione, tantomeno da parte di gruppi settari ed estremisti,
fortemente localizzati e determinati da conflittualità contingenti. La
resurrezione di un Califfato almeno come suprema autorità morale dell’immensa e
articolata Umma musulmana manca ancora de minimi requisiti basilari, tutto il
resto gioca invece a favore di un’ulteriore e drammatica frammentazione etnica
e religiosa: più che di un sogno si tratta di un incubo, pagato a caro prezzo
non solo dalle minoranze del Medio Oriente, ma dalla totalità della popolazione
che rischia di non trovare più nella fede islamica almeno quel riferimento
etico e spirituale che, nonostante tutto, per secoli esso ha rappresentato per
milioni e milioni di credenti. Per gli arabi in particolare, poi, tutto ciò
avviene come se ogni acquisizione compiuta almeno negli ultimi due secoli, e
l’ancor più ricca e poliedrica esperienza delle epoche precedenti,
semplicemente non fosse mai esistita. Lo stesso
riformismo islamico che durante la Nahda ha effettivamente saputo aprire
inedite prospettive all’interno di una dinamica generale di rinnovamento,
si  è presto trovato ad assumere una
funzione di supplenza rispetto a quanto nella società è stato invece bloccato
da involuzioni autoritarie. E ha per di più dovuto farlo rispondendo a esigenze
contrastanti e quasi mai in posizione di reale indipendenza dal potere
politico. Le parole d’ordine religiose che riemergono sono pertanto logore già
in partenza e vanamente pretendono di rispondere a quell’ansia di riscatto e di
rinascita nazionale che pure ne determinano il relativo successo, in mancanza
di alternative. Ciò che non si è realizzato nelle istituzioni e nella prassi di
stati solo apparentemente moderni, non ha alcuna chance di prodursi in forza di
slogan più demagogici che carismatici, velleitari nelle intenzioni e atroci
nelle prassi, ancora una volta a danno di popoli che stentano ad esser
riconosciuti come cittadini e sembrano condannati a rimanere sempre e comunque
sudditi.  

[1]Sayyid Qutb, Ma`âlim fî al-tarîq (Pietre miliari),
Beirut 1995 (ristampa), p. 151.
[2]P. J. Vatikiotis, Islam: stati senza nazioni, Milano 1993,
p. 17.
[3]S. Mûsâ,
“al-Taraddud bayna al-Sharq wa-l-Gharb” (L’indecisione tra Oriente e
Occidente”), in al-Yawma wa-ghadan
(Oggi e domani) riportato in Aa. Vv. , Fî-l-qawmiyya
al-`arabiyya
(Sul nazionalismo arabo), Beirut 1980, p. 340.
[4]G. E. Von Grunebaum, L’identité
culturelle de l’islam
, Parigi 1973, p. 141.
[5]F. Castro, “La
codificazione del Diritto privato negli Stati arabi contemporanei”, in Rivista di Diritto Civile, n. 4 (1985),
pp. 388.
[6]Cf. J. Fontaine, “Khéreddine, réformiste ou moderniste?”, in Institut Belles Lettres Arabes, 1967,
30, pp. 75-81; Kh. al-Tounsî (a cura di M. Morsy), Essai sur les réformes nécessayes aux Etats musulmans, Parigi 1987.
[7]Cf. H. Laoust, “Le Réformisme orthodoxe des ‘Salafiya’ et les
caractères généraux de son orientation actuelle”, in Revue des Etudes Islamiques, 1932, VI/2, pp. 385-434.
[8]B. Lewis, Il suicidio dell’Islam, Milano 2002, pp.
124-125.
[9]H. Boularès, L’islam. La peure et
l’espérance
, Parigi 1983, p. pp. 8-12.
[10]Cfr. O.
Carré, L’islam laico, Bologna Parigi
1997.
[11]Ibidem, pp. 31ss.

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